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Pink Friday: il quarto libro in palio!

-5 giorni alla fine del #pinkfriday di #pennaecalamaro.

Il quarto libro in palio si sorseggia all’ora del tè. Tutto ciò che vi devo di Virginia Woolf è un inno all’amore che la scrittrice provava per le sue amiche e, soprattutto, per la sorella.

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Buona fortuna!

La scrittrice abita qui – Sandra Petrignani

Sandra Petrignani e le case delle scrittrici. E’ già passato quasi un anno da quando, carica di aspettative, ho preparato valigie e  attrezzatura del mestiere (cioè una vecchia macchina fotografica, un taccuino e una penna) per andare a fare una delle esperienze più entusiasmanti della mia vita, mettermi Sulle tracce delle grandi scrittrici per andare nei posti dove sono nate o hanno vissuto.
Quando mi è capitato tra le mani La scrittrice abita qui di Sandra Petrignani in prossimità dell’anniversario del viaggio, non potevo non prenderlo come un segno del destino. Soprattutto perché tra lei e me c’è una scrittrice in comune.
La trama
Dalla Sardegna di Grazia Deledda all’America di Marguerite Yourcenar, dalla Francia di Colette all’Oriente di Alexandra David-Néel, dall’Africa e Danimarca di Karen Blixen all’Inghilterra di Virginia Woolf. Un lungo viaggio in case-museo che, attraverso mobili e suppellettili, stanze e giardini, raccontano la storia sentimentale delle più significative scrittrici del Novecento. Da Parigi alla Provenza, dal Kenya al Maine, da Copenhagen al Tibet, Sandra Petrignani le cerca nei loro oggetti, interroga i loro diari, la poltrona in cui si sedevano, il portafortuna da cui non si separavano, ma anche le persone che ancora conservano un ricordo vivo di loro. Così il viaggio diventa un giro del mondo dove a ogni tappa è come se le protagoniste in persona aprissero la porta e svelassero i segreti della loro vita. Le mele nel tinello della Yourcenar e il suo cane ancora vivo, il tempio tibetano ricreato a Digne dalla David-Néel o la stanza chiusa che fu sua nel monastero del Sikkim dove si ritirò in meditazione, la Barbagia della Deledda con le fate e i folletti che influenzarono la sua fantasia, il grammofono della Blixen portato con sé dalla sua Africa in ricordo dell’uomo che aveva amato e perduto per sempre: Sandra Petrignani ascolta “la voce delle cose” e la traduce nelle storie di questo libro.

La voce delle case 

L’idea di partenza è interessante: visitare le case delle scrittrici, nella supposizione che lì l’anima delle persone si riveli in tutta la sua essenza. Solo nella nostra casa, nell’intimità delle nostre cose, riusciamo a essere noi stessi, a rivelare chi siamo, attraverso gli oggetti, le fotografie, l’arredamento, gli abiti. Siamo nudi, agli occhi di chi vuole scoprire il nostro carattere e le nostre abitudini.
Le sei scrittrici, Grazia Deledda, Marguerite Yourcenar, Colette, Alexandra David-Néel, Karen Blixen e Virginia Woolf non hanno niente in comune. A volte si sono sfiorate o incontrate, ma rimangono mondi a se stanti. Il che rende chi legge libero di scegliere da quale capitolo e da quale autrice partire. Io sono partita da Virginia Woolf, perché ho scritto da poco una sua biografia e mi interessava conoscere qualche altro aspetto, non avendo visitato la casa che condivideva con il marito, ma solo il famosissimo Godrevy Lighthouse di Gita al faro. Cominciando dalla fine, e da una biografia che in parte conoscevo già, ho pensato che malauguratamente al saggio non sono state allegate le fonti da cui Sandra Petrignani ha preso le informazioni. Peccato, perché sarebbe stato invece utile non solo per approfondire alcune parti che mi hanno incuriosito, ma anche per verificare delle considerazioni che, nel caso di Virginia Woolf per esempio, rimangono nel limbo dell’opinione personale che su di lei si è fatta l’autrice del saggio e che forse non appartengono davvero alla storia della scrittrice.

Verificare le fonti è impossibile 

Dico forse, perché, appunto, verificare attraverso le fonti è impossibile. Un limite dell’opera che secondo me affligge il lettore soprattutto quando si trova ad affrontare i capitoli delle scrittrici che conosce poco o non conosce affatto. Nel mio caso, è successo nel capitolo dell’esploratrice Alexandra David-Néel. Come è giusto che sia, delle biografie abbiamo soltanto dei cenni laddove servano per inquadrare meglio il personaggio alla luce della dimora in cui ha abitato, e non viceversa. Il che è probabilmente funzionale al tipo di monografia che Sandra Petrignani ha voluto realizzare, ma che lascia molte ombre nella ricostruzione delle vite. Salti temporali continui rendono difficile ricomporre la vita delle donne ritratte, probabilmente perché il lavoro sarebbe diventato immenso e un libro di 220 pagine sarebbe diventato un tomo di mille.

L’anima delle case e quella delle persone

Il merito principale è comunque quello di aver aperto le porte di queste case abitate da donne fuori dall’ordinario. Leggere fa venire voglia di preparare una valigia e partire  immediatamente, per aprire le stesse porte e curiosare all’interno. Quello che però scaturisce è una distanza emotiva, uno stile scarno che poco rappresenta i sentimenti burrascosi delle donne raccontate. Sì, chiudendo come ho fatto io con Grazia Deledda, sembra quasi che le case siano vuote, come se l’anima delle scrittrici che vi hanno abitato le abbiano lasciate. Così non è, non può essere. Perché l’anima di una casa e l’anima delle persone che l’hanno abitata rimangono unite indelebilmente. E per sempre.
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Virginia Woolf. Centotrentasei anni fa nasceva a Londra, al 22 di Hyde Park Gate nel quartiere di Kensington, Adeline Virginia Stephen, scrittrice, critica letteraria e saggista, editrice e donna che influenzò enormemente la letteratura del ‘900 con la sua arte visionaria. Tutti conosciamo il suo nome, Virginia, e il cognome del marito, Woolf, eppure la sua personalità così complessa sfugge a ogni classificazione e gabbia mentale. Per questo il compito di tracciarne un profilo univoco è arduo e, forse, non può che tradursi in un esercizio di stile fine a se stesso.

La fine

Virginia-Woolf-New-York-Times-Missing-In-England-April-3-1941Il 3 aprile 1941 il New York Time pubblica la foto di Virginia Woolf con la didascalia “Missing in England”, scomparsa in Inghilterra. I biglietti d’addio che sei giorni prima ha lasciato ai cari non lasciano grossi margini di speranza, eppure il corpo non è stato trovato, quindi ufficialmente è ancora missing. Di lì a poco, il fiume Ouse, nel Sussex, restituisce il suo corpo per una degna sepoltura. I coniugi erano a Rodmell, il piccolo villaggio del Sussex dove solitamente trascorrevano le vacanze, perché c’era la guerra e una bomba aveva reso inabitabile la loro casa di Londra. Ma per capire come mai una scrittrice osannata abbia fatto questa scelta dobbiamo tornare indietro, alla sua infanzia.

L’infanzia

22-di-Hyde-Park-Gate-casa-natale-di-Virginia-WoolfAdeline Virginia Stephen nasce il 25 gennaio 1882 a Londra, al 22 di Hyde Park Gate nel quartiere di Kensington. La famiglia è agiata e influente. Suo padre, sir Leslie Stephen, era un autore, storico, critico letterario e alpinista, vedovo in prime nozze della figlia dello scrittore William Makepaece Thackeray (La fiera delle vanità, Barry Lindon), con la quale aveva avuto una figlia, Laura. Sua madre, Julia Prinsep Jackson, figlia di un medico e nata in India, era infermiera e aveva lavorato come modella per pittori del calibro di Edward Burne-Jones. Anche lei era già stata sposata e aveva avuto i figli George, Stella e Gerard. Oltre a Virginia, gli Stephen insieme ebbero altri tre figli: Vanessa, Thoby e Adrian.

Virginia ha la fortuna di vivere in un ambiente ricco di stimoli e influenze della società letteraria vittoriana. Henry James e Thomas Eliot sono tra i frequentatori abituali di casa sua, insieme a pittori, fotografi e artisti in genere. Alle ragazze Stephen, tuttavia, non era concesso di andare a scuola, come prescriveva la rigida regola educativa vittoriana. La loro istruzione era curata direttamente dai genitori e per gli approfondimenti tutti loro potevano liberamente accedere alla fornitissima biblioteca dello studio paterno. Fin da subito, Virginia e i fratelli manifestano la loro inclinazione letteraria. Tanto che quando Virginia ha nove anni creano un giornale domestico, Hyde Park Gate News, in cui scrivono storie inventate che diventano una sorta di diario familiare.

L’adolescenza e la Cornovaglia

talland houseFino all’età di 13 anni, la famiglia Stephen passa le estati a Talland House, una casa in Cornovaglia, tra Polperro e Looe, che il padre aveva cominciato ad affittare nel 1882, l’anno della sua nascita. Proprio St. Ives le ha offerto l’ispirazione per scrivere Gita al faro (1927), uno dei suoi romanzi più famosi. O meglio, a darle l’ispirazione è stato un faro. Gita al faro inizia con la famiglia intera riunita nella casa dell’Isola di Skye e il figlio James che chiede di poter andare in gita al faro il giorno successivo. La madre gli dice che se il tempo sarà bello andranno, mentre il padre risponde bruscamente che non si farà alcuna gita perché il tempo sarà brutto. Anche se il romanzo è ambientato da un’altra parte, era proprio al Godrevy Lighthouse che l’autrice pensava quando lo scrisse. Alla Cornovaglia appartenevano infatti i suoi ricordi più intensi e sereni. Tuttavia, questa parentesi felice della sua vita è stata bruscamente interrotta dalla morte della madre. Il padre, anche lui duramente colpito dalla perdita, vende immediatamente l’amata casa al mare. Solo due anni dopo muore anche la sorellastra Stella e nel 1904 il padre. Questi eventi luttuosi avvenuti a breve distanza l’uno dall’altro portano Virginia al primo serio crollo nervoso, tanto più che ai lutti si sommano agli abusi sessuali subiti da lei e dalla sorella Vanessa da parte dei fratellastri George e Gerald Duckworth.

La giovinezza

bloomsburyDopo la morte del padre, si trasferisce con i fratelli Toby e Vanessa nel quartiere londinese di Bloomsbury, in Gordon Square, dove insieme danno vita al primo nucleo del circolo intellettuale noto come Bloomsbury Group. Il Bloomsbury diviene ben presto il centro culturale inglese, soprattutto durante le serate del giovedì, riunioni nelle quali il gotha degli intellettuali inglesi si ritrova per parlare di politica e arte. Nel 1905 comincia la sua attività di critica letteraria per il Times, facendo conoscenza con importanti intellettuali, tra cui Bertrand Russell, Edward Morgan Forster, Ludwig Wittgenstein e il futuro marito. Il gruppo si chiamava Gli apostoli. Nel 1906, al ritorno da un viaggio in Grecia Thoby, il fratello tanto amato, viene ucciso da una febbre tifoide e l’anno dopo Vanessa si sposa. Tutti questi avvenimenti destabilizzano Virginia, che comunque è in piena attività: dà ripetizioni serali alle operaie di un collegio della periferia, milita nei gruppi delle suffragette, pubblica.

Il matrimonio e la Hogarth Press

virginia-and-leonard-woolfNel 1912 sposa Leonard Woolf, un teorico della politica. Woolf è un uomo devoto, che le sarà sempre accanto fisicamente e spiritualmente, aiutandola a completare nel 1913 il suo primo romanzo, The voyage out (La crociera). pubblicato nel 1915. Lo stress spinge Virginia Woolf verso un altro periodo di depressione. Per farle ritrovare fiducia ed equilibrio, il marito le propone di aprire una casa editrice. Nel 1917, fondano insieme la Hogarth Press, che pubblica scrittori nuovi o autori stranieri poco o male tradotti. Accanto ai loro libri, Virginia e Leonard Woolf riescono in alcuni anni a fare apparire nel catalogo del Hogarth Press delle opere decisive come quelle di T.S. Eliot, Katherine Mansfield, Freud, Rilke, Svevo, Gorki, Cechov, Tolstoj e Fëdor Dostoevskij, anche se con un errore clamoroso rifiutano di pubblicare l’Ulisse di James Joyce.

Nel 1919, Virginia Woolf pubblica il suo secondo romanzo, Notte e giorno, la cui protagonista, prigioniera di una famiglia di letterati, ricorda Vanessa. Nel 1922 pubblica La camera di Jacob, il primo racconto destrutturato, incentrato sulla morte di un giovane deceduto che somiglia molto al fratello Thoby. Nel 1925 pubblica La signora Dalloway, soliloquio che racconta una giornata di Clarissa Dalloway, moglie frivola di un deputato occupata dai preparativi del prossimo ricevimento, che evoca la madre di Virginia stessa. Con Gita al faro (1927), la romanziera ritorna alla storia familiare, probabilmente come detto la sua.

Orlando

30-virginia-vita.w190.h190L’anno dopo pubblica Orlando, che occupa un posto molto particolare nella sua produzione e nella sua vita: dietro la biografia immaginaria di un personaggio androgino che attraversa quattro secoli di storia inglese, c’è in realtà un poema d’amore indirizzato alla scrittrice e sua grande amica Vita Sackville-West. Nel successivo saggio Una stanza tutta per sé del 1929, la Woolf riflette sul donna e narrativa e, più in generale, sul rapporto tra donna e libertà, donna e potere, donna ed espressione. Il tema dell’indipendenza economica della donna come presupposto per la libertà viene portato a compimento nel 1938, con Le tre Ghinee.

La malattia progredisce

Nel corso degli anni ‘30, la depressione di Virginia Woolf si riaffaccia. Diversi fattori l’alimentano: la lontananza di Vita Sackville-West, la morte del figlio maggiore di Vanessa, ucciso durante la guerra civile in Spagna, il nazismo e il timore di un’invasione tedesca, che le origini ebree di Leonard acuisce. Non a caso, l’ossessione della solitudine e della morte è al centro de Le onde (1931). Nel 1937 esce Gli anni: in questa lunga cronaca, costruita intorno dell’agonia di una madre, Virginia Woolf traccia la storia di una famiglia dell’alta borghesia. Il suo ultimo romanzo viene pubblicato l’anno stesso della sua morte, nel 1941. Tra un atto e l’altro (1941) è la metafora di una festa di paese dove si mescolano illusione e realtà, passato e presente, per rivelarsi infine una meditazione sulle fondamenta della civilizzazione. Subito dopo, il 28 marzo 1941, Virginia Woolf decide di porre fine alla sua esistenza terrena riempiendosi le tasche di sassi e lasciandosi annegare nel fiume Ouse. Lascia come saluto al marito una lettera piena d’amore. Dopo la sua morte, vengono pubblicati Diario di una scrittrice nel 1953 e Momenti dell’essere nel 1976, oltre a carteggi e lettere private, così determinanti per indagare la personalità tanto complessa della grande scrittrice inglese.

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Tutto ciò che vi devo – Virginia Woolf

Virginia Woolf. Ci sono scrittori senza amici, chiusi nell’ossessione e nella solitudine della propria arte; ci sono autori con un unico, insostituibile sodale, uno sposo, una sorella, un complice, un compagno, a volte magari un po’ ottuso, benevolo, innocuo. E poi ci sono persone per le quali gli amici sono consustanziali al proprio animo e la vita è degna di essere scritta e vissuta proprio in virtù di coloro con cui la si condivide. A questo ultimo gruppo appartiene di certo Virginia Woof.

Le lettere

Virginia scrive alla sorella Vanessa e alle sue amiche Vita Sackville-West, Ethel Smyth, Katherine Arnold-Forster, Violet Dickinson, Madge Vaughan (la Sally di Mrs Dalloway) e Nelly Cecil. In questo minuscolo libro l’editore ha scelto alcune missive significative all’interno di un ricco epistolario che la scrittrice ha alimentato dal 1903 al 1941 con le figure a lei vicine che più l’hanno coinvolta emotivamente, ondeggiando continuamente tra amicizia, amore e sorellanza.

Solo le donne stimolano la mia immaginazione

L’incipit dell’introduzione di Eusebio Trabucchi inquadra fin dall’inizio le pagine che stiamo per leggere e la persona che si svelerà sotto i nostri occhi. In un pomeriggio tranquillo e lento ho passato qualche ora in compagnia di un buon tè, un libro che ha il solo difetto di essere troppo breve e una scrittrice che fino a quel momento avevo trovato ostica, difficile. D’altra parte, in una lettera alla sorella descrive il suo rapporto tumultuoso con la scrittura così: “cerco sempre di andare dietro alle parole; e poi all’improvviso mi piombano addosso“. Leggendo questa corrispondenza, invece, e sentendomi rassicurata dall’esplicita accettazione di Virginia allo sguardo di estranei “decideranno i posteri se conservarle e cosa farne”, ho scoperto un mondo che va oltre la sua figura di scrittrice anticonformista e poliedrica. Un mondo, privato e tenero, in cui la scrittrice mette da parte la corazza che la contraddistingue e si apre a sentimenti che in fondo l’accomunano a tutti noi: l’accettazione del lutto quando scrive che il fratello è morto confessando di aver mentito nelle lettere precedenti per non turbare l’amica in convalescenza, il pettegolezzo spiccio e ironico sui rapporti amorosi di comuni conoscenti, l’incertezza sulle doti d’intelletto e artistiche, la rivalità  con altre autrici contemporanee sui dati di vendita (mi ricorda qualcosa!), l’insicurezza e la voglia di essere amata e capita, l’allegria e l’occhio acuto con cui racconta una giornata con la nipote e una sua amichetta che finisce con tè e pane caldo, la confusa e divertente oscillazione tra il desiderio di accettare una pelliccia ricevuta in dono e il ribrezzo per l’oggetto ricevuto, il ricordo felice delle estati passate in Cornovaglia con la famiglia da bambina.

Umana, troppo umana

Come direbbe Nietzsche, una Virginia Woolf umana, troppo umana. O, piuttosto, una ragazza prima e una donna poi dotata di grande sensibilità , che nelle lettere si esprime con tutta la libertà concessa da un mezzo di comunicazione privato, senza gli obblighi imposti dall’editoria, e in cui comunque il suo genio è manifesto. Il perché è presto detto, come scrive a Nelly Cecil “penso davvero che dovresti mettere mano a un romanzo: sai scrivere lettere, che è molto più difficile“. Di chi scrive romanzi, invece, non pensa un granché bene: “Il peggio è che in pochi hanno l’intelligenza per scrivere romanzi veramente brutti; mentre chiunque è in grado di tirarne fuori uno decente, e insulso. Quest’affermazione perentoria mi ha fatto sorridere: chissà cosa penserebbe Virginia di noi scribacchini moderni, attaccati come cozze alle stelline amazon!

Penso che Virginia ci prenderebbe ironicamente in giro perché lei sapeva bene cosa conta davvero nella vita: l’amore, gli affetti, le persone. Per questo la sua penna mordace rivela senza remore a Ethel Smyth a cosa lei è determinata ad attaccarsi come una cozza:

“Toglietemi gli affetti e sarò un’alga fuori dal mare, la carcassa di un granchio, un guscio vuoto. Le interiora, il midollo, il succo, la polpa, la stessa mia luce, non ne resterebbe più nulla. Sarei spazzata via, finirei in una pozzanghera e annegherei. Toglietemi l’amore per gli amici e il sentimento bruciante e continuo dell’importanza, dell’insondabilità  e del fascino della vita umana e non sarei altro che una membrana, una fibra, senza colore e senza vita, buona solo per essere buttata via come una deiezione“.

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Jamaica Inn: leggende, fantasmi, navi pirata e l’incontro con la quinta scrittrice

Dopo un sonno ristoratore, cullati dal vento forte che a tratti ci è sembrato potesse far crollare la fattoria, ci siamo alzati la mattina di buonumore e in preda a una fame pazzesca. Dopo il cornish cream tea che la padrona di casa ci aveva gentilmente offerto la sera prima, infatti, non ce la siamo sentita di cenare. Scelte che ovviamente si pagano il giorno dopo. La colazione ci è stata servita nella sala da pranzo della fattoria, dove ci siamo ritrovati a banchettare con una full english breakfast vista oceano. Una meraviglia per gli occhi e per lo stomaco: caffè, tè, uova strapazzate, bacon, yogurt e panini fatti in casa, fragole, frutta secca, burro, miele, cereali e biscotti, con la signora che faceva avanti e indietro continuamente per assicurarsi che non fosse poco. Poco??? Sembrava un pranzo nuziale! Siamo grati per aver incontrato sulla nostra strada gente autenticamente ospitale, che ha voluto condividere con noi anche i segreti della cucina. Appena ho chiesto alla mia ospite come avesse fatto i panini, ha tirato fuori il libro di cucina e mi ha invitato a fotografare la ricetta, ha preso dalla cucina una ciotola con l’impasto in lievitazione per farmi vedere come deve venire, mi ha regalato una bustina del lievito secco che usa lei per provarci e mi ha anche chiesto di spedirle la foto dei panini per farle vedere come sono venuti. Con una certa rassegnazione, e tanti saluti festosi da entrambe le parti, ci siamo salutati e abbiamo ripreso il nostro viaggio, a pancia piena e mente leggera.

Direzione

Jamaica Inn stands today, hospitable and kindly, a temperance house on the twenty-mile road between Bodmin and Launceston.

Oggi il Jamaica Inn è una locanda che non vende alcolici e sorge, ospitale e accogliente, lungo la strada dche va da Bodmin a Launceston.

Così Daphne Du Maurier nel 1935 descriveva il pub verso cui siamo diretti nell’introduzione all’omonimo romanzo. Ed è proprio per lei che sto venendo qui, perché è un posto in cui la scrittrice, che visse a lungo in Cornovaglia, amava soggiornare e che le ha dato l’ispirazione per realizzare uno dei suoi romanzi di maggior successo, successivamente trasposto al cinema da Alfred Hitchcock in un film di grande successo.

Non è un posto di passaggio, per arrivare fin qui bisogna essere intenzionati a vederlo e, dopo averci passato qualche ora, leggere il romanzo assumerà tutto un altro sapore. Ora vi racconto perbene (spero). Siamo arrivati più o meno all’ora di pranzo in questa landa desolata, dove praticamente c’è solo questa locanda. E’ subito chiaro come e perché questa costruzione avesse assunto un ruolo centrale come snodo del contrabbando subito dopo la sua costruzione, nel 1750. Formalmente locanda per viaggiatori di passaggio, in realtà veniva utilizzata per nascondere i prodotti di contrabbando che arrivavano via mare. Pare che circa la metà del brandy e un quarto 20170819_122748_LLSdi tutto il tè che veniva contrabbandato nel Regno Unito sbarcasse lungo le coste della Cornovaglia e del Devon. Il Jamaica Inn, in particolare, si trovava in un luogo remoto e isolato, quindi ideale per fermarsi sulla strada prima di continuare verso il Devon e oltre. Nel 1778 fu anche allargato, per includere una stazione per le carrozze, scuderie e una selleria, facendo assumere all’edificio l’aspetto a L che vediamo ancora oggi. Adesso è più banalmente una tappa folcloristica, dove si può dormire, mangiare, bere birra e visitare il museo dei contrabbandieri. La taverna si chiama così non perché nascondesse il rum di contrabbando importato dalla Giamaica, ma prende il nome dalla più importante famiglia di proprietari terrieri locali, i Trelawney, in omaggio al fatto che due suoi membri furono governatori della Giamaica nel XVIII secolo. Secondo gli storici, all’epoca sulla costa della Cornovaglia abbondavano delle gang che attiravano le navi sugli scogli proiettando luci che gli armatori scambiavano per quella dei fari, per poi razziare barche e navi appena queste andavano a infrangersi sugli scogli e loro stessi venivano incaricati di disincagliarle.

Daphne Du Maurier al Jamaica Inn

La storia dei contrabbandieri è molto interessante e avevo già fatto la loro conoscenza a Polperro, Mullion, Lizard Point, Tintagel e Boscastle, ma non è questo il motivo per cui mi sono avventurata fin qui. Sono qui per la quinta delle scrittrici che sono venuta a trovare in questo viaggio letterario. Dopo Agatha Christie, Jane Austen, Virginia Woolf e Rosamunde Pilcher, stavolta voglio incontrare Daphne Du Maurier.

Il Jamaica Inn, infatti, è così famoso perché la scrittrice nel 1936 pubblicò un romanzo di grande successo incentrato proprio sulla storia IMG_6460di una giovane che, alla morte della madre, va a stabilirsi dagli zii, locandieri del Jamaica Inn, senza sapere in quali traffici loschi si troverà invischiata. La stessa autrice ha raccontato di avere avuto l’ispirazione dopo che lei e un amico nel 1930 si persero nella nebbia mentre cavalcavano e si fermarono nella notte nella locanda perché troppo pericoloso proseguire. Durante il tempo trascorso nella taverna, si dice che il parroco locale l’abbia divertita con storie di fantasmi e racconti di contrabbando. Più tardi, Daphne du Maurier continuò a trascorrere lunghi periodi presso l’Inn, parlando apertamente a più riprese del suo amore per la località. Il romanzo è poi diventato un film diretto da Alfred Hitchcock nel 1939, che l’anno successivo diresse anche Rebecca la prima moglie, altro titolo della scrittrice, e qualche anno più tardi il più famoso Gli uccelli.

Il Museo

Abbiamo visitato il museo, soffermandoci in particolare sull’ala dedicata proprio a Daphne. In sua 30memoria, i proprietari del Jamaica Inn hanno ricreato il suo studio, con la scrivania e la macchina da scrivere, insieme a un pacchetto di sigarette “Du Maurier”, chiamate così in onore del padre, famoso attore britannico, e un piatto di  mentine, le sue caramelle preferite. Ci sono poi una serie di oggetti appartenenti all’era del contrabbando e un video che ricostruisce la storia della locanda, che si dice sia infestata dai fantasmi. Secondo la credenza popolare, infatti, nelle notti più fredde, al chiaro di luna si ode il rumore dei cavalli al galoppo e delle ruote, voci che parlano in una lingua sconosciuta, cornico antico?, si scorgono delle IMG_6464ombre che sfrecciano e un uomo che appare e scompare tra le porte in abiti ottocenteschi. E cosa dire della storia più terribile? Molti anni fa uno sconosciuto sedeva al bar bevendo birra. Dopo essere stato chiamato fuori, lasciò la birra e uscì nella notte. Quella fu l’ultima volta che venne visto vivo. La mattina seguente, il suo cadavere fu trovato nella brughiera, ma le cause della morte e l’identità del suo aggressore rimangono ancora un mistero. la cosa strana, fu che in molti l’avevano visto seduto su un muretto. I padroni di casa, sentendo dei passi di notte lungo il passaggio che conduce al bar, credevano fosse lo spirito dell’uomo morto che tornava per finire la sua birra. Nel 1911, suscitò sconcerto nella stampa la notizia di uno strano uomo che era stato visto da molte persone seduto sul muro fuori dall’Inn. Non parlava, né si muoveva, né rispondeva a un saluto, ma il suo aspetto era simile a quello dello straniero assassinato. Potrebbe essere il fantasma del morto? E quale strano obbligo lo porta a ritornare così spesso al Jamaica Inn?

Ci sono davvero i fantasmi?

Vi ho spaventato? No, vero? Infatti anch’io mi sono fatta due risate. Ora però dovete avere pazienza e leggere cosa mi è successo appena uscita dal museo. Ho chiesto al ragazzo del bar di darmi una birra “leggera”. Mi sono alzata da tavola ondeggiando, in qualche modo sono arrivata al bagno e il cellulare mi è caduto nella tazza. Mentre asciugavo il cellulare sotto l’aria calda, mi è sembrato di sentire l’eco di una risata. Un contrabbandiere si è forse divertito con me?

Arrivederci Cornovaglia

Apatica e muta, tipo lo straniero assassinato, vi devo dire che la mia esperienza favolosa in Cornovaglia finisce qui. Il mio è un arrivederci, ne sono sicura, e il viaggio letterario va avanti. Lasciatemelo però affermare con il cuore in mano: la Cornovaglia è un luogo dell’anima, e se ci ho convinto a fare un viaggio come il mio che comprende delle tappe in altre regioni del Regno Unito, datemi ascolto, lasciatela per ultima. Perché dopo essere stati rapiti e ammaliati da questa terra magica, il resto vi sembrerà niente. O quasi. Domani vi racconterò di Salisbury, della Magna Charta e dell’orologio più antico del mondo.

(continua)

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