Romancè, puntata 3: Sangue in canonica

Romancè continua con la terza puntata del racconto. Torniamo un attimo indietro, alla giornata dell’omicidio. Chi è arrivato sulla scena del delitto? Se state leggendo il racconto, lasciatemi un commento alla fine, così saprò che siete passati!

***

Romancè, il 14 luglio 2021

“Mai nessuno che trovi un cadavere alle 11 di mattina, dopo che uno si è bevuto succo d’arancia corretto e cornetto con calma, mentre legge il giornale. No, troppo facile. Porca miseria, ciò la barba di tre giorni e i capelli unti”.

“Dirameremo un appello agli assassini: per cortesia, l’ispettore vuole sbarbarsi, lavarsi e desinare. Rispettate le ore di silenzio condominiale, grazie”.

Con un singulto rassegnato, l’ispettore poggiò la testa indietro e chiuse gli occhi. Ma porca miseria 2, in fumetti, libri e telefilm, l’agente è sempre un mezzo cretino e il capo quello col cervello. Proprio a lui doveva capitare l’agente sveglia, ironica e pure belloccia? Che barba, che noia. La verità è che lui non vedeva l’ora di andarsene in pensione, come Bloch. Solo che Bloch aveva la concreta speranza di andarci, in pensione, e gli sembrava di aver letto che Bonelli alla fine ce l’avesse mandato. Ma lui? Neanche quarant’anni e neanche un caso fallito, finora. Grazie alla belloccia, mica a lui. E Bloch era pure pelato, lui neanche quel favore aveva ricevuto. Quanto avrebbe resistito ancora tra teste rotte e pistolettate in mezzo alla strada? Quel lavoro non faceva per lui, chissà perché l’aveva scelto poi, ci pensava e ripensava, ma non riusciva proprio a ricordarselo. Sicuramente non poteva essere per lo stipendio.

“Siamo arrivati. Se resiste dieci minuti senza vomitare, dopo le offro un caffè”.

Un caffè, dio quanto ne avrebbe avuto bisogno. Le sei di mattina, già un caldo bestia che si affacciava, e lui che stava per entrare in chiesa. E con il vomito come unico punto in comune con il povero Bloch. Speriamo che almeno stare a stomaco vuoto mi aiuti.

“Ha bisogno di un antiemetico?”, sogghignò la belloccia. Gli leggeva nel pensiero, quell’infida.

“Le preparo un tè?”, si preoccupò la perpetua.

Bella coppia la poliziotta e la perpetua. Neanche fossimo in un giallo di Padre Brown.

“No, grazie. Lasciatemi osservare con attenzione, per favore”.

Il medico legale si limitò a lanciargli un’occhiata disgustata, per la serie “ma chi t’ha raccomandato?”, prima di tornare alle sue foto.

Belloccia scattava foto a ripetizione e scriveva appunti sul suo mini blocco. Tutto, dal copri cellulare al pennino, era rosa con paillettes argento. Eppure, la perpetua e il medico legale la guardavano con rispetto, in attesa delle sue domande. Lui avrebbe pure potuto annegare nelle paillettes e nessuno se ne sarebbe accorto.

“Le forbici nel petto possono averlo ucciso secondo lei?”, sguardo e richiesta diretti, come al solito.

E sagaci. Meno male che al dinoccolato avevano affiancato la belloccia, pensava il doctor, altrimenti saremmo diventati lo spin off italiano di Cold case.

“Difficile dirlo. Potrebbe essere, ma il colpo non sembra inferto con particolare ferocia”.

“Una donna”; il dinoccolato pareva essersi ripreso. Faceva sempre così, neanche i parenti del morto di turno diventavano verdi come lui.

“O una persona anziana. Un bambino. O qualcuno che non voleva uccidere”, sussurrò Belloccia a nessuno in particolare, forse al taccuino.

“Praticamente una folla, hahaha”, la spiritosaggine del dinoccolato cadde nel vuoto.

“Devo approfondire in laboratorio. Intanto posso dirvi che l’omicidio è collocabile tra mezzanotte e le tre del mattino”.

“Il don si coricava non più tardi delle 21, tutti giorni. Ieri, però, l’ho sentito muoversi per la canonica intorno alle 23”, la perpetua voleva accelerare i tempi e si era messa a parlare senza essere interpellata.

“L’ha sentito? Non l’ha visto?”, rimbeccò subito Belloccia. Non le sfuggiva niente, inutile.

“No, non l’ho visto. Quando sono uscita per chiedergli se gli servisse qualcosa, aveva già richiuso la porta della stanza”.

“Allora come fa a essere sicura che fosse lui?”

“Dai passi. Ha, cioè aveva, una camminata particolare, strascicava leggermente una gamba. Diceva di essere nato così”.

“Ma lei non ci crede”. Era una constatazione, non una domanda.

“Io non so niente. Se non vi servo, mi trovate di là”, il riccio si era richiuso appena aveva sentito odore di guai.

“Arriviamo tra poco. Finiamo qui con il dottore. Lei eviti di toccare qualsiasi cosa finché i tecnici non avranno finito di effettuare i rilievi”.

Il medico legale nel frattempo si era rialzato: “Io qui ho finito. Vi farò sapere al più presto i risultati degli esami”.

“D’accordo. Noi andiamo a raccogliere la testimonianza della perpetua e poi facciamo un giro qui intorno”. Dinoccolato quando si svegliava sembrava quasi efficiente.

All’uscita, i due poliziotti trovarono una piccola folla di curiosi ad aspettarli. Erano ormai le otto, il bar e l’edicola erano lì vicino, far finta di passare e ammirare il paesaggio non era poi così difficile. Come nascondersi dietro a un albero per osservare meglio i tutori dell’ordine. Aveva imparato a non sottovalutare mai gli avversari, altrimenti avrebbe detto che si trovava davanti una coppia di sfigati. Meglio così, il suo piano aveva bisogno di complici. Consapevoli o inconsapevoli…

Fine terza puntata Romancè

Se la puntata vi è piaciuta, o anche se non vi è piaciuta, lasciate un commento, così saprò che siete passati di qui. Grazie e alla prossima puntata di Romancè!

Puntate precedenti: 

Romancè, puntata 1: In religioso silenzio

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Romancè, puntata 2: La verità non ti piace abbastanza

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Romancè, puntata 2: La verità non ti piace abbastanza

Romancè, il 15 luglio 2021

“Questo coltello è inutile, bah. Le forbici, ci vogliono le forbici per aprire le fascette, lo dico sempre a quel rincitrullito di mio figlio e lui che fa? Mi fa trovare un coltello. Bah”, e imbonitore come un illusionista, per sottolineare l’ultimo bah, lo fa cadere sul banco a mano aperta, stock!”

“Ah Sè, hai saputo che è successo? Hanno ammazzato il prete”, azzarda Elvio, novantacinque anni portati da dio, ex tramviere, l’unico che può azzardarsi a parlare quando Sergio se la prende col rampollo, erede di una licenza da duecentocinquantamila euro. Fatto che al rampollo viene continuamente ricordato. Elvio, invece, che giornale prende non se lo ricorda mai e ogni mattina Sergio gliene affibbia uno diverso.

“E ti pare che non lo so? Me l’ha detto ieri mattina il fotografo de La verità non ti piace abbastanza. Ed è tornato pure stamattina a comprare qualche quotidiano. Ormai qua dentro ci entrano due categorie: quelli che per sembrare fighi s’infilano la mazzetta sotto al braccio, e i vecchi, che se non cedono al ricatto delle figurine ai nipoti finiscono dentro l’ospizio il giorno dopo.” Il sopracciglio di Sergio cala sugli astanti con aria di sfida. Che in effetti, pure se non hanno nipoti, l’età media per l’ospizio ce l’avrebbero tutti.

“Ma senti te che sciocchezze che ci rifili da cinquant’anni”, con Elsa, la parrucchiera rosso fuoco, la filosofia non attacca, ‘Namo che al Gossippe Villagge le clienti me stanno a aspettà co Grazia e GGente e le urtime notizie. E da chi posso venì io, se non dar più informato de tutti. Stamo qua tutti pe’ lo stesso motivo, ggiusto?”

Le teste annuiscono all’unisono, nessuno vuole essere rapato “per errore” al prossimo appuntamento al Gossip.

“Visto? Famme la solita mazzetta e dimme: che t’ha detto sto fotografo? Ma poi sarà davero un fotografo o è venuto a snasa’ quarcosa? Ah, ma io se se presenta ar Gossippe je dico che nun so gnente.”

“Perché, sai qualcosa?”

“Elvio, sta’ bono che il biglietto non te lo pago”.

“Se non paghi, sul tram non ti faccio salire”.

“Ma io me ce attacco al tram, nun te preoccupa’. Come quanno ero ragazzetta, te ricordi?”

“Come no, quant’eri bella”.

“So’ ancora bella. sessant’anni ben portati me lo dicono tutti. Insomma Sé, er fotografo t’ha raccontato qualche artra cosa stamattina?”

Lui, un narratore prestato alla nobile arte di distribuire lettere stampate, dà una rapida occhiata all’uditorio, prima di esibirsi. Non c’è mai stata tutta quella gente desiderosa di comprare carta, conta sette persone dentro e tre o quattro che scalpitano fuori.

“Lui niente, ha fatto due foto del medico legale e dei poliziotti che uscivano dalla canonica e voleva controllare come sono venute. Secondo me un po’ troppo sfocate, soprattutto quella della poliziotta che secondo me meritava, dovrebbe cambiare obiettivo, ma ormai pure loro sono sottopagati. Sono io che gli ho dato una dritta”.

“E che dritta gli avresti dato? Hai visto qualcosa te che abiti lì di fronte?”, pure il nonnetto che realmente era venuto solo per le figurine dei nipoti a questo punto è curioso.

Sergio neanche si degna di rispondere.

“Sangue in canonica”.

“Sarebbe?”

“Il giallo dell’estate de Il Messaggero, uscito il 5 agosto 1980. Pure lì un prete veniva ammazzato in canonica, in un villaggetto chiuso, come il nostro quartiere. La piazzetta, la chiesa, qualche negozio e nient’altro. Nessuno o quasi di passaggio, facce strane nessuna, un prete apparentemente irreprensibile”.

“Apparentemente?”

Sotto i baffi, Sergio era soddisfatto del suo uditorio attento.

“Bravo nonno. Apparentemente. Perché dopo mesi e mesi d’indagine, alla fine è uscito fuori che il parroco non era uno stinco di santo e che nella vita passata era stato un medico, o un infermiere ora non mi ricordo, licenziato per aver causato la morte della sorella della perpetua, che si era sottoposta a una plastica completa per non essere riconosciuta e piano piano, giorno giorno dopo giorno, l’aveva avvelenato fino a causargli un infarto”.

“Come l’hanno scoperta?”

“Una pianta innaffiata con il tè del sacerdote. Il diacono era un ex giardiniere”.

“Che trama assurda. Teresa non farebbe mai una cosa del genere”.

“Come al solito guardate il dito e non la luna. Ora mi sono stufato, quello che dovevo dire l’ho detto. Comprate le figurine, i giocattoli e quello che diavolo vi pare e lasciate posto agli altri. Tieni Elvio, il solito quotidiano”.

“Ma io non prendo questo”.

“Sì, oggi prendi questo”.

Brontolando e protestando, la piccola folla si disperde e lascia entrare quelli in attesa. Che sono riusciti a sentire la storia del giornalaio. Solo una, tra tutte le persone presenti, non la trova poi così assurda la trama…

***

Fine seconda puntata Romancè

Se la puntata vi è piaciuta, o anche se non vi è piaciuta, lasciate un commento, così saprò che siete passati di qui. Grazie e alla prossima puntata di Romancè!

Hai perso la prima puntata di Romancè?

Romancè, il 14 luglio 2021

“Avete saputo che è successo? Hanno ammazzato il prete”.

Boom!

“Noooo!”

“Ma davvero?”

“Era ora”.

“Come ti permetti? Miscredente!”

“Ave Maria, Madre di Dio…”

“E’ sicuro?”

Leggi anche: 

Romancè, puntata 1: In religioso silenzio

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Daniela Amenta e La ladra di piante di Monteverde vecchio

Daniela Amenta è una giornalista romana di lungo corso, esperta di musica rock e politica, due mondi che sembrano lontani anni luce, ma che in comune hanno la passione. La stessa passione che muove i protagonisti: per le piante lei, per la musica lui. In mezzo, un delitto, un’inchiesta, un informatore e una Roma immersa in una cappa d’afa. E non solo.

Trama

Quell’estate a Roma faceva molto caldo. E quando Roma si arroventa perde la sua grande bellezza e si trasforma in una città dura, arrogante, coperta da un vapore insopportabile, segnata da odori di sangue e mentuccia. Qui c’è chi sopravvive rubando piante dagli androni dei portoni, chi cura gatti randagi e chi ascolta jazz e rock’n’roll. Una giovane donna dai capelli rossi, un cronista esausto a caccia di tenerezze e un vecchio giornalista che sta perdendo la memoria si incrociano ai margini della scena di un crimine. Dove sfilano badanti, redattori di giornali che inseguono scoop, giardinieri che conoscono la vita segreta delle orchidee, Bill Evans, i Clash e Pasolini. È la Roma del quadrante sud, quella che guarda il mare attraverso il percorso del Tevere. Un pezzo di metropoli trasformato in una mappa di luoghi e sentimenti dove, nonostante l’afa, crescono ancora le Aspidistre. E piccoli sogni di resurrezione e d’amore.

Amo et odio

Daniela Amenta ama e odia Roma. Si vede, si sente, si respira in ogni pagina di questo romanzo. Daniela Amenta, evidentemente, è una romana d.o.c., perché è così che si sente un romano. Ostaggio di una città e della sua bellezza. Una bellezza di cui si riempie la bocca “solo chi vive in certi quartieri e la vede da certe terrazze”. Tutti gli altri, devono trovare un modo per sopravvivere ai suoi tentacoli. E ad affitti in nero in case microscopiche. Ecco che, allora, un terrazzo può diventare un giardino botanico di piante dal salvare, un vinile l’unica ancora di salvezza nella vita, i gatti, un motivo per uscire di casa e riscoprire una coscienza civile.

Sopravvivere alla città

C’è Anna dai capelli rossi, ma chissà se le piacerebbe essere chiamata così, dato che anche il personaggio più famoso di lei lo odiava. Anna vive una vita sospesa, come tanti trentenni di oggi. Anna ha un mezzo contratto, a pochi soldi, e deve farselo piacere in qualche modo. Per sopravvivere, ruba piante. Sì, è lei la ladra di piante, preferibilmente quelle mezze smorte abbandonate negli androni dei condomini, che lei tenta disperatamente di salvare. C’è Riccardo, giornalista esperto. Lui si che ha un bel lavoro, ma non lo fa più con passione. E’ stanco delle notizie copia-incolla, stanco di direttori che non capiscono niente e seguono logiche di mercato che poco hanno a che fare con la qualità dell’informazione. C’è Lanfranco, un vecchio informatore, che vecchio lo sta diventando sul serio e sente che la memoria inizia a vacillare.

Sono entrata in questo orto, nel mio Getsemani pensile, all’ottavo piano di un palazzo perbene. C’è di tutto, qui. Piante sbilenche, rigogliose, piante con le flebo, piante mezze morte, malconce, c’è un tappeto di Aspidistre, ci sono quelle stronze di acidofile, le camelie e un rododendro che mi fa impazzire, ci sono le gardenie amatissime e piante di cui non so il nome. 

Certe atmosfere

Daniela Amenta conosce bene Roma, i personaggi che la popolano, è stata cronista di nera, e certe atmosfere che l’avvolgono in estate. E’ forse questa la parte più godibile del racconto, quella che mi ha conquistato. Se volete leggere di una Roma non da copertina, ma neanche criminale, che oggi le polarizzazioni vanno tanto di moda, questo romanzo vi offrirà una prospettiva diversa e affascinante, suo malgrado. Se amate le piante, non potrete non riconoscervi nell’opera pia che mette in piedi Anna, ma quale ladra? E, soprattutto, come sto facendo io in questo momento, nel cercare di capire quale parte del seme di avocado vada in acqua. Se vi piace la musica rock, quella senza autotune, troverete spunti interessanti. La storia di Daniela Amenta scorre via con facilità e si legge con piacere. A patto di sorvolare su qualche stereotipo di troppo, il vivaista contadino che assume solo stranieri “perché lavorano di più”, per esempio, la violenza di genere che viene infilata un po’ a forza, e francamente non necessaria e neanche approfondita a dovere, e su un giallo che parte troppo tardi e si risolve troppo presto.

“E secondo te, Valdesi, ci avrebbe fatto schifo qualche altro giorno di suspense…? Ecco, anche io sono d’accordo con il direttore, per una volta: qualche altra pagina di suspense non ci avrebbe fatto schifo.

Un’altra polarizzazione

Rimangono le descrizioni vivide di una città che non è come la squadra, che si ama e basta. Roma, se la ami, la ami e la odi, non c’è spazio per le vie di mezzo. Un’altra polarizzazione, a ben pensarci.

La casa era un ex lavatoio, ma in compenso aveva uno spazio esterno «sublime», come aveva detto la signorina Natalia facendogli firmare una stipula di comodato d’uso gratuito per 18 mesi. Per gratuito s’intendevano 800 iuros in nero, cash. Però il panorama valeva la pena e, in qualche modo, anche la truffa. Da lì prendeva forma la periferia dissennata di Roma che iniziava da Trastevere: una fila di parabole e cemento, treni e mattoni si allungava verso viale Marconi. Oltre s’ergeva, sferica e di salnitro, la torre del Gazometro. Si vedevano le pendici di Garbatella che, a un tratto, perdeva i toni pastello dei tetti per diventare di acciaio all’Eur. Si vedeva la cappa d’afa su Portuense e il verde spento dei platani ad accompagnare il viaggio del Tevere. E in certi giorni speciali la facciata d’oro di San Paolo brillava come una medaglia sul petto di questa città sfacciata. 

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Un giorno a Roma per innamorarsi – Mark Lamprell

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Romancè, puntata 1: In religioso silenzio

Romancè, il 14 luglio 2021

“Avete saputo che è successo? Hanno ammazzato il prete”.

Boom!

“Noooo!”

“Ma davvero?”

“Era ora”.

“Come ti permetti? Miscredente!”

“Ave Maria, Madre di Dio…”

“E’ sicuro?”

Stock!

Tutti a fissare la mannaia di Gino che cala. In religioso silenzio, è il caso di dire.

Polli, maiali, vitelli, vitelloni, manzi, anatre, tutti c’erano passati sotto quella forca. Era naturale, persino gustoso. Ma stamattina, quella folla abituale che s’accalcava davanti al bancone del sor Gino, che aspettare il proprio numeretto non si può, devo pur vedere se le salsicce col finocchietto sono belle prima che me la rubi quella furba della portiera del 13, quella strana rappresentanza dei clienti della macelleria DaManlio, che poi aveva ceduto a Gino, seguiva i movimenti del macellaio e intanto pensava al prete.

Chi può uccidere un religioso il 14 luglio?

Stamattina, c’è qualcosa di più gustoso delle fettine panate di Gino.

“Scusa Gi’, mi sono ricordato che oggi esce quel giornale nuovo…come si chiama…coso…Vabbè, ripasso dopo”.

“Oddio, pure io, ho dimenticato l’appuntamento da Fiorella. Che quella è capace di lasciarmi con la ricrescita fino al mese prossimo. Ritorno domani, lasciami qualche hamburger eh?”

“Uh! Ciai ragione, ora che mi ci fai pensare devo fare la manicure. Guarda che unghie. Scappo, ciao a tutti”.

“Hiiii! Ma non è che ho lasciato la macchinetta del caffè sul fuoco? Vado a controllar…”

Piano piano, a gambero e con le scuse via via più fantasiose, che se quelle classiche te le hanno fregate qualcosa devi pur inventarti, Gino, la cassiera e il garzone rimangono soli.

Il macellaio continua a disossare, tagliare, dividere, appendere, macinare, ché tanto dopo trent’anni lo sa cosa ordineranno, pagheranno, cuoceranno.

Solo che a un certo punto rimane con la mannaia a mezz’aria. La cassiera e il garzone aspettano trepidanti che professi parola.

“Il popolo sa”, professa a occhi chiusi, “chi non chiede come è morto il morto è l’assassino”.

Stock!

Posa la mannaia sul bancone, perfettamente inclinata a 45°, come fa sempre.

“Vado al bar”.

In fondo, anche Gino al pettegolezzo resisteva solo finché il quarto di bue non diventava un quarto di vinello.

“Ma Gino”, lo ferma la cassiera sulla porta, “nessuno di loro ha chiesto com’è morto”.

“Appunto”.

***

Solo una persona, tra gli abitanti del quartiere, quella mattina rimane in religioso silenzio. E’ troppo indaffarata, quella persona. Quella persona sa che, dopo ogni utilizzo, i coltelli vanno lavati subito con un detergente neutro e asciugati con un panno morbido. Di solito li sciacqua subito, per togliere residui ad alto tenore di acidità o salinità. Li lava e li asciuga dal dorso al filo, per non farsi tagli alle mani. Sa che non sono adatti per tagliare ossa, cartilagini o alimenti surgelati, a meno che non siano per uso specifico. Quando li ripone, fa attenzione che le lame non vadano a contatto con altri oggetti metallici. Ogni tanto, li affila con l’acciaino, così: regge l’acciaino con la mano sinistra e il coltello con la destra, poi inclina il coltello in modo da formare un angolo di 15 – 20° tra la lama e l’acciaino. Fa passare la lama sopra l’acciaino con movimenti a mezzaluna, sfruttando tutta la lunghezza dell’acciaino: la parte terminale della lama scivola in basso fino alla punta, esercitando una lieve pressione sulla lama. Passa la lama allo stesso modo sull’acciaino tornando in alto. Su e giù, su e giù più volte, per ogni lato. Alla fine, pulisce il coltello con un panno spugna umido e lo asciuga, prima di riporlo nel ceppo. Quella persona stamattina li ha puliti, asciugati, affilati, puliti di nuovo e asciugati. Potrebbe specchiarcisi, dentro quelle lame. Li ha coccolati uno a uno, con calma, c’è tutto il tempo del mondo.

Alla fine, quella persona può dirsi soddisfatta. Li ha riposti tutti nel ceppo.

Tutti, tranne uno.

***

Fine prima puntata Romancè

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L’Open vinto da Andre Agassi, aspettando Berrettini

E mentre aspettiamo con una certa trepidazione la finale di domani a Wimbledon di Matteo Berrettini, mai nessun italiano come lui, il pensiero vola come Pindaro a un campione del passato. Uno che si è rifiutato di giocare a Wimbledon perché non accettava le severissime regole sull’abbigliamento. Uno che in carriera ha vinto tutto, pur odiando lo sport che era stato scelto per lui dall’altrettanto severissimo padre. Ladies and gentlemen, His Majesty Andre Agassi.

Trama

Costretto ad allenarsi sin da quando aveva quattro anni da un padre dispotico ma determinato a farne un campione a qualunque costo, Andre Agassi cresce con un sentimento fortissimo: l’odio smisurato per il tennis. Contemporaneamente però prende piede in lui anche la consapevolezza di possedere un talento eccezionale. Ed è proprio in bilico tra una pulsione verso l’autodistruzione e la ricerca della perfezione che si svolgerà la sua incredibile carriera sportiva. Con i capelli ossigenati, l’orecchino e una tenuta più da musicista punk che da tennista, Agassi ha sconvolto il mondo del tennis, raggiungendo una serie di successi mai vista prima.

Botta e risposta tra padre e figlio

L’avevo già detto quando ho commentato il libro del padre di Agassi, Open e Indoor sembrano una specie di botta e risposta tra padre e figlio. L’autobiografia del figlio è stata, ed è tuttora, un grande successo di vendite e di pubblico. Il perché è da rintracciare prima di tutto nella capacità del giornalista J. R. Moehringer, non a caso premio Pulitzer, di cogliere gli aspetti essenziali del racconto di Andre Agassi. Poi, soprattutto, nella capacità di Andre di aprirsi completamente, di raccontare le ombre dietro le luci dello sport professionistico, la fatica, l’odio che sale per la fatica stessa, le sconfitte e i rimpianti. Oltreché, naturalmente, le cose belle dello sport e della vita. Molti hanno interpretato Open come un j’accuse nei confronti del padre, Mike Agassi, per averlo costretto a giocare a tennis fin dalla più tenera età, ma io non credo che fosse questo l’intento.

Le debolezze di un uomo

Penso, piuttosto, che Andre Agassi sia sempre stato sincero, quando giocava era un aspetto che qualsiasi detrattore gli avrebbe riconosciuto. Sincero quasi sempre, tranne quando ha tentato di nascondere la calvizie incipiente. Debolezza di uomo, quella. Che ci fa sentire ancora più vicini al grande campione. Come mi ha divertito leggere dei suoi primi approcci con la dea vivente del tennis, Steffi Graf. Cioè colei che diventerà sua moglie e la madre dei suoi figli.

A bordo campo inizia a a radunarsi una piccola folla che ci fissa a bocca aperta. Qualche fotografo scatta istantanee. Mi chiedo perché. E’ la rarità di un uomo e una donna che si allenano? O è perché sono catatonico e sbaglio una palla sì e due no? Da lontano si ha l’impressione che Steffi stia dando una lezione a un ebete a torso nudo.

Il lato oscuro della forza

La parte più interessante, per gli sportivi e per chi non lo è, rimane quella in cui descrive il suo turbolento rapporto con la sua professione. Sì, perché a certi livelli lo sport smette di divertire, di appassionare, di far stare bene e diventa una lunga, lunghissima nel suo caso, battaglia contro la fatica, i dolori, la noia e la difficoltà di essere sempre i primi, sempre i migliori, sempre al meglio, sempre sorridente. Andre Agassi ha il grande merito di aver aperto (Open) un varco verso il lato oscuro della forza. Non è tutto oro quello che luccica, il grande circo può distruggere e se Agassi ne è uscito vincente un po’ è merito suo, un po’ delle persone che lo hanno accompagnato, un po’ diciamolo, è che ci vuole tanta, tanta fortuna.

Dico ai tennisti: sentirete un sacco di applausi in vita vostra, ragazzi, ma nessuno sarà tanto importante per voi quanto l’applauso…dei colleghi. Spero che ciascuno di voi lo senta, alla fine. 

Intanto noi domani, comunque vada, applaudiremo Matteo Berrettini. Non sarà importante come l’applauso dei colleghi, ma per quello c’è tempo.

Leggi anche: 

Indoor: la nostra storia, Dominic Cobello con Mike Agassi

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