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Vienna in 48 ore, tra la Sacher e un Bacio di Klimt

Vienna in 48 ore è un po’ poco, è vero. Ma non sempre c’è molto tempo libero per viaggiare. E allora che si fa? Si fa come Ethan Hawke e Julie Delpy in Prima dell’alba, il film. Si cammina di notte e fino all’alba, per riprendere il treno (loro), o l’aereo (io), la mattina dopo. Venite che vi racconto.

Il bacio di Klimt

Il bacio di Klimt è uno dei motivi per cui spostarsi vale sempre la pena.  Chi di noi non l’ha mai visto? Nessuno. E’ perennemente in ogni gadget, tazza, shopper bag, quaderni e penne, ovunque. Forse troppo. Tanto che vi dirò, non mi aveva mai fatto battere il cuore. E invece. E invece, vederlo dal vivo wow, hanno dovuto chiamare i rinforzi per smuovermi da lì. Il fatto è che c’è talmente tanta gente, che bisogna avere pazienza, conquistarsi lo spazio e poi, una volta ammirato, lasciare il posto ad altri. In teoria. In pratica, è difficile che succeda, perché il quadro è ammaliante, da sindrome di Stendhal quasi. Il significato dell’opera dell’artista viennese è il trionfo della potenza vivificatrice dell’eros sulle differenze tra uomo e donna, che nel dipinto si fondono nell’oro. Che meraviglia! Non perdetelo, mi raccomando. Si trova all’Österreichische Galerie Belvedere, al primo piano. 

La Sacher Torte

Dopo aver assaggiato la Sacher torte a Trieste nel primo locale aperto in Italia da chi si vanta di possedere la ricetta originale,  il Caffè Sacher di Vienna, e aver dichiarato che non ne avrei mai mangiata un’altra in vita mia, ci ho ripensato. A questo punto, dato che sono sul posto, perché non provare la Sacher dei rivali? E così, eccomi a occupare un minitavolo da Demel, di solito strapieno di gente, ma basta scegliere un orario poco battuto per sedersi tranquillamente. Quindi, Caffè Sacher o Demel? Dipende dai gusti, per quanto mi riguarda dico Caffè Sacher. Anche per il particolare della panna, che servono solo su richiesta del cliente. Concordo, zuccheri non necessari, che rovinano il gusto ricco della torta.

Hundertwasserhaus

E’ un edificio particolare, nato come complesso di case popolari  nel 1986 per opera dell’architetto e artista Friedensreich Hundertwasser.  Le case sembrano formare un puzzle colorato, con forme ondulate e  rami che escono dalle finestre. La forma e i colori degli edifici invitano a pensare che è possibile cambiare il mondo. Nelle vicinanze, c’è anche un piccolo centro commerciale, realizzato nello stesso stile, oltre al Museo Hundertwasser, dove sono esposte le opere del creatore di questi palazzi. Vi dirò, non mi ha fatto impazzire: bella l’idea, ma probabilmente dell’originale destinazione non rimane nulla o quasi. Se qualcuno di voi ha più informazioni, che confermino o sconfessino questa mia sensazione, scrivete nei commenti.

I trasporti

Vienna è ben servita, credo che ci siano pochi dubbi in merito. Sono rimasta così poco che ho preferito girare a piedi per vedere il più possibile, ma Vienna ha una rete di tram eccezionale e per il turista vale la pena spostarsi con questo patrimonio dell’umanità. I collegamenti da e per l’aeroporto sono altrettanto comodi. All’andata, ho preso la metropolitana leggera; al ritorno, un pullman comodissimo che gira h24 e porta direttamente in aeroporto, a qualsiasi ora. Il pullman è stato la tappa finale della mia notte di passeggiate a Vienna, indimenticabile.

Dove alloggiare

Ho soggiornato nel quartiere degli artisti, perché lì ho trovato un albergo con buon rapporto prezzo-qualità, e ve lo consiglio. Il quartiere si chiama Spittelberg e si trova vicino al quartiere dei musei. Comodissimo, tranquillo e di recente tornato alla moda, con le sue botteghe artigiane e artistiche. Una nota di demerito la prende per il cibo, perché i posti consigliati non si sono rivelati all’altezza delle aspettative, ma sicuramente è stata sfortuna. Per mangiare vi consiglierei di spostarvi, o di mangiare in albergo direttamente.

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Il quaderno dell’amore perduto di Valérie Perrin

Un’altra sopresa in questa estate di sorprese, il mio incontro con Valérie Perrin. Non amo i libri o gli scrittori che vanno di moda, perché spesso le mode sono influenzate da fattori molto poco oggettivi. Ma ho trovato a un buon prezzo il primo libro della scrittrice francese, tradotto dopo il grande successo dei suoi lavori successivi. Bè, mi sono ricreduta: successo meritato. Venite che vi racconto.

Trama

Segnata dalla morte dei genitori, la giovane Justine ha scelto di vivere a Milly – un paesino di cinquecento anime nel cuore della Francia – e di lavorare come assistente in una casa di riposo. Ed è proprio lì, alle Ortensie, che Justine conosce Hélène. Arrivata al capitolo conclusivo di un’esistenza affrontata con passione e coraggio, Hélène racconta a Justine la storia del suo grande amore, un amore spezzato dalla furia della guerra e nutrito dalla forza della speranza. Per Justine, salvare quei ricordi – quell’amore – dalle nebbie del tempo diventa quasi una missione. Così compra un quaderno azzurro in cui riporta ogni parola di Hélène e, mentre le pagine si riempiono del passato, Justine inizia a guardare al presente con occhi diversi. Forse il tempo di ascoltare i racconti degli altri è finito, ed è ora di sperimentare l’amore sulla propria pelle. Ma troverà il coraggio d’impugnare la penna per scrivere il proprio destino?

Il quaderno azzurro

Il romanzo di Valérie Perrin mi è piaciuto moltissimo, soprattutto il finale. I fatti sono narrati da una giovanissima che, chissà perché, ha una sola passione: gli anziani. Accudirli e ascoltarli è un lavoro che le piace, soprattutto perché non lo fa più nessuno, parenti su tutti. Quindi, questi anziani finiscono nelle case di riposo, spesso senza nessuno che li vada a trovare. E, soprattutto, senza nessuno che voglia ascoltare la loro storia. Infatti, non a caso il titolo originale è “I dimenticati della domenica”. Justine lo fa, li ascolta, e compra anche un quaderno azzurro, per non perdersi neanche una parola di quello che le viene detto. E così, veniamo anche noi a conoscenza del grand amore di Hélène e della vita che è passata e sta per lasciarla andare. Ma Hélène ha un compagno fedele, che non l’abbandona e la sorveglia costantemente. Sarà solo lei a decidere quando andare e lui lo segnalerà. 

Justine

Nonostante il focus su Hélène e l’amore della sua vita, è stata proprio Justine a incuriosirmi di più. E a farmi versare una lacrimuccia, o forse più di una, al termine della lettura. Perché nonostante le sue vicende familiari non semplici, è una ragazza trasparente, gentile, generosa, molto salda nei suoi valori. Se tutti gli operatori sanitari fossero come lei, vivremmo in modo più sereno anche l’inevitabile tristezza degli ultimi momenti, ne sono sicura. Al netto di alcuni passaggi non proprio convincenti, soprattutto nella fase in cui il terribile segreto della sua famiglia verrà rivelato, Un romanzo che vi consiglio se avete voglia di nostalgia, riflessione e romanticismo sottobosco. 

A questo punto, non mi rimane che leggere anche gli altri. Voi siete appassionati di Valérie Perrin? Qual è il vostro romanzo preferito? Fatemi sapere nei commenti! 

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Copenaghen: la felicità? Una porta che si apre

Copenaghen. Una porta che si apre, finalmente. Quella dell’aeroporto, dove non mettevo piede da un po’. E quella del viaggio, dentro me stessa e non solo. Copenaghen, il Nord Europa, Hygge, design, tranquillità. Un periodo non facile, questo, e voglia di staccare la spina. Ma cos’è la felicità? E cosa c’entra con le porte? Venite che vi racconto questo viaggio alla ricerca della felicità.

Un passo indietro

Partiamo da Søren Kierkegaard, teologo e filosofo esistenzialista danese, e da una delle sue frasi più famose. «La felicità è una porta che si apre dall’interno: per aprirla, bisogna umilmente fare un passo indietro». E il passo indietro, per chi come me visita per la prima volta il nord Europa, è osservare senza giudicare. Perché Copenaghen è una città piccola, con pochi abitanti, con uno sviluppo relativamente recente e pochi monumenti da visitare. Per questo troverete scritto in molte guide che “bastano due giorni per visitarla. E’ vero, per girarla bastano due giorni. Ma per sentirla? Facciamo un passo indietro. 

kierkegaard statua con logo

Hygge

Qui devo introdurre questo concetto, che sembra facile, ma non lo è. Oppure, potrebbe essere confuso con un’operazione di marketing per vendere la Danimarca ai turisti. Probabile che in parte ci sia anche questo, ma Hygge (Hyu-ga la pronuncia) è soprattutto un modo di sentire, di vivere, di relazionarsi con gli altri e con se stessi. E’ una filosofia di vita, la realizzazione pratica di quello che Kierkegaard sosteneva teoricamente. E’ un termine intraducibile, di dubbia origine, che si avvicina al concetto di benessere, di pietas nel senso latino del termine. Se la Hallyu coreana è un’onda che proietta la Corea del Sud all’esterno, l’Hygge danese proietta noi stessi verso gli altri, perché se la comunità funziona e si stringe, l’individuo vive bene, ha tempo da spendere per sé e per le persone care, vive in un contesto cui sente di appartenere. Ama trascorrere il tempo con gli amici e la famiglia e ricercare piaceri semplici, che lo facciano stare bene. Ecco, questo in sintesi è Hygge. Che ne pensi? Credi alla possibilità di vivere in questo modo? Non ero molto convinta all’inizio, ma questo è quello che ho visto e percepito. Ora vi dirò dove ho visto l’hygge a Copenaghen e dove, invece, non c’è e dovrebbe esserci.

Cosa vedere a Copenaghen

C’è l’imbarazzo della scelta, ma dato che di solito è una di quelle città cui le guide online attribuiscono due-massimo tre giorni di visita, mi limiterò a dirvi quello che ho visto io, in pieno spirito hygge. Cioè senza correre e affannarmi inutilmente, proprio come fanno i danesi. Anche perché ho trovato un caldo a dir poco anomalo e non avevo seguito il principale consiglio hygge da dare a tutti: vestitevi a cipolla! Stavolta non metterò le attrazioni in base al giro che ho fatto, ma solo in ordine rispetto a quanto mi sono piaciute. La città è girabile tranquillamente secondo le tappe che più vi aggradano, la metropolitana è efficiente e arriva ovunque, ci sono barche e biciclette in quantità per assicurare mobilità sostenibile. Insomma, l’imperativo è rilassatevi e godetevela.

bici copen logo

Nyhavn e Il giro dei canali

Se avete tempo, affittatevi una barchetta e andatevene a zonzo per i canali, ma attenzione a non essere falciati dagli autobus di linea, che suoneranno senza pietà. Per mancanza di spazio, ho scelto la crociera sui canali di un’ora, che parte a tutte le ore a un prezzo ridicolo, circa 7 euro a persona. Non fatevela mancare, mi raccomando. Primo, perché durante il giro vi faranno vedere posti che probabilmente non riuscirete a vedere da vicino, secondo perché è proprio rilassante. Toccherete con mano quanto si godano la vita i danesi, in barca con l’aperitivo, su spiaggette improvvisate con un tuffo in acqua, sulle banchine del porto a chiacchierare o ascoltare musica.

ragazze canale mani alzate cpon logo

La pace dei sensi, veramente. Io ho scelto il tramonto perché i colori sono spettacolari, anche se ho pagato con una sirenetta totalmente in ombra. Che però il giorno dopo era in pieno sole, quindi poco male. La crociera è fantastica anche perché mi ha dato un assaggio di come stiano costruendo i nuovi edifici e quartieri, all’insegna del design e della vita in comunità.

architettura con logo

Dopo essere scesi dalla barca, il quartiere Nyhavn offre di tutto e di più per mangiare. Alcune delle cose che ho assaggiato le trovate in basso, nella sezione Cosa mangiare a Copenaghen. Questo tratto di porto è famoso per gli smørrebrød, che dovete necessariamente accompagnare col grappino locale, lo Snaps.

copenaghen canale con logo

Il diamante nero della biblioteca reale

Una biblioteca futuristica, che affaccia su un canale,  costruita con materiali di granito nero proveniente dallo Zinbawe e vetro affumicato e vetrate di 6 metri per 2,5 metri. Un gioiello di architettura, che cambia sfumatura nel corso della giornata, a seconda del riflesso del sole. Pensavo fosse tutta scena e quando l’ho vista durante la mini crociera dei canali, confesso che non mi ha fatto tutta questa impressione. E poi, lo Zimbabwe, spero che non ci siano problemi di etica e diritti umani dietro questa magnificenza. Dall’interno, però, è tutta un’altra storia. Gli otto piani, tutti accessibili, sono completi di balcone- corridoio a forma di onda che permettono una visita a 360° dello spazio accessibile. Soprattutto, l’edificio è un punto di riferimento per studenti, ricercatori e semplici appassionati, dato che ospita mostre permanenti e temporanee di fotografia e un numero notevole di volumi. Sono rimasta poco, purtroppo il tempo a disposizione non era moltissimo, ma rispecchia in pieno il mood hygge della citttà. Non solo per l’atmosfera pacifica che regna all’interno, nonostante una spaziosa caffetteria, ma anche per la vista sull’acqua, le centinaia di biciclette parcheggiate fuori, le persone con libri o caffè in mano sedute sugli argini a chiacchierare o studiare.

diamante nero con logo

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L’edificio, poi, è collegato con l’antica biblioteca, dall’interno e dall’esterno. Basta attraversare la strada e ci si ritrova a salutare la statua di Kierkegaard (sempre lui, quello della porta che si apre da cui siamo partiti) nei giardini del vecchio edificio. Futuro e passato che si intrecciano, guardare avanti senza dimenticare quello che è stato. Molto, molto hygge. Ho attraversato i giardini per andare al mio vero obiettivo, la torre rotonda.

biblioteca naz edificio vecchio con logo

La torre rotonda

La Rundetårn (torre rotonda) di Copenaghen è un edificio che ha tanto da dire. Intanto, ospita l’osservatorio astronomico più antico d’Europa ancora in funzionamento. In secondo luogo, dalla cima si gode una vista a 360 gradi sulla città, come sulla Tour Montparnasse di Parigi o la Seoul Tower coreana. La torre fu costruita nel 1642 per volere di Re Cristiano IV,  proprio per creare il primo osservatorio astronomico di Copenaghen. Per arrivare in cima, bisogna inerpicarsi in salita su per una rampa a spirale. Dopo sette giri e mezzo e un semaforo che dà il via libera alle ultime scalette, si arriva al Belvedere della Torre Rotonda, situato a 34,8 metri d’altezza. Putroppo l’unica via di accesso sono queste minuscole e ripide scalette, quindi l’ultimo tratto non è accessibile a persone con disabilità e anche quello precedente è faticoso. Perché il re l’ha voluta così? Perché voleva raggiungere la cima dell’osservatorio in sella al suo cavallo. E ancora oggi i manutentori salgono con un carrellino elettrico, visti in diretta. Prima o dopo la salita al belvedere,  tanto per spezzare il fiato, ci si può fermare all’antica biblioteca, oggi trasformata in spazio espositivo, e alla soffitta delle campane, che però al momento è chiusa per restauro. 

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La sirenetta

Criticatissima da residenti e turisti e sito preferito dai danesi per dimostrazioni e deturpazioni varie. Criticata, perché? Per la posizione decentrata, perché meno maestosa di quanto sembri in foto, per l’espressione triste…queste alcune delle rimostranze che ho letto in giro. Innanzitutto, la posizione non è per niente decentrata, la sirenetta viene raggiunta sia dalle imbarcazioni sia da terra. Dopo essere scesi dalla metropolitana, c’è un po’ di strada da fare attraverso un bel parco. E’ probabile che i danesi abbiano scelto quella posizione per lasciarla tranquilla. Negli anni, è stata tutto fuorché tranquilla, ma questa è un’altra storia. La storia della statua risale al 1913, anno in cui il figlio del fondatore del Birrificio Carlsberg decise di fare un regalo alla città, affidandone la creazione allo scultore Edvard Eriksen. Come modella per la statua, lo scultore scelse sua moglie, ispirandosi a un balletto del 1909. Non è maestosa, è vero, è questo la rende umana. Molto umana. Come l’espressione triste. Non è vero che aspetta il principe, attenzione! Lo leggerete ovunque, ma non è la verità. Aspetta un bambino buono a cui sorridere. Piange, invece, se incontra un bambino cattivo. E voi? Che bambini siete? Buoni o cattivi? A me ha sorriso il sole dietro le sue spalle, e pare sia evento abbastanza raro. Mi ha ricordato la storia della costola di balena di Verona che vi ho già raccontato. La sirenetta non può aspettare il principe, perché un’anima immortale non può dipendere dall’amore di un uomo. E il principe di Hans Christian Andersen era già sposato, non sarebbe potuto tornare…ma anche questa è una storia che un giorno vi racconterò meglio. 

sirenetta e bimbi con logo

Fontana di Gefion

Scendendo a sud lungo la riva del canale, ho incontrato la Fontana dedicata alla dea Gefion, raffigurata mentre sprona quattro grossi buoi legati a un aratro. Dice la leggenda  che Gefjun avesse chiesto della terra al re di Svezia e che questi le avesse promesso un regno grande quanto quello che sarebbe riuscita ad arare in una notte. La donna, allora, trasformò i suoi figli in buoi e scavò un’enorme quantità di terra, che venne riversata nel mare creando la Zelanda. Zelanda è l’isola su cui si trova Copenaghen. Anche questa statua è stata donata alla città da Carlsberg e, da una certa prospettiva, sembra quasi che Gefjun voglia colpire con la frusta il campanile della chiesa anglicana di St. Alban, che è lì nei pressi. Sarà un caso? Chissà. 

chiesa sirenetta con logo

Strøget

E’ un’isola pedonale del centro storico, la più lunga d’Europa, chiusa agli estremi dalle due maggiori piazze della città, la piazza del Municipio e Kongens Nytorv. Merita un giretto, i negozi sono belli ed è curata. Nei dintorni è pieno di locali in cui fermarsi dopo aver fatto shopping. Sempre che il biglietto aereo vi consenta di allargarvi con gli acquisti!

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Il cambio della guardia

Questa è stata una tappa imprevista, non avevo pensato di fermarmi per il cambio della guardia. Diciamo che è stato il cambio della guardia a fermare me, perché mi trovavo nella piazza quando hanno effettuato la sostituzione delle postazioni. Non è il vero e proprio cambio della guardia, che avviene in pompa magna a mezzogiorno, però mi è piaciuto molto, è stata una scena divertente e anche molto ravvicinata. Quando c’è qualcuno a palazzo, sventola la bandiera danese, così tutti i danesi sanno che qualcuno dei reali è in casa. Non è anche questo molto hygge?

cambio della guardia

Cosa mangiare a Copenaghen

Vi diranno e leggerete ovunque che Copenaghen è cara, ha prezzi altissimi, quasi inavvicinabile. Guardate bene la data in cui è stato scritto questo commento. Oggi, con i prezzi alle stelle, è diventata non dico abbordabile, ma sicuramente molto simile a qualsiasi ristorante di medio livello in Italia. Dato che anch’io avevo letto questi commenti sui prezzi, per andare sul sicuro ho preso un albergo con prima colazione. Ho fatto bene? Non lo so. Sicuramente era abbondante e ottima, tanto da farmi saltare anche i pranzi. Ma in giro ho visto tanti di quei bar con lievitati golosissimi e la fila per entrare, che forse sarebbe stato meglio rinunciare e andare all’avventura. Il caffè a me è piaciuto, è un caffè lungo servito in tazza da cappuccino, l’ho ordinato al ristorante per terminare la cena e ci ho messo tre ore per finirlo…haha. Ero convinta di aver ordinato il caffè in tazzina!

Questo è quello che sono riuscita ad assaggiare io:

Smørrebrød

Il nome significa sandwich, ma in realtà sembra più una bruschetta di pane non tostato. Quella che ho mangiato io è stata presentata al tavolo scomposta, cioè con un pezzo di pane di segale spalmato di burro e gli ingredienti intorno, da aggiungere a piacere. Nel mio caso, salmone, aneto, insalata e cipolla. Buono, niente da dire. Una bruschetta fa sempre il suo dovere. Il pane danese è veramente eccezionale e fa la differenza, in tre giorni ne ho assaggiati diversi tipi e tutti ottimi. Accostatevi, quindi, allo smørrebrød senza paura. Di locali e localini che lo propongono ne troverete tantissimi: io l’ho considerato un antipasto per la cena, ma volendo può essere anche pranzo veloce con più assaggi. L’unica cosa importante da ricordare, è che va accompagnato con lo Snaps, un’acquavite tipica che ricorda la grappa. Non troppo forte, l’abbinamento è vincente, provate.

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Stegt flæsk

Se trovate Stegt flæsk e mangiate carne, ordinatelo perché i danesi lo considerano il loro piatto più rappresentativo. E’ composto da fettine di maiale arrosto con salsa al prezzemolo e contorno di patate. La particolarità è nel tipo di preparazione e cottura, che rende la cotenna delle fettine molto croccante, come la crosta della porchetta, per intenderci.

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Aringhe marinate

Le aringhe marinate sono buone a tutte le latitudini, non siete d’accordo? A volte sono farcitura dello smørrebrød, a volte, come nel mio caso, presentate come antipasto a sé.

Salmone

Altro piatto tipico, il filetto di salmone al forno con patate duchessa, servito su un pezzo di massello di rovere e accompagnato da burro alle erbe. Basta e avanza per una cena da re o regina. 

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Wienerbrød

Qui bisogna aprire un capitolo a parte. I wienerbrød, letteralmente pasticceria viennese, sono i famosi danesi che mangiamo anche noi. Solo che a Copenaghen li fanno in tutte le fogge e farciture possibili e immaginabili. Ai danesi, infatti, amano trascorrere ore e ore nei caffè o nelle pasticcerie a fare…niente. Solo tempo di qualità: chiacchierare, stare in compagnia, gustare un buon caffè lungo o un succo di frutta. Molto hygge anche questo! I miei wienerbrød preferiti sono quelli alla cannella, che fanno tanto Natale tutto l’anno.

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I biscotti danesi

Me li sono portati a casa, con la famosa biscottiera che tutti abbiamo visto piena di aghi e fili nella nostra infanzia. In verità, io le ho sempre viste anche prima di diventare scatola contenitore, quindi li conosco bene. Quelli che ho scelto, presi all’aeroporto e in offerta, sono infinitamente più buoni di quelli che conoscevo. Forse per il sentore di vaniglia, più forte. O forse solo perché mi ricordano l’infanzia, chissà. Comunque, ve li consiglio, acquistateli.

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Grød

E’ un dolce al cucchiaio che in teoria servono dopo pranzo o cena e che, invece, ho trovato nella colazione dell’albergo. Infatti secondo me è più da colazione, ma sono gusti. E’ di fatto un porridge con frutta fresca sopra, personalmente non lo prenderei dopo i pasti principali. 

Sportskage

E’ la specialità della pasticceria La Glace, molto conosciuta a Copenaghen e che non potrete non notare durante una passeggiata a Strøget. E’ stata inventata proprio dalla pasticceria per lo spettacolo “Sportsmænd”, presentato per la prima volta il 18 novembre 1891 al Folketeatret di Nørregade. La “torta sportiva” è composta da granella di torrone, panna montata, base di amaretti e bignè di pasta choux caramellati. Trovo divertente che una bomba calorica del genere si chiami “sportiva”. Sportiva perché per smaltirla devi fare molto, molto sport! Sono stata indecisa fino all’ultimo se prenderla o no e alla fine ho ceduto. Ho preso una fetta e l’ho mangiata su una panchina lì vicino. Mi è piaciuta soprattutto la panna, freschissima. Considerando anche il prezzo non proprio abbordabile, pazzia da fare se siete molto, molto golosi. 

sportskage

Informazioni utili

L’aeroporto si trova a poca distanza e girare la città è molto semplice. E’ piccolina e non farete fatica ad orientarvi. Tutte le case o gli alberghi centrali o semicentrali vanno bene, perché gli spostamenti sono rapidi e h24. Per quanto riguarda gli abbonamenti per i trasporti, valutate bene cosa attivare. Io ho preso una mini card 24 ore all’aeroporto e una seconda mini card 24 ore per tornare in aeroporto, lasciando il secondo giorno senza trasporti perché ho girato a piedi. Dal punto di vista economico, mi è convenuto così rispetto alla card 72 ore. Discorso che vi sembrerà un po’ nebuloso, ma se guardate i prezzi dei vari abbonamenti potrete farvi un’idea di quello che vi conviene di più in base alle vostre esigenze di spostamento. Poi ci sono anche noleggio biciclette o barche, ma non ne ho usufruito. Dico solo che molte guide vi spaventeranno dicendo che i danesi sfrecciano in velocità in bicicletta, ma posso dirvi che non è vero. Affittatele tranquillamente se vi piacciono le due ruote.

Che ne dite? Vi piace l’idea di un giretto in Danimarca? Se avete altre curiosità o domande, scrivetemi nei commenti! 

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Baltica 9, est Europa con Daniele Benati e Paolo Nori

Quella di Daniele Benati e Paolo Nori non è una guida di viaggio, almeno non nel senso classico del termine. Avere in tasca “Baltica 9”, però, aiuta sicuramente chiunque voglia addentrarsi nell’Europa orientale. Diciamo centro-nord-orientale, perché il viaggio degli autori inizia in Austria e non si sa dove finisce. Il testo si ferma a San Pietroburgo, posto per sua natura sospeso nel tempo.

Più che una guida è un diario

Più che una guida è un diario, dove le sensazioni prevalgono sui fatti narrati ed è per questo che averla in tasca è consigliabile. Chi ha letto “Baltica 9”, infatti, non ci troverà solo informazioni preziosissime e difficili da trovare in una guida classica, ma se saprà acquisire la leggerezza, il disincanto e la capacità di volgere sempre al positivo qualsiasi esperienza degli autori-viaggiatori saprà vivere il proprio viaggio come un’esperienza. Come un vero viaggiatore, per il quale non conta né la meta né la strada, conta l’occhio con cui guardi ciò che ti circonda e chi incontri.

Involontariamente al centro di una polemica 

Leggere il racconto di un viaggio che arriva in Russia compiuto da Daniele Benati e Paolo Nori in questo periodo storico, con quest’ultimo che è stato involontariamente al centro di una polemica nata in seguito alla decisione (poi rientrata) dell’università Bicocca di bloccare le sue lezioni su Dostoevskij, è ancora più interessante. C’è tanto est-europa post sovietico (il libro è del 2008, quindi quasi a metà tra la caduta del muro di Berlino e l’epoca attuale), tantissima Russia, ma anche una prospettiva di viaggio che sembra legare in maniera inevitabile la Russia con l’Ucraina e che sicuramente fa effetto oggi molto più di quanto non potesse farlo quando il libro è stato scritto.

Non è una guida di viaggio, ma è un viaggio guidato

Non è una guida di viaggio, ma è un viaggio guidato, quello che compiono Daniele Benati e Paolo Nori (che nella terza di copertina si identificano rispettivamente con codice fiscale e partita iva), partendo dall’Austria. Guidato dal loro istinto, dalla loro capacità di adattamento, da tanti compagni di viaggio più o meno casuali e dalla particolarità dei posti attraversati. Un viaggio che passa per gran parte attraverso la via Baltica, strada europea E67 che ha origine a Praga e termina a Helsinki attraversando Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia.

Baltica 9

Baltica 9, però, è una birra che non va assolutamente mischiata con la vodka, sennò i russi si offendono. Daniele Benati e Paolo Nori lo capiscono solo una volta arrivati a San Pietroburgo, passando attraverso posti dove il nord è più verde del sud, dove le dogane ti fanno passare prima attraverso mancate modelle polacche e poi attraverso simpatiche ma troppo curiose doganiere lituane, tra episodi “che molti scrittori di guide si vergognano a raccontare di queste cose o non se ne vergognano affatto ma non le metterebbero mai in un libro”. Perché “delle volte certi inconvenienti creano delle situazioni che poi rimangono in mente per sempre anche se non avviene niente”.
Il viaggio fino a San Pietroburgo è avvincente, perché ogni paese attraversato ha la sua peculiarità. Una volta arrivati nella ex Leningrado, che ogni tanto qualcuno chiama ancora così, la narrazione cambia. Tra tombe di poeti con nomi di leggendari portieri di calcio, pezzi teatrali di Bulgakov e giardini che somigliano a quello decritti nell’incipit del Maestro e Margherita, la casa di Jurij Gargarin, donne al volante, un padrone di casa amico finché non esci dal suo seminato, gli autori vivono i loro “giorni bianchi” con una prospettiva più Neva che Nevski. Scorre lenta come il fiume che attraversa la città, tra tassisti senza tassametro di cui non puoi fare a meno quando il giorno diventa notte bianca, col bianco che ha il colore della vodka (da non mischiare alla Baltica 9) e delle tasche dopo una notte al Casinò. Il tempo resta sospeso e l’importante non diventa più né il viaggio in sé, né tantomeno il ritorno a casa. Il racconto, infatti, s’interrompe quando gli autori pensano di aver trovato una risposta a una domanda che non si erano posti all’inizio, ma strada facendo.

Andare avanti, fino alla fine

Merita di essere letto con attenzione fino alla fine, anche se nella parte centrale a un certo punto ho avuto l’impressione di non capire se e come il viaggio sarebbe finito, quasi come se l’arrivo a San Pietroburgo implicasse finire fuori strada. Il suggerimento però è quello di approcciarsi a questo testo nell’unico modo possibile, cioè lo stesso da usare con uno stile molto particolare. Un flusso di coscienza che può disorientare, anche se è rivolto proprio all’oriente. Andando avanti, però, “a un certo punto allungherete il passo e non c’è modo di dissuadervi dal farlo”.

Ultimo consiglio

Non seguite “Baltica 9” come una guida di viaggio. Potreste ritrovarvi a vivere le stesse avventure di Daniele Benati e Paolo Nori. Non è detto che sappiate affrontarle come loro, ma difficilmente saprete raccontarle come loro. E in ogni caso, portatela con voi, perché vi aiuterà a scoprire che a volte il bello sta proprio in ciò che fa paura.

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Memorie dal sottosuolo – Fëdor Dostoevskij

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Ich bin Berliner/6bis: all in all, no more bricks in the Wall!

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La Fame senza fine di Knut Hamsun

Su Knut Hamsun, premio Nobel 1920, si è detto di tutto e di più. Che fosse un simpatizzante nazista, e per questo fu rinchiuso in un ospedale psichiatrico, che aderisse al panteismo, che i suoi libri meritavano di essere bruciati in piazza, cosa che effettivamente accadde. Fame è il suo primo, grande successo. Ci sono voluti quasi due anni per finirlo: l’ho preso, lasciato, ripreso, lasciato di nuovo. A un certo punto, questa Fame si è placata e sono arrivata alla parola Fine. Ora vi racconto cosa penso di questo romanzo così controverso.

Trama

Un giovane scrittore passa un periodo di solitari deliri e tortuose riflessioni nella città di Christiania. Vari personaggi lo sfiorano e scompaiono, ma unica vera e costante compagna, inesorabile antagonista, è la fame. Visionario della fame, il giovane scrittore scopre il carattere fantomatico e oppressivo della vita urbana, si inoltra negli infiniti sottosuoli della mente, lascia infine che esploda la sua rabbia fisiologica contro una società che sembra affinare sempre più, col tempo, le sue torture.

Fame di vivere

Se penso che è stato scritto nel 1890, il primo aggettivo che mi viene in mente è “moderno”. Narrazione veloce, vita di città, una Oslo che all’epoca si chiamava Christiania. Un giovane scrittore che ha Fame, in tutti i sensi. Ha fame di vivere, ha fame di scrivere, ha fame di amare. Ha fame vera e propria, soprattutto. Il ritmo è ansiogeno, sembra per 3/4 il delirio di un pazzo. Uno squilibrato che cerca in tutti i modi di sopravvivere, escogitando le strategie più strampalate per riuscirci, raccontando storie, a sé e agli altri, abbordando donne per strada, facendosi rinchiudere in prigione. Dice di se stesso di essere un giornalista con ambizioni di scrittore, ma tutte le grandi idee che gli vengono, finiscono inevitabilmente in un nulla di fatto, perché gliene viene una ancora più grandiosa.

Eppure

Eppure, ogni tanto qualcuno che gli dà credito lo trova. E allora, riesce a sopravvivere per un altro po’, ma a un certo punto anche io ho perso le speranze di vederlo risorgere. A questo punto, quando la sconfitta sembra ormai certa e di questo accanimento uno non ne può più, improvvisamente il ritmo accelera, invece di decelerare. Questa città,  Christiania, non è ospitale. O, forse, è il protagonista a non essere tagliato per questa vita. Perché le risorse le avrebbe, ma le dissipa. Non sono i contatti umani che vuole, perché cinismo e ironia si mescolano a ogni nuovo incontro. Non sono i soldi che gli interessano, non è il tenore di vita che cerca, non è il grande romanzo che sogna. Cerca, cerca…ma cosa cerca? Forse un mondo diverso, forse un’utopia, forse qualcuno a cui volere bene. O forse no, forse assistiamo semplicemente al delirio di onnipotenza di un artista disperato e affamato. Che alla fine una via d’uscita la trova. O forse no…

In cerca di Utopia

Quello di Knut Hamsun è un romanzo a cui ho pensato e ripensato sia quando l’ho lasciato in sospeso, sia quando sono riuscita a finirlo. Alla fine, il protagonista avrà trovato la sua strada? Sarà riuscito a risalire dall’abisso di quell’osso di carne macilenta vomitato per strada? Chissà. L’autore ha avuto una lunga vita e ha superato tutte le contestazioni. Si è opposto all’imperialismo britannico e dell’Unione Sovietica, ma simpatizzava per Hitler. Considerando le note biografiche e come finisce il romanzo, purtroppo per fare spoiler non posso dire di più, sospetto che il giovane e poi non più giovane, abbia continuato a girovagare in preda alla Fame. In cerca di Utopia, probabilmente. Knut Hamsun e la seconda moglie comprarono una fattoria, con l’idea “di vivere del lavoro della fattoria, con la scrittura per sbarcare il lunario“. Alla fine, Knut Hamsun avrà trovato la sua pace? 

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