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Vera, di Elizabeth von Armin, tra modernità e ironia la condizione della donna

Vera è il primo romanzo di Elizabeth von Armin che leggo, a detta della stessa autrice quello che meglio la rappresenta. Perché in questa storia di rapporto coniugale c’è molto della sua vita “vera”, anche se la sua scrittura brillante fa emergere fin dall’inizio l’archetipo dell’amore malato. Mi piacerebbe aggiungere “che affliggeva le donne nel passato”, ma in realtà è una condizione ancora ben presente nella società attuale. Di Vera, e delle donne come lei, possiamo leggere tutti i giorni sul quotidiano, il più delle volte per commentare con un rip, aspettando la prossima.

Trama

Lucy Entwhistle, ventiduenne ancora un po’ bambina, e Everard Wemyss, bell’uomo maturo, sono entrambi in lutto quando si incontrano per la prima volta: lei ha appena perso l’adorato padre, lui la moglie Vera. Consolandosi a vicenda, finiscono per innamorarsi e si sposano in fretta. Dopo le nozze vanno a vivere nella casa di lui, un luogo intriso di rituali dove aleggia lo spettro della prima moglie Vera, scomparsa in circostanze misteriose. Ed è fra queste mura che Lucy comincia a chiedersi: cos’è successo davvero a Vera?

Un uomo semplice 

La morte di Vera è stata accidentale, questo Everard racconta a Lucy. E perché lei non dovrebbe crederci? E’ sempre vissuta protetta dal padre, il suo scudo, il suo filtro per capire il mondo. Certo, il padre e i suoi amici facevano discorsi che Lucy non riusciva a comprendere del tutto, se non dopo le spiegazioni dell’adorato papà. Invece, Everard è un uomo semplice, che parla in modo semplice, che è deciso a vivere la vita secondo le sue granitiche convinzioni. Everard è un’ottima spalla cui appoggiarsi, ora che suo padre non c’è più. Perché, però, l’adorata zia, la sorella del padre, arguta come lui, non lo considera un buon partito per la sua preziosa nipote? Anche la zia non saprebbe dire perché, ma c’è qualcosa in quell’uomo che lei proprio non riesce a digerire.

 Semplice e indigeribile

Segnatevi queste parole, se deciderete di leggere il romanzo: semplice e digerire, perché solo la chiave per interpretare lo svolgimento dei fatti. Everard è un uomo tutt’altro che semplice; piuttosto, è “uno scolaro bisbetico, che si comportava da maleducato; ma sfortunatamente, uno scolaro dotato di potere“. E anche se “Lucy scoprì che il matrimonio era diverso da come l’aveva immaginato. Anche Everard era diverso. Tutto era diverso”, c’è ben poco che il/la partner con la posizione più debole possa fare. Soprattutto una ragazza immatura come Lucy, abituata alla gentilezza e alla protezione del suo piccolo mondo familiare. Per una ragazza come Lucy, è facile convincersi di essere nel torto: “Lizzie era via da neanche cinque minuti che Lucy era già passata dall’infelicità e dallo smarrimento al giustificare il comportamento di Everard; nel giro di dieci minuti ebbe ben chiare le buone ragioni per cui si era comportato in quel modo; in capo a un quarto d’ora si era addossata tutta la colpa per gran parte di ciò che era successo.”

I salici (piangenti)

Ora, saremmo tutti portati a dire che la soluzione sia in fondo semplice. Il marito si rivela per quello che è, manipolare, egocentrico, uno che fonda i suoi rapporti sul terrore e la sottomissione, mascherando la dittatura con un linguaggio lezioso e improponibile passati i quindici anni di età (e forse anche prima), esprimendosi a più riprese con cuoricino, gattina, sciocca scemottina, e amenità di questo genere. La residenza di campagna in cui Lucy si ritrova, The willows, I salici piangenti non a caso, è a sua immagine e somiglianza, ci sono delle belle pagine in cui Elizabeth von Armin induce nel parallelismo tra casa e padrone. Padrone, sì, perché ovviamente il proprietario incontrastato è solo lui. Anche i domestici, sono testimoni silenziosi, molto silenziosi, dei suoi atteggiamenti. Perché lui ha il potere, il potere di pagare profumatamente il loro silenzio. Tanto che l’unica alleata per Lucy diventa proprio…Vera, la prima moglie di Everard, che pervade tutta la casa con il suo spirito. Però siamo sinceri, quante donne ancora oggi sopportano in silenzio senza reagire? Oppure reagiscono, e finiscono per essere maltrattare proprio da chi dovrebbe proteggerle? E cosa dovremmo aspettarci da una fanciulla di inizio novecento? Che coraggiosamente divorzi?

Modernità e ironia

Come finirà? Non ve lo dico, gustatevi la lettura. Dico solo che forse il finale non è poi così importante. O forse sì, dipende dai punti di vista. Quello che conta, a mio avviso, è la modernità con cui Elizabeth von Armin affronta un tema da lei probabilmente vissuto in prima persona. Con il coraggio e la forza di uscirne, vivendo una vita piena e indipendente dopo due matrimoni disastrosi. E l’ironia con cui lo affronta, spezzando i toni cupi della tortuosa vicenda matrimoniale. Tipicamente inglese è il suo gusto per i particolari, apparentemente insignificanti, che tratteggiano un’epoca. In alcuni punti, quando a parlare sono i domestici, ho sentito l’eco di Quel che resta del giorno, di Kazuo Hishiguro, scritto decenni dopo. Nell’atmosfera generale, nell’ambientazione e nella figura femminile che dà il nome al romanzo, indubbiamente Rebecca, di Daphne Du Maurier. La quale certamente conosceva questo romanzo, sono sicura, giungendo a conclusioni diametralmente opposte, però. Come sapete, Daphne Du Maurier è stata accusata a più riprese di plagio per Rebecca, ma da Elizabeth von Armin posso dire che ha preso solo spunto, nient’altro. Mentre Elizabeth von Armin conosceva e apprezzava Cime tempestose di Emily Brontë, che fa comparire in braccio a Lucy nel momento più opportuno. Ed era la cugina di Katherine Mansfield: poco ma sicuro che le due cugine sugli uomini la pensassero nello stesso modo!

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Intanto, chiedo a voi: avete letto qualcosa di Elizabeth von Armin? Quale titolo vi è piaciuto di più?

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Virginia Woolf: una biografia tutta per sé

Virginia Woolf. Centotrentasei anni fa nasceva a Londra, al 22 di Hyde Park Gate nel quartiere di Kensington, Adeline Virginia Stephen, scrittrice, critica letteraria e saggista, editrice e donna che influenzò enormemente la letteratura del ‘900 con la sua arte visionaria. Tutti conosciamo il suo nome, Virginia, e il cognome del marito, Woolf, eppure la sua personalità così complessa sfugge a ogni classificazione e gabbia mentale. Per questo il compito di tracciarne un profilo univoco è arduo e, forse, non può che tradursi in un esercizio di stile fine a se stesso.

La fine

Virginia-Woolf-New-York-Times-Missing-In-England-April-3-1941Il 3 aprile 1941 il New York Time pubblica la foto di Virginia Woolf con la didascalia “Missing in England”, scomparsa in Inghilterra. I biglietti d’addio che sei giorni prima ha lasciato ai cari non lasciano grossi margini di speranza, eppure il corpo non è stato trovato, quindi ufficialmente è ancora missing. Di lì a poco, il fiume Ouse, nel Sussex, restituisce il suo corpo per una degna sepoltura. I coniugi erano a Rodmell, il piccolo villaggio del Sussex dove solitamente trascorrevano le vacanze, perché c’era la guerra e una bomba aveva reso inabitabile la loro casa di Londra. Ma per capire come mai una scrittrice osannata abbia fatto questa scelta dobbiamo tornare indietro, alla sua infanzia.

L’infanzia

22-di-Hyde-Park-Gate-casa-natale-di-Virginia-WoolfAdeline Virginia Stephen nasce il 25 gennaio 1882 a Londra, al 22 di Hyde Park Gate nel quartiere di Kensington. La famiglia è agiata e influente. Suo padre, sir Leslie Stephen, era un autore, storico, critico letterario e alpinista, vedovo in prime nozze della figlia dello scrittore William Makepaece Thackeray (La fiera delle vanità, Barry Lindon), con la quale aveva avuto una figlia, Laura. Sua madre, Julia Prinsep Jackson, figlia di un medico e nata in India, era infermiera e aveva lavorato come modella per pittori del calibro di Edward Burne-Jones. Anche lei era già stata sposata e aveva avuto i figli George, Stella e Gerard. Oltre a Virginia, gli Stephen insieme ebbero altri tre figli: Vanessa, Thoby e Adrian.

Virginia ha la fortuna di vivere in un ambiente ricco di stimoli e influenze della società letteraria vittoriana. Henry James e Thomas Eliot sono tra i frequentatori abituali di casa sua, insieme a pittori, fotografi e artisti in genere. Alle ragazze Stephen, tuttavia, non era concesso di andare a scuola, come prescriveva la rigida regola educativa vittoriana. La loro istruzione era curata direttamente dai genitori e per gli approfondimenti tutti loro potevano liberamente accedere alla fornitissima biblioteca dello studio paterno. Fin da subito, Virginia e i fratelli manifestano la loro inclinazione letteraria. Tanto che quando Virginia ha nove anni creano un giornale domestico, Hyde Park Gate News, in cui scrivono storie inventate che diventano una sorta di diario familiare.

L’adolescenza e la Cornovaglia

talland houseFino all’età di 13 anni, la famiglia Stephen passa le estati a Talland House, una casa in Cornovaglia, tra Polperro e Looe, che il padre aveva cominciato ad affittare nel 1882, l’anno della sua nascita. Proprio St. Ives le ha offerto l’ispirazione per scrivere Gita al faro (1927), uno dei suoi romanzi più famosi. O meglio, a darle l’ispirazione è stato un faro. Gita al faro inizia con la famiglia intera riunita nella casa dell’Isola di Skye e il figlio James che chiede di poter andare in gita al faro il giorno successivo. La madre gli dice che se il tempo sarà bello andranno, mentre il padre risponde bruscamente che non si farà alcuna gita perché il tempo sarà brutto. Anche se il romanzo è ambientato da un’altra parte, era proprio al Godrevy Lighthouse che l’autrice pensava quando lo scrisse. Alla Cornovaglia appartenevano infatti i suoi ricordi più intensi e sereni. Tuttavia, questa parentesi felice della sua vita è stata bruscamente interrotta dalla morte della madre. Il padre, anche lui duramente colpito dalla perdita, vende immediatamente l’amata casa al mare. Solo due anni dopo muore anche la sorellastra Stella e nel 1904 il padre. Questi eventi luttuosi avvenuti a breve distanza l’uno dall’altro portano Virginia al primo serio crollo nervoso, tanto più che ai lutti si sommano agli abusi sessuali subiti da lei e dalla sorella Vanessa da parte dei fratellastri George e Gerald Duckworth.

La giovinezza

bloomsburyDopo la morte del padre, si trasferisce con i fratelli Toby e Vanessa nel quartiere londinese di Bloomsbury, in Gordon Square, dove insieme danno vita al primo nucleo del circolo intellettuale noto come Bloomsbury Group. Il Bloomsbury diviene ben presto il centro culturale inglese, soprattutto durante le serate del giovedì, riunioni nelle quali il gotha degli intellettuali inglesi si ritrova per parlare di politica e arte. Nel 1905 comincia la sua attività di critica letteraria per il Times, facendo conoscenza con importanti intellettuali, tra cui Bertrand Russell, Edward Morgan Forster, Ludwig Wittgenstein e il futuro marito. Il gruppo si chiamava Gli apostoli. Nel 1906, al ritorno da un viaggio in Grecia Thoby, il fratello tanto amato, viene ucciso da una febbre tifoide e l’anno dopo Vanessa si sposa. Tutti questi avvenimenti destabilizzano Virginia, che comunque è in piena attività: dà ripetizioni serali alle operaie di un collegio della periferia, milita nei gruppi delle suffragette, pubblica.

Il matrimonio e la Hogarth Press

virginia-and-leonard-woolfNel 1912 sposa Leonard Woolf, un teorico della politica. Woolf è un uomo devoto, che le sarà sempre accanto fisicamente e spiritualmente, aiutandola a completare nel 1913 il suo primo romanzo, The voyage out (La crociera). pubblicato nel 1915. Lo stress spinge Virginia Woolf verso un altro periodo di depressione. Per farle ritrovare fiducia ed equilibrio, il marito le propone di aprire una casa editrice. Nel 1917, fondano insieme la Hogarth Press, che pubblica scrittori nuovi o autori stranieri poco o male tradotti. Accanto ai loro libri, Virginia e Leonard Woolf riescono in alcuni anni a fare apparire nel catalogo del Hogarth Press delle opere decisive come quelle di T.S. Eliot, Katherine Mansfield, Freud, Rilke, Svevo, Gorki, Cechov, Tolstoj e Fëdor Dostoevskij, anche se con un errore clamoroso rifiutano di pubblicare l’Ulisse di James Joyce.

Nel 1919, Virginia Woolf pubblica il suo secondo romanzo, Notte e giorno, la cui protagonista, prigioniera di una famiglia di letterati, ricorda Vanessa. Nel 1922 pubblica La camera di Jacob, il primo racconto destrutturato, incentrato sulla morte di un giovane deceduto che somiglia molto al fratello Thoby. Nel 1925 pubblica La signora Dalloway, soliloquio che racconta una giornata di Clarissa Dalloway, moglie frivola di un deputato occupata dai preparativi del prossimo ricevimento, che evoca la madre di Virginia stessa. Con Gita al faro (1927), la romanziera ritorna alla storia familiare, probabilmente come detto la sua.

Orlando

30-virginia-vita.w190.h190L’anno dopo pubblica Orlando, che occupa un posto molto particolare nella sua produzione e nella sua vita: dietro la biografia immaginaria di un personaggio androgino che attraversa quattro secoli di storia inglese, c’è in realtà un poema d’amore indirizzato alla scrittrice e sua grande amica Vita Sackville-West. Nel successivo saggio Una stanza tutta per sé del 1929, la Woolf riflette sul donna e narrativa e, più in generale, sul rapporto tra donna e libertà, donna e potere, donna ed espressione. Il tema dell’indipendenza economica della donna come presupposto per la libertà viene portato a compimento nel 1938, con Le tre Ghinee.

La malattia progredisce

Nel corso degli anni ‘30, la depressione di Virginia Woolf si riaffaccia. Diversi fattori l’alimentano: la lontananza di Vita Sackville-West, la morte del figlio maggiore di Vanessa, ucciso durante la guerra civile in Spagna, il nazismo e il timore di un’invasione tedesca, che le origini ebree di Leonard acuisce. Non a caso, l’ossessione della solitudine e della morte è al centro de Le onde (1931). Nel 1937 esce Gli anni: in questa lunga cronaca, costruita intorno dell’agonia di una madre, Virginia Woolf traccia la storia di una famiglia dell’alta borghesia. Il suo ultimo romanzo viene pubblicato l’anno stesso della sua morte, nel 1941. Tra un atto e l’altro (1941) è la metafora di una festa di paese dove si mescolano illusione e realtà, passato e presente, per rivelarsi infine una meditazione sulle fondamenta della civilizzazione. Subito dopo, il 28 marzo 1941, Virginia Woolf decide di porre fine alla sua esistenza terrena riempiendosi le tasche di sassi e lasciandosi annegare nel fiume Ouse. Lascia come saluto al marito una lettera piena d’amore. Dopo la sua morte, vengono pubblicati Diario di una scrittrice nel 1953 e Momenti dell’essere nel 1976, oltre a carteggi e lettere private, così determinanti per indagare la personalità tanto complessa della grande scrittrice inglese.

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