Ich bin Berliner/9: ciao ciao Berlin, è solo un arrivederci

Come si dice, le cose belle devono pur finire e sono arrivata all’ultimo giorno di questo intenso tour in città. Mi rimane ancora una cosa importante da vedere e poi…via allo shopping che conclude tutti i viaggi.

Checkimg_5102 Point Charlie, una volta uno dei più noti punti di passaggio negli anni della guerra fredda, dove un cartello in quattro lingue avvisava chiunque volesse avventurarsi al di là del muro che stava lasciando il settore americano. Il cartello che vediamo oggi è solo una ricostruzione, l’originale è conservato in un museo, e la guardiola di legno dalla quale erano obbligati a passare i visitatori diretti a Berlino est pure, perché l’originale non esiste più.  A me questa finzione è sembrata un po’ triste, l’atmosfera di quell’epoca non si percepisce neanche lontanamente e i due finti soldati americani sono lì per alzare un po’ di soldi mettendosi in posa con i turisti. Bah, uso la fantasia e immagino di essere nel 1961, quando proprio dove mi trovo
img_5106si fronteggiarono i carri armati americani di Kennedy e quelli sovietici di Krusciov, che se non si fossero ritirati avrebbero di fatto segnato l’inizio della terza guerra mondiale. Io mi trovo in mezzo e alzo le braccia in segno di pace…

Ok, il resto ve lo risparmio.  Parliamo di shopping, che è meglio. Mi rifugio nei negozietti di souvenir adiacenti e mi diverto a osservare in quanti modi hanno declinato i pezzetti di muro in vendita. Mi viene pure un’idea di business niente male: prendo qualche mattone, lo sbriciolo, piazzo i pezzi su un magnete e lo spaccio per muro. Decisamente oggi la fantasia galoppa un po’ troppo.

Souvenir, regalini, ricordini, l’incubo di ogni viaggiatore, e di ogni linguista con tutti questi -ini.

Berlino non offre un granché, ve lo dico subito. In ogni dove trovo pezzi di muro, appunto, l’orso simbolo della città, riproduzioni della Trabant, l’unico modello di automobile venduto a Berlino est, e gli Ampelmann, cioè gli omini del semaforo che sono diventati un oggetto di culto, declinato in tutte le salse.  Un giretto al KaDeWe, il grande magazzino tipo Harrod’s, non me lo toglie nessuno. Alla fine ho scelto di andare sul sicuro: cioccolata. Al negozio Ritter Sport scegli i gusti, un omino paziente con i fotografi molesti la cola davanti ai tuoi occhi rapiti e dopo mezz’ora è pronta e inscatolata, con un biglietto dentro che dice pressapoco “l’ho creata per te”. Buona, buona, buona. E sicuramente gradita a chi la riceve.

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Ora è proprio finita. L’autobus TXL dal centro mi porta in 20 minuti all’aeroporto, fantascienza. Ciao, ciao, Berlin. E non piangere. In fondo, è solo un arrivederci.

Ich bin Berliner/8: Bebelplatz, brucia libro, brucia!

Bebelplatz. C’è peggior incubo per un lettore di una biblioteca vuota? No, non c’è, ve l’assicuro. Micha Ullmann deve aver pensato lo stesso, quando nel 1995 ha deciso di costruire sotto Bebelplatz degli scaffali vuoti, visibili dalla piazza tramite una botola quadrata in vetro. Una biblioteca vuota per ricordare il 10 maggio 1933, quando proprio in Babelplatz i nazisti hanno bruciato grandi opere della letteratura mondiale, tra cui Thomas Mann, Erich Kästner, Stefan Zweig, Heinrich Heine, Karl Max o Kurt Tucholsky in quella che ancora oggi viene ricordata come “la notte del rogo dei libri“.

Humboldt-Universität

Al pellegrinaggio arrivo preparata, con un libro in mano da abban-donare alla città. Per l’abban-dono ho scelto un luogo simbolico e un libro altrettanto simbolico: Co’opetition, scritto da un certo Brandenburger (!) Vabbè, il nome dell’autore è un caso. Comunque, l’idea del libro è semplice: un’azienda moderna non deve e non può solo competere, ma deve anche adottare una strategia di coopetizione, cioè di competizione e cooperazione insieme. Nella piazza c’è la più antica università della città, la Humboldt-Universität, quale migliore lascito per gli studenti?

La biblioteca sotterranea

Mi appresto, è tutto pronto, la dedica scritta in prima pagina. Ma…ma…dov’è la biblioteca vuota? Giro intorno ai soliti cantieri, sparsi per tutta Berlino, mi avvicino al palazzo dell’università, mi sposto sul fronte opposto, e finalmente eccola lì, la biblioteca sotterranea. Piccola, molto più piccola di come l’immaginavo, seminascosta, come un po’ tutto qui, l’emblema di una città da scoprire.

Rimiro gli scaffali: però, avessi io questo spazio in casa per i miei amati compagni di viaggio 😉

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Mi rendo immediatamente conto che il libro non posso lasciarlo qui: troppo passaggio, troppi piedi che calpestano il vetro. Mumble, mumble, dove posso lasciarlo? Ed ecco l’epifania: il palo con la lapide della via!

E’ perfetto, sta pure di fronte all’Hotel de Rome, con l’asta della bandiera italiana. Furtivamente mi avvicino, lo lascio e me ne vado, e siccome l’assassino torna sempre sul luogo del delitto, il giorno dopo sono tornata a vedere se c’era ancora (notare la differenza di luce tra le due foto sotto). Pluff, sparito! Lo so cosa pensate, che i netturbini abbiano ripulito la piazza nottetempo portandosi via il libro. E se anche anche fosse? Magari l’ha portato a casa uno di loro, lasciatemi sognare. Siamo o non siamo lettori?

Sto per lasciare Berlino. Rimane un unico luogo iconico da visitare…

Leggi anche: 

Ich bin Berliner/1: I ragazzi dello zoo di Berlino

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Ich bin Berliner/7: il mare di Berlino

Eh sì, a Berlino c’è il mare. Non lo sapevate? Guardate questa, miscredenti, e ricredetevi. img_5114

E’ proprio vero: quando la realtà non ti piace, c’è sempre la fantasia a soccorrerti. D’altronde, quando è estate e l’afa ti attanaglia. non desideri altro che buttarti in acqua. A Berlino hanno fatto così: hanno preso un distretto industriale dismesso, l’hanno riempito di sabbia, hanno installato docce e spogliatoi e trasportato una vasca nello Sprea. Ecco servita ai berlinesi una piscina di tutto rispetto, la Badenschiff. Appena ho sniffato aria di cloro, ho deciso di avventurarmi per la periferia, armata di costume e asciugamani, alla ricerca di questa meraviglia. Ve l’ho detto, no? Berlino è una città che vive nell’ombra, bisogna conoscere i luoghi del divertimento e capire come raggiungerli. Nel caso della piscina, non è stato per niente facile. Arrivata nei pressi, stavo quasi per arrendermi, quando ho notato un tizio vestito da bagnino, o almeno così sembrava. Seguiamolo, Watson! Per fortuna non mi sono sbagliata, perché vi dirò, il posto era abbastanza inquietante. Arrivo tutta contenta sulla battigia e la barista/receptionist mi gela: alt, la piscina è aperta solo fino alle 14. Arrggghhh, su Instagram non era specificato! Ma fa caldo, non si potrebbe…e niente, sono tedeschi. Niet su tutta la linea.

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Delusissima, non mi resta che tornare sulle mie ciabatte (!). Direzione: Torre della televisione. Incerta fino alla fine se salirci o no, alla fine ho ceduto. L’ex simbolo della DDR, oggi è uno degli emblemi della città unificata, nonché l’edificio pubblico più alto d’Europa con i suoi 368 metri di altezza. Un ascensore tipo quelli di New York, con il vetro trasparente sul tetto per ammirare la velocità di salita, mi ha portato fino in cima, in un ambiente circolare da cui si può osservare praticamente tutta la città, con targhette che indicano tutti i luoghi di interesse vicini e lontani e danno qualche cenno storico di ognuno. Secondo me è utile salirci o all’inizio del viaggio, o alla fine, come nel mio caso. All’inizio, per decidere con cognizione di causa su quali monumenti e posti concentrarsi: c’è talmente da vedere che bisogna per forza fare una scelta! Oppure, aspettare la fine, e ripercorrere tutto quello che si è visto in un solo colpo d’occhio. Stavolta, per fortuna, non mi sono pentita: la vista non è male e, tutto sommato, vale il prezzo del biglietto. A proposito, attenzione a non perderlo, perché secondo le loro procedure di sicurezza serve per far aprire il tornello elettronico. Ovviamente non ho fatto caso al cartello che indicava il warning e a un certo punto ho iniziato a sudare freddo. Perché i guardiani non verranno ad aiutarvi e faranno finta di niente di fronte a voi presi dal panico. Alla fine l’ho trovato, ma ho lasciato altri due ignari distratti a tirare fuori tutto dalla borsa. Chissà se alla fine ce l’hanno fatta?

Troppe emozioni oggi, mi serve una cenetta. Mi dirigo di nuovo verso Hackescher Markt: lo so, sono noiosa, ma sapete che l’ho eletta mia piazza preferita. Stavolta, mi sono seduta al 1840 Restauration e ho ordinato:

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Kartoffeln kaiser suppe, cioè zuppa di patate con pezzetti di carne. A dispetto dell’apparenza, non era niente male.

img_5132 Curriwurst con patate. Niente a che vedere con quello preso al fast food, soprattutto per la salsa, molto più gustosa con un sentore piccante. img_5133

Per chiudere in bellezza, dolce berlinese di gelato alla vaniglia, frutti rossi e croccante di pistacchio. Tutto perfetto, ad eccezione dell’abitudine, sembra piuttosto diffusa in città, di chiedere “spintaneamente” la mancia al cliente. Ora, in linea di principio non avrei niente in contrario, ma la mancia obbligatoria la trovo di pessimo gusto e ingiusta per il cliente, che dovrebbe premiare il locale solo se ritiene che il locale l’abbia meritata. Un piccolo particolare che non è riuscito a rovinare la cena, per fortuna!

 

Il racconto del viaggio a Berlino continua domani, con una chicca da lettori. Stay tuned!

Ich bin Berliner/6bis: all in all, no more bricks in the Wall!

Riprendiamo da dove ho interrotto ieri.

Dicevo: Sachsensausen. La visita dura mezza giornata circa e, vi confesso, uscita da lì non hai altra voglia che sentirti vivo.

D’altra parte, i trasporti eccezionalmente efficienti della città ti consentono di passare come una pallina impazzita da una parte all’altra della città.

img_5067In meno di un’ora ho raggiunto l’Oberbaumbrücke, il ponte rosso che collega KreuzbergFriedrichshain, separati dal fiume Sprea. Cos’hanno di particolare questi due quartieri? Che fino al 1989 erano separati non solo dal fiume, ma anche dal muro di Berlino. Il ponte è molto particolare, sembra medievale per via delle torrette e degli archi, ma è di epoca più recente. Durante la Guerra fredda è diventato simbolo di divisione, perché fu uno dei punti di passaggio tra Est e Ovest e quindi zona di confine, pattugliata da guardie armate.

Alla destra del ponte, inizia la East side Gallery, frequentata perlopiù da giovanissimi e turisti che fotografano i dipinti murali creati da numerosi artisti, invitati appositamente a lasciare la loro teimg_5064stimonianza sui brandelli di muro ancora in piedi. Il muro in sé mi ha sorpreso non poco. Voglio dire, è poco più di un muretto, basso e neanche tanto profondo. Come diavolo sono riusciti a tenere buoni milioni di uomini con un ostacolo così piccolo? La seconda parziale delusione è stata la street gallery, protetta da sbarre perché evidentemente le persone non sanno tenere i pennarelli fermi e stavano rovinando le opere d’arte. I disegni, invece, sono stupendi e valgono la pena di arrivare fin laggiù (il quartiere non è proprio centralissimo). Vi consiglio scarpe comode e di arrivare a piedi fino ad Alexanderplatz, così potrete vederle tutte.

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Arrivata ad Alexanderplatz, è ora di cenare. Voglio tornare nella piazza che, ormai lo sapete, ho eletto a preferita, Hackescher Markt. Scelgo Weihenstephaner, un locale bavarese con camerieri vestite con i costumi tradizimg_5079ionali. Peccato che abbiano dimenticato di indossare scarpe intonate, rovinando un po’ l’atmosfera. comunque i piatti meritano. Lo stinco è croccante al punto giusto, e lo strudel è divino. Non so se è più buona la panna o la salsa che lo accompagna. E non lo saprò mai, sono finite entrambe troppo presto per poter giudicare!

 

 

 

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Vi aspetto domani, con la penultima puntata del diario. Dico solo: Babelplatz, Badenschiff e Torre della Televisione.

Ich bin Berliner/6: Sachsenhausen

Sachsenhausen. Tranquillità. Pace. Silenzio. Desolazione.

Orrore.

Silenzio.

Lacrime.

La mia visita a Sachsenhausen è tutto questo, e anche qualcosa d’inesprimibile a parole.

Cos’è Sachsenhausen? Era un campo di concentramento nazista che si trova a circa 35 km a nord da Berlino, a Oranienburg, e che venne utilizzato principalmente per i prigionieri politici dal 1936 fino alla fine del Terzo Reich nel maggio 1945. Successivamente, Oranienburg entrò a far parte della zona di occupazione sovietica, quindi la struttura venne usata come campo speciale fino al 1950.

Non avevo mai visto prima un campo di concentramento, ma ero convinta che tutti i film e i libri sull’argomento mi avessero in qualche modo preparato a quello che avrei trovato.

No, proprio no.

Nella cittadina si arriva facilmente con un treno e c’è un autobus alla stazione che porta direttamente al campo, anche se volendo si può andare a piedi. L’impatto direi che è leggero. Casette singole, la posta, la farmacia, il giornalaio. La tranquillità assoluta. Poi, una sottile inquietudine si fa strada ancora prima di entrare. Il paragone è blasfemo, ma sembra il quartiere delle Casalinghe disperate, perfetto all’apparenza, marcio dentro. Le case sono attaccate al campo, quando avevo sempre pensato che fossero stati costruiti fuori dai centri abitati per non avere testimoni del massacro.

Invece, qui sembra che sia perfettamente inserito nella comunità. L’audioguida conferma il sospetto: la popolazione sapeva, sapeva e accettava. Il giro è costruito in modo da non impressionare fin dall’inizio, lasciando al visitatore il tempo di “acclimatarsi”. Il primo edificio che incontro è la casa del generale, dentro un giardino che oggi ospita diverse lapidi spontaneamente donate dai parenti di alcune vittime. Vedo un signore che passeggia con un mazzo di fiori in mano e mi rendo conto di non aver pensato a un omaggio. Per terra ci sono tante piccole pigne, mi sembrano ideali per rimediare. La pigna è associata metaforicamente all’eternità e all’immortalità. Il pino, infatti, è un sempreverde, non ingiallisce e non perde le foglie. Non so chi siate, né dove siate sepolti, ma oggi questa pigna è per voi.

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Per voi, che oggi siete FREI, LIBERI.

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Arbeit macht frei

Il famigerato slogan “Arbeit macht frei”, “il lavoro rende liberi” mi fa capire che sto per entrare davvero nel campo.

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Una volta attraversato il cancello, mi sono ritrovata in un campo vasto, una landa desolata, perché come me anche gli altri sono ammutoliti improvvisamente. Il campo è vasto, si sente solo il vento sugli alberi e qualche cornacchia ogni tantoimg_5022. M’innervosisce la perfezione geometrica con cui è stato pensato e progettato. Dalla cima della Torretta A, che si trova sopra il cancello, le SS di guardia potevano raggiungere e uccidere tutti i prigionieri con una mitragliatrice e se qualcuno provava a scappare veniva subito individuato. Le fabbriche in cui lavoravano i prigionieri sono state dismesse, rimane solo il perimetro riempito di sassi, per far capire com’erano collocate all’epoca. Alcune baracche sono state ricostruite quando il sito è diventato museo.

In mezzo al campo c’è poi una specie di mezzaluna, la cosiddetta “via delle scarpe“, dove i prigionieri percorrevano per km su km terreni di diversa consistenza, costruiti appositamente per testare la suola delle stivali che sarebbero poi stati utilizzati dai soldati tedeschi. In quel momento si è affacciato un pensiero sgradito, quanto fosse grottesco aver appena assistito a una maratona, dove si consumano suole in un’attività divertente, e dover poi immaginare quanto massacrante fosse questo “lavoro” per i prigionieri.

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Il campo di Sachsenhausen era completo di tutto: prigione, cucina, lazzaretto, infermeria. L’infermeria è quasi alla fine del giro ed è veramente orribile, nel vero senso della parola. Due padiglioni con sotterranei comunicanti, in cui i medici nazisti compivano i loro esperimenti, soprattutto sui bambini.  A un certo punto la gola mi si è strozzata, dovevo uscire subito di lì, respirare aria, tornare all’aperto.

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Mi sono seduta su un muretto, alle prese con sentimenti di rabbia, impotenza, nonostante tutto incredulità, smarrimento. Come, come sia stato possibile tutto questo, rimarrà probabilmente un mistero per tutti quelli che non l’hanno vissuto. Come, come queste atrocità vengano compiute ancora oggi, può essere spiegato solo con l’incapacità dell’uomo di imparare dai propri errori. E con la capacità dell’uomo di tacitare la propria coscienza.

Il post sarebbe dovuto terminare con il resto della giornata. Mi perdonerete se rimando a domani il resto.

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