Winter, il teen fantasy di Asia Greenhorn

Quando fa molto caldo, per resistere adotto un metodo psicologico infallibile: pensare al freddo e alla neve, buttarmi in piscina e leggere romanzi leggeri e che possibilmente mi portino in un mondo di fantasia, o in cui almeno le temperature siano diverse. Quando ho visto la copertina di Winter, non ho resistito.

La trama

Winter è un’adolescente che si è appena trasferita da Londra a Cae Mefus, una piccola cittadina nel nord del Galles, in seguito al misterioso malore che ha costretto sua nonna in ospedale. Una nuova casa l’accoglie. E una nuova famiglia, quella dei Chiplin, il cui figlio maggiore, Gareth, non le toglie gli occhi di dosso. Nella nuova scuola Winter incontra Rhys, un ragazzo dalla bellezza misteriosa, dal quale Gareth cerca di metterla in guardia. Ha gli occhi brillanti e lo sguardo profondo di chi nasconde un segreto. L’attrazione li travolge come un’onda, è un’energia inspiegabile e pericolosa. Mentre strane aggressioni si verificano nella contea, Winter stessa viene assalita nel bosco. Winter deve scoprire un nuovo mondo, dove antiche tradizioni si tramandano di generazione in generazione, dove un patto segreto protegge l’esistenza di migliaia di persone. Deve scoprire la verità sulla sua provenienza e sull’unica eredità che le ha lasciato il padre: un ciondolo di cristallo che non deve togliere mai, per nessun motivo. Ma ora è arrivato il momento di scegliere tra Rhys, il ragazzo che ama, e la sua stessa vita, come l’ha sempre conosciuta.

Winter cattura, però…

Contravvenendo alla regola aurea di selezione dei romanzi che leggo, stavolta mi sono fatta catturare dalla copertina e dalla trama, che mi sono piaciute subito. Parto quindi dagli aspetti positivi, oltre ai due già citati. Innanzitutto, il racconto è piacevole e mi ha catturato. La protagonista Winter è un personaggio che avrei voluto aiutare: sola, senza genitori, con la nonna in ospedale e un avvocato che ne decide il trasferimento in un’altra città e in un’altra famiglia. Poveretta, al posto suo mi sarei chiusa in una stanza aspettando i 18 anni. Invece lei no, grazie a Gareth e alla sorella riesce a inserirsi bene nella nuova scuola e nella sua nuova realtà. I capitoli si chiudono sempre con un colpo di scena, il che tiene desta l’attenzione e la voglia di sapere come andrà a finire.

…gerarchia e ruoli confondono

Peccato solo che ci sia troppa confusione, e qui veniamo alle note dolenti, nello schema del mondo vampiresco e nell’esatta funzione di alcuni personaggi, altrimenti sarebbe stato un gran libro per essere un’opera prima. Tra Gran Maestro, Consiglio, Pater, Esecutore, Famiglie, infatti, è difficile capire quali rapporti di gerarchia esistano e, soprattutto, quale sia il ruolo di ognuno. Stessa cosa si può dire del Potere, che ha una funzione fondamentale in tutto il libro, ma di cui non viene spiegata né l’origine, né in cosa consista esattamente. Altro tema lasciato in disparte, a mio avviso erroneamente, è il rapporto tra i genitori di Winter, un tassello fondamentale per capire le origini della vicenda. Forse verrà spiegato nel prossimo libro della saga? Chissà. Come dico sempre, però, anche i romanzi che costituiscono una serie devono essere autonomi e autoconclusivi, per lasciare libero il lettore sovrano di non proseguire se non ne ha voglia. 

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La donna dei fiori di carta – Donato Carrisi

Donato Carrisi è un autore italiano di grande successo e forse sto fidando legioni di suoi fans con questo mio commento, che non è del tutto positivo. Per colpa del finale, purtroppo, perché fino a 3/4 avrei detto di aver letto un bellissimo racconto.

La trama

Il monte Fumo è una cattedrale di ghiaccio, teatro di una battaglia decisiva. Ma l’eco dei combattimenti non varca l’entrata della caverna in cui avviene un confronto fra due uomini. Uno è un prigioniero che all’alba sarà fucilato, a meno che non riveli nome e grado. L’altro è un medico che ha solo una notte per convincerlo a parlare, ma che ancora non sa che ciò che sta per sentire è molto più di quanto ha chiesto e cambierà per sempre anche la sua esistenza. Perché le vite di questi due uomini che dovrebbero essere nemici, in realtà, sono legate. Sono appese a un filo sottile come il fumo che si leva dalle loro sigarette e dipendono dalle risposte a tre domande: chi è il prigioniero? Chi è Guzman? Chi era l’uomo che fumava sul Titanic?

Un non-noir 

E’ il primo libro che leggo di questo autore di successo e fino alla fine avrei voluto detto di aver letto un racconto bello. Dopo aver terminato il libro, però, mi sono dovuta parzialmente ricredere, perché ho trovato il finale deludente. Non entro nei dettagli per non rovinare la lettura ai curiosi che leggono recensioni prima di iniziare un romanzo, ma l'”incontro” è solo tratteggiato e non soddisfacente. Sembra quasi tirato via, forse con l’intenzione di giungere a un non-finale. D’altra parte, l’autore classifica “La donna dei fiori di carta” come noir, pur non essendolo. E’ forse la mancanza di un finale dritto al cuore che può farlo rientrare nel genere? Chissà. Io non credo. 

Real romance – Ginny Baird

Ginny Baird è una scrittrice self americana che ha all’attivo diversi romanzi, credo non tradotti in italiano. E’ anche molto generosa nell’offrire alle sue lettrici dei romance gratis per farsi conoscere. Ne ho scaricati alcuni e ho letto Real romance (che però ora non è più free). Ecco a voi la trama e cosa ne penso.

La trama

L’amore arriva quando meno te lo aspetti. La timida direttrice di una libreria Marie McCloud trascorre ogni notte tra le copertine con un ragazzo sexy…L’eroe di uno dei romanzi rosa che porta a casa dal lavoro e che le piacciono tanto. David Lake è sempre pronto per una sfida fisica. Ma per una intellettuale? Decisamente non è il suo genere. Almeno fino a quando non incontra Marie; David si sente pronto a tutto per attirare l’attenzione della bella bruna. Con un po’ di ricerche, e un sacco di letture, David si prepara a spazzare via tutti i dubbi di Marie. E quelli della sua ingombrante famiglia.

Real romance 

Il titolo è davvero azzeccato. Il romanticismo sprizza da tutti i pori, fin dalle prime pagine. Il romanzo di Ginny Baird è scritto bene e la trama è carina. In più, David e Marie sono due personaggi simpatici, puri e cristallini, senza ombre nella vita. Forse, è proprio tutta questa positività il lato debole del libro. Secondo me, infatti, è un peccato che manchi un sussulto. Nessun brivido, nessun vero punto di rottura. E’ una storia che scorre serena e tranquilla fino al lietissimo fine, intuibile fin dall’inizio, ovviamente. Consigliato a tutte le lettrici che amano le storie super super romantiche, con protagonisti belli e di buoni sentimenti con i quali trascorrere alcune serate rilassanti in buona compagnia. Purtroppo per le lettrici italiane, non credo esista una versione tradotta, ma se masticate un po’ d’inglese non avrete problemi. 

 

 

La scrittrice abita qui – Sandra Petrignani

Sandra Petrignani e le case delle scrittrici. E’ già passato quasi un anno da quando, carica di aspettative, ho preparato valigie e  attrezzatura del mestiere (cioè una vecchia macchina fotografica, un taccuino e una penna) per andare a fare una delle esperienze più entusiasmanti della mia vita, mettermi Sulle tracce delle grandi scrittrici per andare nei posti dove sono nate o hanno vissuto.
Quando mi è capitato tra le mani La scrittrice abita qui di Sandra Petrignani in prossimità dell’anniversario del viaggio, non potevo non prenderlo come un segno del destino. Soprattutto perché tra lei e me c’è una scrittrice in comune.
La trama
Dalla Sardegna di Grazia Deledda all’America di Marguerite Yourcenar, dalla Francia di Colette all’Oriente di Alexandra David-Néel, dall’Africa e Danimarca di Karen Blixen all’Inghilterra di Virginia Woolf. Un lungo viaggio in case-museo che, attraverso mobili e suppellettili, stanze e giardini, raccontano la storia sentimentale delle più significative scrittrici del Novecento. Da Parigi alla Provenza, dal Kenya al Maine, da Copenhagen al Tibet, Sandra Petrignani le cerca nei loro oggetti, interroga i loro diari, la poltrona in cui si sedevano, il portafortuna da cui non si separavano, ma anche le persone che ancora conservano un ricordo vivo di loro. Così il viaggio diventa un giro del mondo dove a ogni tappa è come se le protagoniste in persona aprissero la porta e svelassero i segreti della loro vita. Le mele nel tinello della Yourcenar e il suo cane ancora vivo, il tempio tibetano ricreato a Digne dalla David-Néel o la stanza chiusa che fu sua nel monastero del Sikkim dove si ritirò in meditazione, la Barbagia della Deledda con le fate e i folletti che influenzarono la sua fantasia, il grammofono della Blixen portato con sé dalla sua Africa in ricordo dell’uomo che aveva amato e perduto per sempre: Sandra Petrignani ascolta “la voce delle cose” e la traduce nelle storie di questo libro.

La voce delle case 

L’idea di partenza è interessante: visitare le case delle scrittrici, nella supposizione che lì l’anima delle persone si riveli in tutta la sua essenza. Solo nella nostra casa, nell’intimità delle nostre cose, riusciamo a essere noi stessi, a rivelare chi siamo, attraverso gli oggetti, le fotografie, l’arredamento, gli abiti. Siamo nudi, agli occhi di chi vuole scoprire il nostro carattere e le nostre abitudini.
Le sei scrittrici, Grazia Deledda, Marguerite Yourcenar, Colette, Alexandra David-Néel, Karen Blixen e Virginia Woolf non hanno niente in comune. A volte si sono sfiorate o incontrate, ma rimangono mondi a se stanti. Il che rende chi legge libero di scegliere da quale capitolo e da quale autrice partire. Io sono partita da Virginia Woolf, perché ho scritto da poco una sua biografia e mi interessava conoscere qualche altro aspetto, non avendo visitato la casa che condivideva con il marito, ma solo il famosissimo Godrevy Lighthouse di Gita al faro. Cominciando dalla fine, e da una biografia che in parte conoscevo già, ho pensato che malauguratamente al saggio non sono state allegate le fonti da cui Sandra Petrignani ha preso le informazioni. Peccato, perché sarebbe stato invece utile non solo per approfondire alcune parti che mi hanno incuriosito, ma anche per verificare delle considerazioni che, nel caso di Virginia Woolf per esempio, rimangono nel limbo dell’opinione personale che su di lei si è fatta l’autrice del saggio e che forse non appartengono davvero alla storia della scrittrice.

Verificare le fonti è impossibile 

Dico forse, perché, appunto, verificare attraverso le fonti è impossibile. Un limite dell’opera che secondo me affligge il lettore soprattutto quando si trova ad affrontare i capitoli delle scrittrici che conosce poco o non conosce affatto. Nel mio caso, è successo nel capitolo dell’esploratrice Alexandra David-Néel. Come è giusto che sia, delle biografie abbiamo soltanto dei cenni laddove servano per inquadrare meglio il personaggio alla luce della dimora in cui ha abitato, e non viceversa. Il che è probabilmente funzionale al tipo di monografia che Sandra Petrignani ha voluto realizzare, ma che lascia molte ombre nella ricostruzione delle vite. Salti temporali continui rendono difficile ricomporre la vita delle donne ritratte, probabilmente perché il lavoro sarebbe diventato immenso e un libro di 220 pagine sarebbe diventato un tomo di mille.

L’anima delle case e quella delle persone

Il merito principale è comunque quello di aver aperto le porte di queste case abitate da donne fuori dall’ordinario. Leggere fa venire voglia di preparare una valigia e partire  immediatamente, per aprire le stesse porte e curiosare all’interno. Quello che però scaturisce è una distanza emotiva, uno stile scarno che poco rappresenta i sentimenti burrascosi delle donne raccontate. Sì, chiudendo come ho fatto io con Grazia Deledda, sembra quasi che le case siano vuote, come se l’anima delle scrittrici che vi hanno abitato le abbiano lasciate. Così non è, non può essere. Perché l’anima di una casa e l’anima delle persone che l’hanno abitata rimangono unite indelebilmente. E per sempre.
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Tim – Colleen McCullough

Tim è il primo romanzo di Colleen McCullough, anche se in Italia è arrivato dopo il suo più grande successo, Uccelli di rovo. E’ stato, infatti, pubblicato nel 1974 e siccome dopo aver letto La passione del dottor Christian ho deciso di leggere tutti i libri di questa scrittrice, che mi piace molto per il suo eclettismo, sono partita proprio da Tim.

La trama

Mary è una donna di 43 anni che non conosce l’amore. Cresciuta in un istituto per orfani, si è dedicata al lavoro, raggiungendo la solidità economica e il rispetto degli altri. Un giorno incontra Tim, un ragazzo di venticinque anni, bello come il sole, forse di più. Tim è un ragazzo fisicamente molto attraente con la mente di un bambino, essendo nato con una disabilità neurologica. Incredibilmente, tra i due scoppia un’attrazione istintiva. Tim e Mary sono fatti per stare insieme. Ma cosa dirà la gente? I familiari di Tim sapranno accettare la situazione?

Una relazione tra una donna più grande e un ragazzo mentalmente disabile è socialmente accettabile?

E’ questo il tema su cui Colleen McCullough coinvolge il lettore. Come in Uccelli di rovo era l’amore tra un prete cattolico e una ragazza e come in La passione del dottor Christian era il diritto o meno di procreare.

Temi scomodi, che la scrittrice australiana inserisce nel contesto bucolico di romanzi d’amore. Mary e Tim sono tratteggiati con pennellate iniziali che ci fanno subito capire di fronte a cosa ci troviamo. La donna si definisce da sé “ zitella di mezza età”: una persona metodica, rigorosa, benestante, che non mostra neanche un centimetro di pelle e non ha mai aperto il suo cuore non solo all’amore, ma anche semplicemente ai rapporti interpersonali.

Tim è un’anima semplice, un bambino. Un ragazzo protetto dai genitori e dalla sorella e che ha imparato, anche grazie alla loro guida, a sopportare gli scherzi pesanti dei cosiddetti “adulti normodotati”. Con una particolarità: stupendo fisicamente, il che se possibile peggiora la situazione.

Mary lo prende sotto la sua ala e lo assume per lavorare nel suo giardino. Il giardino è il simbolo di quanto la donna abbia costruito negli anni. E’ il suo rifugio, il suo orgoglio, e non è un caso che faccia entrare Tim in questo regno. Tim si affida a lei completamente, nei concetti semplici che riesce a esprimere la paragona a mà e pà, i suoi genitori, per lui il massimo dell’autorevolezza e del conforto.

La vita è strana e l’amore anche

Mary e Tim s’innamorano e nessuno può farci niente, neanche lei, che fino all’ultimo nega anche a se stessa quello che prova. Ovviamente non sono tutte rose e fiori, ma quello che la scrittrice vuole esprimere è la stranezza della vita. Due persone indirizzate su binari paralleli ormai statici e lontani anni luce uno dall’altro, improvvisamente convergono in un binario unico, che li arricchisce e li rende migliori, più forti.

E’ il potere dell’amore? Non solo, anche di un’alchimia impensabile, che crea un antidoto potente alla cattiveria del mondo.

Mary, Tim e gli stereotipi di una società rigida

Se non fosse per un passaggio a vuoto dopo la parte centrale, al romanzo avrei dato cinque stelle, perché mi piace molto il modo in cui Colleen McCullough scardina gli stereotipi su cui basiamo le nostre vite, rendendo credibile una storia d’amore che poteva al contrario risultare surreale. Peccato che in alcune parti abbia trovato Tim un po’ lagnoso e lei troppo vittima della sua parte di zitella di mezza età. O forse è solo che l’aspettativa di vita è cambiata e ho fatto gran fatica a vedere una donna quarantenne come una avviata sul viale del tramonto! D’altra parte, anche i genitori di lui a 70 anni vengono descritti come a fine vita, quindi ne deduco che negli anni ’80 in Australia l’età media di vita fosse sensibilmente più bassa rispetto a quella odierna. Altra cosa che non mi ha convinto fino in fondo, il personaggio della sorella di Tim, Dawnie. Descritta come una ragazza super intelligente, non mostra alcuna profondità d’animo, né prima dei fatti, né dopo. Forse è proprio l’effetto che la McCullough voleva ottenere, distinguere l’intelligenza come comunemente la intendiamo dall’intelligenza emotiva.

Chi siamo noi per giudicare?

In ogni caso, a parte queste piccole lacune, credo che l’esperienza di medico e di insegnante di neurologia di Colleen McCullough di abbia contribuito non poco a disegnare l’impalcatura di una storia che non nasconde la cruda verità di una società rigida e conformista, che non accetta il diverso, in qualsiasi forma si presenti. Quello che dovremmo sempre chiederci è: chi siamo noi per giudicare? E darci anche una risposta, possibilmente: nessuno.

A questo punto, sono pronta per iniziare il suo prossimo romanzo, L’altro nome dell’amore.