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Pachinko, è così terribile essere coreano?

Pachinko, un romanzo che tre anni fa ha avuto un grande successo e che ora sta per diventare un kdrama interpretato da Lee Min-Ho. Perché? Perché racconta una di quelle storie che la storia ufficiale sembra aver dimenticato. E che continua a dimenticare tuttora, quella degli stranieri in patria e stranieri nel loro Paese. La scrittrice americana di origine coreana Min Jin Lee alza il velo e lo fa raccontando la storia di Sunja e, con lei, di tutte le donne del mondo.

“È così terribile essere coreano?”

“È terribile essere me”.

Trama

Corea, anni Trenta. Quando Sunja sale sul battello che la porterà a Osaka, in Giappone, verso una vita di cui non sa nulla, non immagina di star cambiando per sempre il destino del figlio che porta in grembo e delle generazioni a venire. Sa solo che non dimenticherà mai il suo Paese, la Corea colpita a morte dall’occupazione giapponese, e in cui tuttavia la vita era lenta, semplice, e dolce come le torte di riso di sua madre. Dolce come gli appuntamenti fugaci sulla spiaggia con l’uomo che l’ha fatta innamorare per poi tradirla, rivelandosi già sposato. Per non coprire di vergogna la locanda che dà da vivere a sua madre, e il ricordo ancora vivo dell’amatissimo padre morto troppo presto, Sunja lascia così la sua casa, al seguito di un giovane pastore che si offre di sposarla. Ma anche il Giappone si rivelerà un tradimento: quello di un Paese dove non c’è posto per chi, come lei, viene dalla penisola occupata. Perché essere coreani nel Giappone del ventesimo secolo, è come giocare a un gioco d’azzardo, il Pachinko: una battaglia contro forze più grandi che solo un colpo di fortuna o la morte possono ribaltare.

In cerca di una terra promessa

Il romanzo inizia nei primi anni trenta e finisce alla soglia del 1990. Cinquantasette anni in cui seguiamo la sorte di Sunja e della sua famiglia. Ragazzina inesperta all’inizio, nonna alla fine, Sunja lascia la Corea in cerca di una vita migliore, seguendo un marito che conosce pochissimo e che le promette solo una cosa, di rimanerle accanto nella buona e nella cattiva sorte. Non è questo che recitano le promesse matrimoniali? E la cattiva sorte, che perseguita i due fin dalla nascita, non tarda a manifestarsi in quella che avrebbe dovuto essere una terra promessa e si rivela nient’altro che l’ennesima prigione.

Ma non è questo che Min Jin Lee vuole raccontarci

Attraverso le vicende di Sunja, del marito Isaek, della Onni Kyunghee, del suo primo uomo, Hansu e dei due figli, Noa e Mozasu, la scrittrice americana vuole parlare di immigrazione, di chi si sente straniero in patria, di chi non ha un Paese in cui tornare. Come diceva Cesare Pavese: Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Quello che, al contrario, spesso dimentichiamo, è che molta gente un Paese in cui tornare non ce l’ha. Perché è un Paese in guerra, oppure perché è nato in una Nazione straniera e non ha radici. Comunque sia, questa è la forza del romanzo, una documentata e attenta ricerca sullo stile di vita e le difficoltà di integrazione della comunità coreana in Giappone. Mal vista, mal digerita, tanto da arrivare a nascondere le proprie origini, a camuffare l’identità pur di sopravvivere. E a ritrovarsi in lotta contro i pregiudizi, mi verrebbe quasi da dire “i soliti pregiudizi”.

I soliti pregiudizi

Sì, perché via via che scorrevano le pagine, la storia dei coreani in Giappone ha finito per somigliare sempre più a quella degli italiani emigrati nel dopoguerra. Gli italiani, come i coreani, “sanno di aglio, non sanno leggere, sono irascibili, vestono da straccioni, sono malavitosi, non ci si può fidare, rubano il lavoro”. Li riconoscete? Gli stessi discorsi che sentiamo anche oggi, rivolti ai nuovi immigrati. La radice è sempre la stessa e universale: la paura del diverso, la differenza che da ricchezza diventa un problema da cui difendersi.

I pregi e i difetti

Il pregio maggiore del lavoro di Min Jin Lee è proprio questo, aver studiato attentamente un’epoca storica e averla descritta nei minimi dettagli. Purtroppo, se la parte documentale di Pachinko non ha mai mostrato incertezze, la parte romanzata al contrario a un certo punto ha cominciato a mostrare crepe evidenti. Min Jin Lee non riesce a entrare in empatia coi suoi personaggi e neanche noi. Dalla metà in poi, il romanzo diventa un racconto didascalico di avvenimenti, senza pathos. Anche le tragedie più grandi scorrono in fretta, una o due righe e via, al prossimo evento. Alcuni personaggi spariscono, di altri veniamo a sapere qualcosa solo perché incidentalmente vengono nominati, altri ancora compiono dei gesti, vedi Noa, senza che la cosa sconvolga più di tanto gli altri, rasentando quasi l’assurdo. Finché, a un certo punto, la noia prende il sopravvento e l’unica voglia è quella di arrivare alla fine, lo stesso sentimento della scrittrice, probabilmente. La quale è eccellente nella parte razionale, tutta americana, ma perde la caratteristica orientale di scavare nei personaggi, di usare la musicalità delle parole per trasmettere emozioni, di comporre metafore che diventano esse stesse poesia. Se mi fossi fermata solo al nome, senza leggere la biografia, sarei stata tratta in inganno.

Nota a margine sull’edizione italiana

I romanzi tradotti in italiano hanno quasi sempre il difetto di cambiare il titolo. In questo caso, Pachinko diventa La moglie coreana. Quando ho iniziato il libro, pensavo che parlasse di una donna coreana sposata a un giapponese e, solo dopo, mi sono accorta che nel romanzo i protagonisti sono tutti coreani! Pachinko è più azzeccato, ovviamente, e credo che anche i lettori italiani non avrebbero avuto difficoltà a capirne il senso. Sulla cultura coreana, invece, avrei speso qualche parola in più: nella festa per il primo anno di Solomon, per citarne una, si fa riferimento a una tradizione che potrebbe far rimanere interdetto chi legge: perché se il bambino prende soldi, è un buon presagio? Un motivo c’è, ma andrebbe spiegato. In questa traduzione, poi, le parole coreane vengono tradotte usando una romanizzazione che, in alcuni casi, non consente al lettore italiano di pronunciare correttamente. La parola Eomma, per esempio, che nel romanzo viene ripetuta più e più volte, diventa Umma, che è corretta per un anglofono, ma non per noi. Quindi, mi raccomando, la mamma coreana è Omma, con la o chiusa. Chi segue i kdrama non ha problemi, lo dico per tutti gli altri!

E con questo articolo, si conclude la terza lettura del BookClubPeC. Voi avete letto il romanzo? Aspettate il kdrama con impazienza? Raccontatemi nei commenti 🙂

Leggi anche: 

Il Pachinko di Min Jin Lee e quello di Lee Min-ho

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La luna e i falò, i rimpianti e il saluto di Cesare Pavese

E’ un periodo un po’ strano, questo. Sarà la primavera che non sboccia, o il momento che viviamo. Mi stanno capitando film e libri pesantissimi. Non nel senso che faccio fatica a finirli, piuttosto per le tematiche che portano dentro. Qualche giorno dopo aver finito An elephant sitting still, l’opera prima e ultima di Hu Bo, ho chiuso anche l’ascolto dell’audiolibro La luna e i falò, di Cesare Pavese. Anche per lui l’ultima opera, il suo saluto.

Trama 

Il protagonista, Anguilla, all’indomani della Liberazione torna al suo paese delle Langhe dopo molti anni trascorsi in America e, in compagnia dell’amico Nuto, ripercorre i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza in un viaggio nel tempo alla ricerca di antiche e sofferte radici. 

La solitudine del mondo

La luna e i falò è considerato il romanzo più bello di Cesare Pavese, quello in cui le tematiche a lui care vengono portate finalmente a compimento. E’ una lettura venata di nostalgia, quella che il lettore si trova a vivere. Nostalgia per il tempo passato, per le cose non dette, per gli amori non corrisposti. Per un uomo che sente la sua solitudine nel mondo, di non appartenere a nessun posto, di aver vissuto un’atrocità senza precedenti, la seconda guerra mondiale, senza riuscire a trovare in uno dei due schieramenti la caratura morale di cui sente il bisogno.

Nuto

Una caratura morale impersonata dall’amico Nuto. Un uomo retto, che si fa raccontare di mondi lontani anche se non si è mai allontanato dal paese. Mentre Anguilla non ha mai trovato pace, è andato via, in America, poi è tornato. Ma non si sente benvoluto né in America, né in Italia. Non erano cambiati. Io, invece, ero cambiato. “Hai avuto coraggio”, gli dice Nuto. “Non era coraggio, sono scappato”. Scappato e poi tornato, come l’autore, la metafora di un uomo che rinuncia all’impegno civile e storico per la rabbia di non essere nessuno. Fa fortuna e poi torna, solo per rendersi conto che molti non ci sono più. che tutto è cambiato, che lui non troverà la felicità da nessuna parte.  “Ero tornato,ero sbucato, avevo fatto fortuna…ma le facce, le voci e le mani che dovevano toccarmi e riconoscermi, non c’erano più”. 

Anguilla

Non sappiamo come finirà per Anguilla, di quest’uomo Cesare Pavese ci dice solo il soprannome. Sappiamo solo che andrà via di nuovo. Dove, non si sa. Forse da nessuna parte. Ma lascia a Nuto la custodia di un infelice come lui, sapendo che Nuto farà come sempre quello che deve fare: il brav’uomo.

Vite che sopravvivono nei ricordi

Triste, ma forse lo dico influenzata da quello che so. Cesare Pavese, infatti, mise fine alla sua vita pochi mesi dopo l’uscita di questo romanzo. Triste non solo per la fine dell’autore, ma anche per la vena di malinconia che avvolge le vite di questa piccola provincia di un piccolo Paese come l’Italia. Vite che sopravvivono solo nei ricordi di chi resta. Finché resta. Cesare Pavese, in fondo, non sta descrivendo la condizione umana?

Di tutto quanto, della Mora, di quella vita di noialtri, che cosa resta? Per tanti anni mi era bastata una ventata di tiglio la sera, e mi sentivo un altro, mi sentivo davvero io, non sapevo nemmeno bene perché. Una cosa che penso sempre è quanta gente deve viverci in questa valle e nel mondo che le succede proprio adesso quello che a noi toccava allora, e non lo sanno, non ci pensano. Magari c’è una casa, delle ragazze, dei vecchi, una bambina – e un Nuto, un Canelli, una stazione, c’è uno come me che vuole andarsene via e far fortuna – e nell’estate battono il grano, vendemmiano, nell’inverno vanno a caccia, c’è un terrazzo, tutto succede come a noi. Dev’essere per forza così. I ragazzi, le donne, il mondo, non sono mica cambiati…E non sanno che un giorno si guarderanno in giro e anche per loro sarà tutto passato. 

Ogni casa, ogni cortile, ogni terrazzo, è stato qualcosa per qualcuno e, più ancora che al danno materiale e ai morti, dispiace pensare a tanti anni vissuti, tante memorie, spariti così in una notte senza lasciar segno. O no? O magari è meglio così, meglio che tutto se ne vada in un falò di erbe secche, che la gente ricominci. 

Avete letto questo romanzo di Cesare Pavese? Anche voi pensate che tutto finisca in un falò? Scrivetemi nei commenti il vostro parere 🙂

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Figlie del mare – le “comfort women” di Mary Lynn Bracht

“Comfort women”. Così venivano e vengono chiamate le donne, o meglio, le bambine coreane, cinesi, giapponesi e filippine, prelevate a forza dai soldati giapponesi durante la seconda guerra mondiale per farne le loro prostitute. Donne di conforto. Un eufemismo per indicare una pagina di storia cancellata per decenni e che solo ora piano piano sta tornando alla luce. Oggi, in occasione del Giorno della memoria, voglio parlarvi di loro, le “comfort women”.

Trama

Corea, 1943. La sedicenne Hana è una haenyeo, una donna pescatrice di Jeju. Fa parte di una stirpe di donne fiere e indipendenti, dedite per tutta la vita a un’attività preclusa agli uomini. Nata e cresciuta sotto il dominio giapponese, Hana viene catturata dai soldati giapponesi e deportata in Manciuria. Ma una figlia del mare non si arrende, e anche se tutto sembra volerla ferire a morte, Hana sogna di tornare libera. Corea del Sud, 2011. Arrivata a ottant’anni, Emi non ha ancora trovato pace: il sacrificio della sorella è un peso sul cuore che l’ha accompagnata tutta la vita. I suoi figli vivono un’esistenza serena e, dopo tante sofferenze, il suo Paese è in pace. Ma lei non vuole e non può dimenticare…

Comfort women 

Già il nome fa ribrezzo, non vi sembra? Donne di conforto per gli uomini che, poveretti, fanno la guerra. Lo so, sono sempre esistite, in tutte le guerre e in tutte le latitudini. In questo caso, però, la cosa grave è che per anni hanno sostenuto che fossero volontarie! E certo, chi di noi non si farebbe deportare per confortare chissà chi? A fatica, e solo recentemente sono uscite fuori le storie delle sopravvissute, secondo me molto parzialmente. Un po’ per l’età delle protagoniste, un po’ per la naturale ritrosia a raccontare vicende così dolorose. Ho rintracciato dei link cinesi e dopo averne letta qualcuna ho dovuto chiudere. Anche se mi riprometto di leggerle tutte.

Figlie del mare 

Tornando al romanzo, le protagoniste sono haenyeo, una figura di cui sto per parlarvi in modo approfondito e che ho conosciuto durante il mio viaggio in Corea del Sud. Il pregio di quest’opera prima è la scrittura, che subito ti trascina nella vita di queste due sorelle, e aver contribuito a far conoscere il dramma vissuto da queste donne. Mary Lynn Bracht è una scrittrice americana di origine coreana e per documentarsi ha trascorso diverso tempo proprio a Jeju. Pur non tacendo alcuni particolari macabri, il tono del racconto è ottimistico e di speranza. Tifiamo tutto il tempo per Hana ed Emi e forse, dico forse, un po’ di luce in fondo al mare c’è. 

Se volete sapere di più sulle donne pescatrici, continuate a seguire Penna e Calamaro e vi racconterò tutto 🙂

A voi è piaciuto Figlie del mare? Raccontatemi nei commenti!

Leggi anche:

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Le malerbe di Keum Suk Gendry-Kim

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Il Giorno della Memoria, Shoah e non solo

Danza con il diavolo – Kirk Douglas

Kirk Douglas sembrava immortale, eppure quest’anno ci ha lasciato, dopo aver passato 103 anni su questa terra. Avevo questo suo romanzo in libreria già da un po’  e mi è sembrato il momento giusto per iniziarlo, perché con il diavolo ci stiamo ballando. Sperando che lui, invece, ora stia danzando con gli angeli…

Trama

Dietro la facciata smagliante di regista famoso e rispettato, Denny nasconde un segreto che lo tormenta fin dall’infanzia, costringendolo a mentire sempre. Ma l’incontro con la sensuale Luba fa crollare il castello di menzogne in cui si è rifugiato.

Una storia ben congegnata

La storia congegnata da Kirk Douglas non è male. Danny è un uomo che dopo essere sopravvissuto al campo di concentramento, decide di dimenticare il suo passato e le sue origini, trasformandosi d’un tratto in un “gentile”. Luba è una ragazza bella e disinibita, che ha imparato a sopravvivere e sarebbe disposta a tutto pur di rimanere a galla. Danny e Luba hanno tanti segreti che rischiano di dividerli, eppure l’attrazione che provano l’uno per l’altra è innegabile. E ha un comune denominatore: la risiera San Sabba, a Trieste, che venne utilizzata dai nazisti dopo l’8 settembre 1943 come campo di prigionia. Dopo quell’esperienza traumatica, lui si è fatto avanti nella vita sfruttando la sua grande passione per il cinema, lei è ancora in cerca del suo vero talento e nel frattempo usa il suo corpo.

Per fortuna era un attore!

Purtroppo, in più punti ho pensato che per fortuna Kirk Douglas ha scelto il mestiere di attore e non quello di romanziere. Non perché l’intreccio non sia godibile, anzi. E’ solo che inserisce troppi elementi che funzionerebbero alla grande in un film, ma non al 100% in un romanzo. Le scene di sesso, per esempio, sembrano a volte poco funzionali alla storia, come se fossero piazzate lì per suscitare interesse voyeuristico nel lettore, o scandalizzarlo. Nessuno dei due intenti riesce in pieno e secondo me danneggia un po’ la tenuta complessiva della storia. A tutto svantaggio della catarsi finale, sulla quale avrebbe al contrario potuto calcare di più la mano.

Comunque, tanto di cappello a Kirk. Mettersi a scrivere dopo i settant’anni una carriera incredibile non è da tutti. D’altra parte, è evidente che lui non fosse un uomo standard. Siete d’accordo? 🙂

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Il portiere di notte – Liliana Cavani

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Piccole donne crescono – Louisa May Alcott

Se siamo sopravvissuti ai romanzi che leggevamo da piccoli, possiamo superare tutto, ve lo dico io. Lutti, guerre, orfanotrofi, miseria, spiriti. Chi più ne ha più ne metta. In confronto, Stephen King è un dilettante dell’horror…eheh. L’ho presa alla lontana, per dire che ho finito la rilettura di Piccole donne crescono, di Louisa May Alcott. E chi si ricordava tutte queste lacrime? Che ovviamente ho versato per la seconda volta, non contenta della prima valle.

Trama 

Sono passati tre anni nella vita della famiglia March, la grande guerra di Secessione è finita e le Piccole Donne sono cresciute: Meg, Jo, Amy e Beth affrontano le alterne vicissitudini di cui è costellata la vita con tenacia e determinazione, non senza qualche cedimento, e vedono realizzarsi i loro sogni facendosi sempre coraggio l’un l’altra. Radicate a saldi principi morali, sostenute da un grande sentimento religioso, da un profondo senso di dignità e dalla fede nel lavoro, le quattro sorelle affrontano le difficoltà e le gioie che la vita mette loro davanti.

La vita fuori dal nido

Il successo di Piccole donne fu così immediato, che a Louisa May Alcott fu chiesto di scrivere subito la seconda parte. E così lei fece. Oggi, Piccole donne e Piccole donne crescono nei Paesi anglosassoni vengono venduti come un unico romanzo, in Italia sono separati. Avendo io una vecchia edizione degli anni ’80 in Italiano, li ho letti separatamente. E forse è meglio, perché il secondo fa uscire lacrime a fiotti…dannata Louisa, smuoveresti anche una pietra. Nella seconda parte, le ragazze sono cresciute e si cominciano a confrontare con la vita fuori dal nido familiare. Non tutto fila liscio, ci sono difficoltà da affrontare, lutti da superare, rifiuti da digerire. C’è tanto amore, però. E impegno. E sacrificio.

Jo-Louisa 

Insomma, tornano i temi del primo libro, che personalmente resta il mio preferito, anche per qualità della scrittura. Mi dispiace anche che la Alcott abbia ceduto alle pressioni dei suoi lettori. Nella sua biografia, infatti, si dice che avrebbe voluto far rimanere Jo una donna nubile, proprio come era lei. Peccato che all’epoca questa libertà fosse concessa solo alle ricche signore, come l’arguta zia March afferma in Piccole donne. Sarebbe stata una rottura dirompente della tradizione, considerando anche il successo che Louisa stava avendo come scrittrice. La formula che ha trovato, tuttavia, non mi dispiace affatto. Avrebbe potuto scegliere un finale scontatissimo, eppure è riuscita a schivarlo. Anche se oggi il team Laurie avrebbe ancora percentuali bulgare, ci scommetto. E a voi piace il destino che attende le sorelle? 

p.s. C’è qui un passaggio che, vi avviso, vi spezzerà il cuore. Per questo forse sposterei un po’ in avanti l’età di lettura di questo romanzo rispetto al primo. Piccole donne è davvero per tutti. Piccole donne crescono richiede un po’ più di maturità. Quindi, il primo dagli 8 anni, il secondo dai dieci in su. Mi raccomando, non me li traumatizzate.

Su Louisa May Alcott leggi anche:

Piccole donne – Il primo libro

Una ragazza fuori moda