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La luna e i falò, i rimpianti e il saluto di Cesare Pavese

E’ un periodo un po’ strano, questo. Sarà la primavera che non sboccia, o il momento che viviamo. Mi stanno capitando film e libri pesantissimi. Non nel senso che faccio fatica a finirli, piuttosto per le tematiche che portano dentro. Qualche giorno dopo aver finito An elephant sitting still, l’opera prima e ultima di Hu Bo, ho chiuso anche l’ascolto dell’audiolibro La luna e i falò, di Cesare Pavese. Anche per lui l’ultima opera, il suo saluto.

Trama 

Il protagonista, Anguilla, all’indomani della Liberazione torna al suo paese delle Langhe dopo molti anni trascorsi in America e, in compagnia dell’amico Nuto, ripercorre i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza in un viaggio nel tempo alla ricerca di antiche e sofferte radici. 

La solitudine del mondo

La luna e i falò è considerato il romanzo più bello di Cesare Pavese, quello in cui le tematiche a lui care vengono portate finalmente a compimento. E’ una lettura venata di nostalgia, quella che il lettore si trova a vivere. Nostalgia per il tempo passato, per le cose non dette, per gli amori non corrisposti. Per un uomo che sente la sua solitudine nel mondo, di non appartenere a nessun posto, di aver vissuto un’atrocità senza precedenti, la seconda guerra mondiale, senza riuscire a trovare in uno dei due schieramenti la caratura morale di cui sente il bisogno.

Nuto

Una caratura morale impersonata dall’amico Nuto. Un uomo retto, che si fa raccontare di mondi lontani anche se non si è mai allontanato dal paese. Mentre Anguilla non ha mai trovato pace, è andato via, in America, poi è tornato. Ma non si sente benvoluto né in America, né in Italia. Non erano cambiati. Io, invece, ero cambiato. “Hai avuto coraggio”, gli dice Nuto. “Non era coraggio, sono scappato”. Scappato e poi tornato, come l’autore, la metafora di un uomo che rinuncia all’impegno civile e storico per la rabbia di non essere nessuno. Fa fortuna e poi torna, solo per rendersi conto che molti non ci sono più. che tutto è cambiato, che lui non troverà la felicità da nessuna parte.  “Ero tornato,ero sbucato, avevo fatto fortuna…ma le facce, le voci e le mani che dovevano toccarmi e riconoscermi, non c’erano più”. 

Anguilla

Non sappiamo come finirà per Anguilla, di quest’uomo Cesare Pavese ci dice solo il soprannome. Sappiamo solo che andrà via di nuovo. Dove, non si sa. Forse da nessuna parte. Ma lascia a Nuto la custodia di un infelice come lui, sapendo che Nuto farà come sempre quello che deve fare: il brav’uomo.

Vite che sopravvivono nei ricordi

Triste, ma forse lo dico influenzata da quello che so. Cesare Pavese, infatti, mise fine alla sua vita pochi mesi dopo l’uscita di questo romanzo. Triste non solo per la fine dell’autore, ma anche per la vena di malinconia che avvolge le vite di questa piccola provincia di un piccolo Paese come l’Italia. Vite che sopravvivono solo nei ricordi di chi resta. Finché resta. Cesare Pavese, in fondo, non sta descrivendo la condizione umana?

Di tutto quanto, della Mora, di quella vita di noialtri, che cosa resta? Per tanti anni mi era bastata una ventata di tiglio la sera, e mi sentivo un altro, mi sentivo davvero io, non sapevo nemmeno bene perché. Una cosa che penso sempre è quanta gente deve viverci in questa valle e nel mondo che le succede proprio adesso quello che a noi toccava allora, e non lo sanno, non ci pensano. Magari c’è una casa, delle ragazze, dei vecchi, una bambina – e un Nuto, un Canelli, una stazione, c’è uno come me che vuole andarsene via e far fortuna – e nell’estate battono il grano, vendemmiano, nell’inverno vanno a caccia, c’è un terrazzo, tutto succede come a noi. Dev’essere per forza così. I ragazzi, le donne, il mondo, non sono mica cambiati…E non sanno che un giorno si guarderanno in giro e anche per loro sarà tutto passato. 

Ogni casa, ogni cortile, ogni terrazzo, è stato qualcosa per qualcuno e, più ancora che al danno materiale e ai morti, dispiace pensare a tanti anni vissuti, tante memorie, spariti così in una notte senza lasciar segno. O no? O magari è meglio così, meglio che tutto se ne vada in un falò di erbe secche, che la gente ricominci. 

Avete letto questo romanzo di Cesare Pavese? Anche voi pensate che tutto finisca in un falò? Scrivetemi nei commenti il vostro parere 🙂

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Omicidio a capodanno – Christopher Bush

Una festa in maschera di fine anno, due degli ospiti ritrovati assassinati a fine serata, un investigatore dilettante tra gli invitati, una villa isolata e circondata dalla neve. C’erano tutti gli ingredienti per iniziare le letture 2020 col botto. E invece, un botto c’è stato, ma non quello che mi sarei aspettata…entrate che vi racconto.

Trama

A Little Levington Hall, la villa del giovane scienziato Martin Braishe, si è appena concluso un ballo in maschera. Gli ospiti si stanno ritirando nelle loro stanze quando all’improvviso salta l’impianto elettrico. Lì per lì nessuno dà peso alla cosa, ma l’indomani in molti lamentano il furto di denaro e oggetti di valore. Non è però un semplice ladro quello che si aggira per la Hall: nella sua camera, infatti, viene ritrovato il corpo dell’attrice Mirabel Quest. E poco dopo anche quello di suo cognato, lo schivo e cupo romanziere Denis Fewne. Ma perché non ci sono impronte sul manto di neve che circonda la villa? Bisogna chiamare la polizia, e presto, ma la casa è del tutto isolata: il telefono è fuori uso, le strade impraticabili. Toccherà a Ludovic Travers, uno degli ospiti, indagare su questi strani e spaventosi accadimenti per impedire all’assassino di colpire di nuovo.

Un’indagine confusa…

In teoria avevo programmato di far uscire questo commento il 31 dicembre o l’1 gennaio, in tempo per farci gli auguri di buon anno. Invece, confesso di non essere riuscita a finirlo nei tempi previsti. Il perché è presto detto: il giallo parte bene, ma in più occasioni scivola nella noia, su personaggi poco caratterizzati e su un’indagine che definire confusa è un eufemismo. Sappiamo che Travers sta capendo qualcosa, ma fino alla fine non sappiamo cosa. Finché non arriva un poliziotto, che a sua volta capisce tutto senza farci capire niente. Quello che voglio dire è che mancano gli indizi che consentano a chi legge di partecipare ai fatti e di trarre le sue conclusioni.

…e troppo lunga

Alla fine, tuttavia, il giallista esperto avrà capito chi è l’assassino e, probabilmente, anche il motivo per cui ha ucciso. Ed è un vero peccato che l’elemento più interessante, scatenato involontariamente da una delle vittime, venga taciuto quasi fino alla fine. Forse, sono stata traviata dalla fiducia infinita che ripongo nella collana I bassotti, finora mai deludente. Questo romanzo, ahimè, un po’ lo è. Forse perché non conoscevo Ludovic Travers, un personaggio ricorrente nei gialli di Christopher Bush. Magari l’autore dà per scontati tratti del suo carattere e del modo in cui si muove che per me sono rimasti un mistero. O forse perché troppo lungo e senza colpi di scena degni di questo nome.

Ambientazione intrigante

Tutto negativo, quindi? No, certamente. Mi è piaciuto l’affiatamento tra Ludovic Travers, l’investigatore dilettante, e l’investigatore della polizia che viene chiamato a indagare ufficialmente. Per una volta, non c’è il solito schema poliziotto poco furbo – dilettante super intelligente. Anzi, il poliziotto dà quel quid per la risoluzione che all’improvvisato investigatore sarebbe mancato. Sempre godibile, poi, l’ambientazione: una villa inglese di campagna isolata, la neve che nasconde il rosso sangue. Intrigante, non trovate?

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Vivere! Yu Hua e un manifesto di Vita

Ho incontrato questo libro di Yu Hua un po’ per caso, perché ormai i suggerimenti mi arrivano sempre più spesso dai lettori fissi di questo blog. Quindi, devo dirvi grazie perché nell’oceano sterminato di libri che abbiamo a disposizione, gli incontri fortunati sono rari e per questo ancora più preziosi. A voi decidere se la frase è rivolta al romanzo o a voi amatissimi lettori. O magari a entrambi.

Trama

Sono trascorsi dieci anni da quando il narratore si è recato nelle campagne a raccogliere ballate popolari. Lì, ha potuto conoscere diverse persone, fra cui un anziano contadino che arava la terra con il suo bufalo. Si chiamava Fugui ed era ben disposto a raccontare la propria storia e a spiegare come mai il bufalo avesse tanti nomi. Figlio di un ricco proprietario terriero, in una notte di follia aveva perduto il patrimonio familiare giocando d’azzardo. Da quel momento, Fugui deve intraprendere una nuova vita, fatta di fatica nei campi, miseria e umiliazioni. Ma nell’affrontare il duro destino potrà sempre trarre la forza necessaria dall’affezionata moglie Jiazhen, dalla brava figlia Fengxia, dal piccolo Youqing…E passando attraverso povertà, fame, fatica, guerra, carestia e lutti, giungerà a capire l’essenza delle cose e l’autenticità degli affetti, approdando a una superiore consapevolezza, ironica e pietosa assieme. Con gioia di vivere, nonostante tutto.

L’ammazza personaggi

Il racconto si dipana in un’intera giornata. Lo scansafatiche, come il narratore stesso si definisce, passa un’intera estate a raccogliere ballate e storie tra i contadini. Uno lo incuriosisce particolarmente, perché chiama il suo bufalo con diversi nomi. Ma quanti nomi ha questo bufalo? E perché? Da lì, Fugui il vecchio contadino, inizia a raccontare la sua storia. Ci sarebbe da consigliargli un viaggetto a Lourdes. Nella sua vita, gli è successo di tutto: rovesci finanziari, disgrazie, guerra, carestia. Soprattutto, lutti. Tanti lutti. Tanto che a un certo punto ho pensato di soprannominare Yu Hua l’ammazza personaggi. Per la morte di un paio non posso proprio perdonarlo.

Un inno alla vita

Quindi, vi chiederete voi, un romanzo tristissimo. E’ qui che la penna di Yu Hua sorprende. Affatto. Il romanzo è, in realtà, un inno alla vita. Intanto, lo scansafatiche è proprio lo scrittore, che all’età di 23 anni ha passato due anni nei campi a raccogliere storie, trovandone però troppo poche secondo i suoi capi. Fugui, poi, è ironico, leggero. Racconta la sua vita quasi come se riguardasse qualcun altro. E dritto al punto, senza inutili orpelli, discostandosi molto dalla tradizione asiatica infarcita di immagini e simbolismi. Mi sono ritrovata a chiudere il libro in tre giorni, perché le pagine sono volate via da sole. Per poi scoprire alla fine, il valore del messaggio. Vivere vale la pena, qualsiasi sia il destino che ci è stato riservato. Perfino un vecchio bufalo può diventare un motivo per alzarsi la mattina. Dice Yu Hua. “Ho deciso di scrivere questo romanzo per descrivere la capacità dell’uomo di essere ottimista nei confronti del mondo. Durante la stesura ho capito che gli uomini vivono per la vita in sé e per null’altro al di fuori di questa. Sento di aver scritto un’opera nobile“. Secondo me tutte le opere d’arte che inneggiano alla vita lo sono. Siete d’accordo? 🙂 

“Erxi, Youqing non fare il pigro; Jiazhen, Fengxia stai arando bene; anche Kugen se la cava.
Quanti nomi può avere un bufalo? Curioso, entrai nel campo e mi avvicinai al vecchio per chiederglielo:
– Ma quanti nomi ha questo bufalo?
Il vecchio fermò l’aratro e mi squadrò da capo a piedi.
– Vieni dalla città?
– Sì – ho accennato col capo.
E il vecchio tutto compiaciuto: – L’avevo capito subito.
– Quanti nomi ha il bufalo?
– Solo uno, si chiama Fugui.
– Ma poco fa hai detto un sacco di nomi.
– Ah! – si mise a ridere tutto contento e mi fece cenno di avvicinarmi. Quando gli fui accanto, fece per aprir bocca, poi si fermò vedendo che il bufalo aveva alzato la testa. Lo sgridò: – Non spiare tu, giù la testa!
Il bufalo obbedì, allora il vecchio mi sussurrò:
– Ho paura che si accorga che c’è solo lui ad arare, così chiamo tutti questi nomi in più per ingannarlo. Se sente che ci sono altri bufali ad arare il campo non fa storie e ci mette più impegno.”
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