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Bridget Jones, buon compleanno Helen Fielding!

Anche le ragazze crescono. Helen Fielding, la creatrice di Bridget Jones, compie 60 anni e mi sembrava giusto festeggiarla leggendo finalmente uno dei libri della saga. Ho scelto l’ultimo, Bridget Jones, mad about a boy, semplicemente perché la piattaforma del treno che mi stava portando a sciare lo aveva in lista. Confesso di non essere una sua fan, però vi dirò onestamente cosa ne penso, come sempre.

La trama

Bridget Jones è diventata grande. È ancora ossessionata dai chili, frequenta gli amici di sempre, ma ora deve occuparsi da sola dei suoi figli, dopo che la scomparsa di Mark Darcy l’ha lasciata precocemente vedova. Bridget è come sempre alla ricerca di equilibrio e sbarca su twitter, dove conosce Roxter. Un ragazzo parecchio più giovane di lei. Con in testa questi e altri problemi, inciampa tra un ostacolo e l’altro della sua nuova vita da mamma single. Intanto twitta, dimagrisce e butta giù elenchi di cose da fare. Soprattutto, vuole riprendere la vita amorosa, a dispetto di quella che alcuni, con espressione odiosa e sorpassata, si ostinano a chiamare mezza età. Solo che non è facile stare dietro a un ragazzo famoso, al gruppo delle madri dei compagni di scuola dei figli e all’insegnante di educazione fisica Mr. Wallaker, che la fa sentire come se di anni ne avesse sette.

Lei non è tanta, è troppa

Come ho dichiarato in premessa, è il primo romanzo della serie che leggo. Per le altre puntate mi sono limitata a vedere i film, che mi sono piaciuti ma non mi hanno mai fatto impazzire e non solo perché Renée Zellweger non è tra le mie attrici preferite. E’ che ho sempre trovato il personaggio di Bridget sopra le righe. Con lei e accanto a lei è sempre tutto troppo. Lei non è tanta, è troppa. Attenzione, non sto parlando di peso, che è il problema su cui si fissa e che invece nasconde naturalmente altro. Comunque non divaghiamo. Dicevo, è troppa. Solo che, come sempre, quando i film nascono da un romanzo, soprattutto se il film in questione ha successo, bisognerebbe sempre tornare all’origine, cioè alla penna che l’ha creato. In realtà ho iniziato a leggerlo per un motivo banale e casuale: mi trovo su un treno e la piattaforma offriva poca scelta. Tra andata e ritorno, Bridget dovrei riuscire a finirla, ho pensato. E così è stato.

Un disastro su tutta la linea

Vi dirò, l’ho trovato spassoso e non così banale come la ragione per cui l’ho aperto. Dai commenti dei fan storici della serie, ho capito che questa conclusione non è proprio piaciuta. Secondo me più che altro perché Helen Fielding decide di togliere di mezzo Mark Darcy e questa cosa alle lettrici storiche non è andata giù. Nel mio caso poco male, io ho sempre preferito Daniel! E anche lui qui non è messo benissimo. D’altra parte, tra un protettivo e un lazzarone, la scrittrice preferisce una via di mezzo più adatta a una…età di mezzo. Già, la cosa più interessante del romanzo è proprio che la protagonista ha passato da un pezzo l’età per combinare pasticci eppure lei continua a essere un disastro su tutta la linea. Solo che ai tormenti sulla singletudine ha aggiunto quelli sulla vecchiaia, la paura di non essere una buona madre, i tormenti di una madre sola costretta a fare da padre. Allora, saggiamente, decide di buttarsi sui…social network e i toy boy. Con pessimi risultati, sia nell’uno sia nell’altro caso. Anche lei si ritrova come Murakami in A sud del confine, a ovest del sole nella fase delle riflessioni pesanti sulla propria vita e le proprie scelte. Come ho scritto in quel caso, “Noi, invece, rincorriamo la giovinezza, i divertimenti, seguiamo un modello di vita che ci impone la società, o la famiglia, a volte senza mai davvero prendere le redini della nostra esistenza”. Riuscirà Bridget a invertire la rotta e a ritrovare un equilibrio? Questo ve lo lascio scoprire nel caso decidiate di leggerlo.

Un’anima bambina governerà il mondo

Mi limito però a osservare che applicare i canoni del chick lit a una Bridget Jones ultracinquantenne e riuscire a far funzionare la trama non è da tutti ed Helen Fielding in questo è una maestra. Se la facesse bere di meno e se non avesse scelto il gufo come metafora del suo amore passato, c’erano altri mille animali tra cui scegliere, l’avrei promossa a pieni voti.

Ma ora è tempo Helen Fielding at a book signing for Bridget Jones: Mad About the Boy at Foyles bookshop in Londondi festeggiare. Quindi, in alto i calici e brindiamo: buon compleanno Helen. Ad altre dieci, cento, mille Bridget che non nascondono un’anima bambina. L’ironia delle donne che si ribellano alla “chat delle madri“ prima o poi governerà il mondo!

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Biscotti, dolcetti e una tazza di tè – Vanessa Greene

Vanessa Greene per il suo debutto sceglie una favola leggera e senza pretese, da leggere in una o due serate fredde, in compagnia di una tazza di tè. Naturalmente vintage! Per un attimo Alison fissò il vuoto, poi tornò fra le sue amiche con un sorriso. «Bisogna godersi la vita finché si è giovani e in salute, non credete?». Jenny sollevò con una mano un bicchiere di limonata, e con l’altra il cartone di pizza. «Ehm… Allora faremmo meglio a darci da fare. Non ci resta ancora molto tempo», disse guardando le altre.

La trama

Jenny ha ventisei anni, lavora nell’editoria e sta organizzando il matrimonio dei suoi sogni. Maggie gestisce un negozio di fiori e si è lasciata alle spalle un rapporto doloroso. Alison ha sposato il suo primo amore e ha due figlie. Tre donne in tre fasi diverse della vita si ritrovano un giorno in un mercatino dell’antiquariato a contrattare per accaparrarsi lo stesso servizio da tè. Per uscire da quella strana situazione decidono di acquistarlo in società e condividerlo. Giorno dopo giorno, tazza di tè dopo tazza di tè, tra chiacchiere, pettegolezzi e piccoli segreti, finiranno per scoprire un’amicizia che cambierà le loro vite.

Biscotti, tè e…vino a fiumi

L’attacco del libro di Vanessa Greene è piacevole. Tre donne che girano per un mercatino s’imbattono in un servizio da tè, che per motivi personali o lavorativi vorrebbero acquistare. Ovviamente, un’incauta lettrice sarebbe portata a pensare che il venditore faccia partire un’asta tra le tre, oppure che litigando finiscano per romperlo. Invece no, le tre donne in questione si accordano quasi subito per utilizzare a turno il servizio in questione. Da questo incontro casuale, nasce una bella amicizia al femminile, pur essendo Jenny, Allison e Maggie in situazioni personali ed età differenti. Il titolo originale, infatti, è The Vintage Teacup Club, il Club del servizio da tè vintage, e come quasi sempre accade è più azzeccato di quello tradotto, anche se l’avrei intitolato “Club del tè e del vino“. Perché le tre donne prendono l’abitudine di incontrarsi e raccontare quello che accade nelle loro turbolente vite, scolando nel frattempo litri di tè e di vino. Una lo racconta addirittura in prima persona ed è una scelta curiosa, forse nata con l’intenzione di movimentare un po’ la narrazione, e neanche tanto azzeccata.

Quasi una favola

Il romanzo di Vanessa Greene può infatti essere considerato quasi una favola e come tale secondo me dovrebbe essere letto, in uno o due pomeriggi freddi con in mano una tazza di tè, possibilmente vintage. Non ci sono grandi agganci con la realtà: le protagoniste svolgono lavori di moda nei libri del genere romance, una è fiorista, l’altra editor di una casa editrice e la terza confeziona candele artigianali che consentono alla famiglia di sopravvivere pur in presenza di figli e un marito disoccupato. Anche i personaggi maschili sono piuttosto stereotipati, mariti indolenti o traditori e fidanzati innamorati ma infantili , tutti però funzionali alla fiaba che l’autrice vuole raccontare. Nulla turba più di tanto un’atmosfera idilliaca rafforzata dal contesto in cui si muovono, un piccolo villaggio inglese di quelli resi famosi da tante scrittrici britanniche, dove i rapporti sociali sono semplici e soddisfacenti. Il contrario di quello che descrive J. K. Rowling ne Il Seggio vacante! Le storie d’amore e lavorative andranno esattamente come chi legge si aspetta che vadano e direi che da una lettura di San Valentino non ci si può, e non ci si deve, aspettare niente di diverso.

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A sud del confine, a ovest del sole – Haruki Murakami

Sono ospite in una locanda letteraria in montagna. In una stanzetta arredata per la lettura, con scaffali di legno, poltroncine e un servizio da tè d’argento, l’angolo di un libro spunta sotto una colonna orizzontale di volumi appoggiati distrattamente su una mensola. E’ Haruki Murakami, uno dei miei autori contemporanei preferiti, che mi sta chiamando. Adotto il romanzo che mi ha scelto e inizio a leggerlo in camera. Accendo il bollitore e mi preparo un tè forte: ho solo due giorni per finirlo e poi lo dovrò riconsegnare agli albergatori. Leggo l’incipit. E’ una storia d’amore. Bene, iniziamo…

La trama

Hajime è nato “nella prima settimana del primo mese del primo anno della seconda metà del ventesimo secolo”. Per questo i suoi genitori gli hanno dato quel nome, che significa «inizio». Il desiderio più grande di Hajime è essere un ragazzino normale, ma a differenza dei compagni di scuola è figlio unico. Poi, un giorno, in classe arriva Shimamoto. Anche lei è figlia unica, e una leggera zoppìa sembra isolarla ulteriormente dal mondo. Shimamoto e Hajime diventano amici e trascorrono pomeriggi interi ad ascoltare dischi di jazz. Quando i genitori di Hajime si trasferiscono in un’altra città, l’amicizia tra i due s’interrompe. Hajime cresce, si laurea, trova lavoro, si sposa, fa figli. A trentasette anni si direbbe realizzato: ha moglie, due figlie, gestisce un locale jazz di successo. Finché, in una serata di pioggia, a un tavolo del suo locale si siede Shimamoto. La sua improvvisa ricomparsa manda tutto all’aria: certezze, convinzioni, l’immagine di sé che Hajime aveva faticosamente costruito, quell’impressione di normalità che aveva inseguito dall’adolescenza in poi. Improvvisamente, Hajime sente il bisogno di rimettere tutto in discussione.

Tempus fugit

Haruki Murakami ha scritto questo romanzo a 42-43 anni, più o meno. Cioè quando era leggermente più vecchio del suo protagonista e, forse, nel momento in cui si sentiva smarrito e in preda a riflessioni pesanti sulla propria vita e sulle proprie scelte. Certo, è sempre un azzardo leggere elementi autobiografici nell’opera di uno scrittore, perché se è vero che la creatività è alimentata da esperienze e fatti personali, è altrettanto verosimile che la rielaborazione del pensiero creativo porti il romanziere ad astrarsi da vicende unilaterali per porsi su un piano di riflessione collettiva e universale. Sta di fatto, tuttavia, che Hajime possiede un locale jazz notturno, come Haruki Murakami prima di diventare famoso, e che il protagonista sia uno sportivo, come il narratore. Il resto riguarda tutti noi a una certa età, chi più chi meno: un grande amore del passato che si rifà vivo, se non fisicamente almeno nella coscienza, e una pulsione al cambiamento che si fa strada quando ormai tutto sembra incanalato nei binari dell’abitudine. Confessiamocelo: chi non ha mai avuto dubbi sulle proprie scelte? Chi non si è sentito smarrito all’idea di invecchiare piano piano senza rendersene conto? Chi non ha pensato, anche solo per un attimo, di buttare tutto all’aria e ricominciare da capo? Così, solo per il gusto di sentirsi vivi.

Hajime e Shimamoto e quello che poteva essere e non è stato

Ecco perché la storia tra Hajime e Shimamoto è una metafora di quello che poteva essere e non è stato, delle scelte del passato che condizionano il presente e della nostalgia per tutto ciò che potevamo raggiungere ed essere e che è fuggito via, con il tempo. Stavolta non ci sono visioni oniriche, non c’è soprannaturale, evento raro nella produzione del giapponese. Tempus fugit, semplicemente. Gli antichi lo sapevano bene e lo sapevano dire in due parole. Noi, invece, rincorriamo la giovinezza, i divertimenti, seguiamo un modello di vita che ci impone la società, o la famiglia, a volte senza mai davvero prendere le redini della nostra esistenza. Un’esistenza che comunque vada sarà di breve durata. Solo il deserto, strano a dirsi e anche solo a pensarsi, sopravvive sempre, come diceva Walt Disney. Tutto il resto muore. Anche noi , con il nostro carico di sogni. E, forse, anche i nostri amori. Qui, però, il discorso si fa più complicato, e giustamente Haruki Murakami si ferma prima di dare una risposta definitiva. Che forse non c’è e non potrà mai esserci. Perché le ceneri degli affetti, sparse nel fiume, sfoceranno nel mare e torneranno pioggia. Mettiamo via l’ombrello e guardiamo verso l’altro la prossima volta che piove. Le gocce che ci finiscono sul viso potrebbero essere il bacio del nostro amore.

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Il seggio vacante – J. K. Rowling non è solo Harry Potter

Questo libro m’incuriosiva molto, fin dalla sua uscita, ma ho aspettato un bel po’ di tempo prima di aprilo. E’ diventato l’ultimo romanzo del mio 2017 e posso dire con sicurezza che non avrebbe potuto esserci finale migliore. D’anno, perché J. K. Rowling piazza nelle battute finali un pugno nello stomaco di quelli che fanno male.

La trama

A Pagford, un ridente villaggio inglese, accade un fatto imprevisto: l’insegnante e consigliere Barry Fairbrother si accascia a terra e muore. La sua dipartita rompe gli equilibri all’interno del Consiglio Locale, lasciando un seggio vacante che diviene la causa di molti dissapori tra l’ala conservatrice dell’amministrazione, che vorrebbe trasformare il centro comunitario cittadino in un albergo di lusso, abbandonando così a se stessi gli emarginati della società, e l’ala “progressista”, di cui Fairbrother era leader. Oltre alle dinamiche politiche, l’evento scatena una serie di reazioni a catena che scoperchiano progressivamente i conflitti sepolti sotto l’apparente tranquillità: i ricchi in lotta con i poveri, i ragazzi in lotta con i genitori, le mogli in lotta con i mariti, e gli insegnanti in lotta con gli studenti, in un crescendo di ripicche e rappresaglie che sfoceranno in tragedia.

Dietro un mondo piccolo e perfetto, si nasconde il male

Premetto che il motivo principale della mia curiosità nei confronti di questo libro era semplicemente capire se il fenomeno Rowling fosse legato esclusivamente alla saga di Harry Potter. Saga che per inciso non ho mai letto, al contrario, per pura mancanza di curiosità. D’altra parte, un successo planetario così enorme di una scrittrice non americana non poteva essere qualificato come marketing e basta.

Questo romanzo me l’ha confermato. Dopo le prime pagine, in cui ho fatto fatica a ricordare tutti i personaggi scesi in campo capitolo dopo capitolo e le connessioni tra loro e nel tessuto sociale della cittadina, finalmente la matassa si è dipanata e pagina dopo pagina ammetto che ho fatto fatica a posare il libro.

Se, al contrario di me, conoscete J. K. Rowling solo per Harry Potter, scordatevelo immediatamente e leggete questo libro. Perché dietro un mondo apparentemente piccolo e perfetto, si nasconde il male e la Rowling lo stana senza pietà. Non c’è bisogno neanche del sole, come diceva Agatha Christie. Perché invece a Pagford piove e piove spesso, il che rende l’atmosfera se possibile ancora più lugubre. Il che rende quasi impossibile pensare che gli irreprensibili cittadini abbiano scelto un villaggio così isolato e umido  per trascorrere un’esistenza tranquilla.

A Pagford c’è tutto, meno che tranquillità

La lotta intestina all’interno del Consiglio è solo uno sfogo per la rabbia repressa che domina gli abitanti, che per un motivo o per l’altro hanno bisogno di affermarsi, se a danno di altri ancora meglio. I ragazzi non sono immuni, sono cresciuti nel veleno e veleno hanno respirato. L’unica cosa che vogliono è buttarlo in faccia a qualcuno, insegnanti o genitori che siano. Chi si salva? Solo lui, il morto, il fantasma Barry, che infatti viene evocato da più parti come un giustiziere divino. Barry era diverso, Barry era un uomo che faceva la differenza. Barry avrebbe potuto salvare le anime. Perché Barry era nato povero e ce l’aveva fatta, senza passare sopra a nessuno, senza dimenticarsi da dove proveniva, spargendo entusiasmo e voglia di fare e di credere in se stessi nelle persone che avevano la fortuna di passare sotto la sua stella.

E’ proprio nella “bellezza” di un uomo comune che vedo il significato del libro: tu, uomo normale, puoi fare la differenza se lotti per il progresso e per una società migliore. A partire dalla scuola, non a caso è un professore, e dalla famiglia.

Echi autobiografici

Sembra che Pagford, villaggio inventato, somigli molto a Tutshill, il villaggio inglese nel quale J. K. Rowling trascorse l’adolescenza. Tanto che gli abitanti hanno sentito la necessità di dissociarsi dai personaggi.

Io credo, invece, che qualunque villaggio e qualunque piccola città, o quartiere di una metropoli, possa riconoscersi nelle maschere universali descritte dalla britannica. Come dice J. K. Rowling stessa: “la classe media è divertente. E’ quella che conosco meglio ed è quella in cui trovi più pretese”. Come non darle ragione? Soprattutto quando queste pretese vengono schiacciate, come sta accadendo oggi praticamente in tutto il mondo, la classe schiacciata non può che emergere in tutto il suo pagfordiano splendore. 

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Tutto ciò che vi devo – Virginia Woolf

Virginia Woolf. Ci sono scrittori senza amici, chiusi nell’ossessione e nella solitudine della propria arte; ci sono autori con un unico, insostituibile sodale, uno sposo, una sorella, un complice, un compagno, a volte magari un po’ ottuso, benevolo, innocuo. E poi ci sono persone per le quali gli amici sono consustanziali al proprio animo e la vita è degna di essere scritta e vissuta proprio in virtù di coloro con cui la si condivide. A questo ultimo gruppo appartiene di certo Virginia Woof.

Le lettere

Virginia scrive alla sorella Vanessa e alle sue amiche Vita Sackville-West, Ethel Smyth, Katherine Arnold-Forster, Violet Dickinson, Madge Vaughan (la Sally di Mrs Dalloway) e Nelly Cecil. In questo minuscolo libro l’editore ha scelto alcune missive significative all’interno di un ricco epistolario che la scrittrice ha alimentato dal 1903 al 1941 con le figure a lei vicine che più l’hanno coinvolta emotivamente, ondeggiando continuamente tra amicizia, amore e sorellanza.

Solo le donne stimolano la mia immaginazione

L’incipit dell’introduzione di Eusebio Trabucchi inquadra fin dall’inizio le pagine che stiamo per leggere e la persona che si svelerà sotto i nostri occhi. In un pomeriggio tranquillo e lento ho passato qualche ora in compagnia di un buon tè, un libro che ha il solo difetto di essere troppo breve e una scrittrice che fino a quel momento avevo trovato ostica, difficile. D’altra parte, in una lettera alla sorella descrive il suo rapporto tumultuoso con la scrittura così: “cerco sempre di andare dietro alle parole; e poi all’improvviso mi piombano addosso“. Leggendo questa corrispondenza, invece, e sentendomi rassicurata dall’esplicita accettazione di Virginia allo sguardo di estranei “decideranno i posteri se conservarle e cosa farne”, ho scoperto un mondo che va oltre la sua figura di scrittrice anticonformista e poliedrica. Un mondo, privato e tenero, in cui la scrittrice mette da parte la corazza che la contraddistingue e si apre a sentimenti che in fondo l’accomunano a tutti noi: l’accettazione del lutto quando scrive che il fratello è morto confessando di aver mentito nelle lettere precedenti per non turbare l’amica in convalescenza, il pettegolezzo spiccio e ironico sui rapporti amorosi di comuni conoscenti, l’incertezza sulle doti d’intelletto e artistiche, la rivalità  con altre autrici contemporanee sui dati di vendita (mi ricorda qualcosa!), l’insicurezza e la voglia di essere amata e capita, l’allegria e l’occhio acuto con cui racconta una giornata con la nipote e una sua amichetta che finisce con tè e pane caldo, la confusa e divertente oscillazione tra il desiderio di accettare una pelliccia ricevuta in dono e il ribrezzo per l’oggetto ricevuto, il ricordo felice delle estati passate in Cornovaglia con la famiglia da bambina.

Umana, troppo umana

Come direbbe Nietzsche, una Virginia Woolf umana, troppo umana. O, piuttosto, una ragazza prima e una donna poi dotata di grande sensibilità , che nelle lettere si esprime con tutta la libertà concessa da un mezzo di comunicazione privato, senza gli obblighi imposti dall’editoria, e in cui comunque il suo genio è manifesto. Il perché è presto detto, come scrive a Nelly Cecil “penso davvero che dovresti mettere mano a un romanzo: sai scrivere lettere, che è molto più difficile“. Di chi scrive romanzi, invece, non pensa un granché bene: “Il peggio è che in pochi hanno l’intelligenza per scrivere romanzi veramente brutti; mentre chiunque è in grado di tirarne fuori uno decente, e insulso. Quest’affermazione perentoria mi ha fatto sorridere: chissà cosa penserebbe Virginia di noi scribacchini moderni, attaccati come cozze alle stelline amazon!

Penso che Virginia ci prenderebbe ironicamente in giro perché lei sapeva bene cosa conta davvero nella vita: l’amore, gli affetti, le persone. Per questo la sua penna mordace rivela senza remore a Ethel Smyth a cosa lei è determinata ad attaccarsi come una cozza:

“Toglietemi gli affetti e sarò un’alga fuori dal mare, la carcassa di un granchio, un guscio vuoto. Le interiora, il midollo, il succo, la polpa, la stessa mia luce, non ne resterebbe più nulla. Sarei spazzata via, finirei in una pozzanghera e annegherei. Toglietemi l’amore per gli amici e il sentimento bruciante e continuo dell’importanza, dell’insondabilità  e del fascino della vita umana e non sarei altro che una membrana, una fibra, senza colore e senza vita, buona solo per essere buttata via come una deiezione“.

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