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Ich bin Berliner/6bis: all in all, no more bricks in the Wall!

Riprendiamo da dove ho interrotto ieri.

Dicevo: Sachsensausen. La visita dura mezza giornata circa e, vi confesso, uscita da lì non hai altra voglia che sentirti vivo.

D’altra parte, i trasporti eccezionalmente efficienti della città ti consentono di passare come una pallina impazzita da una parte all’altra della città.

img_5067In meno di un’ora ho raggiunto l’Oberbaumbrücke, il ponte rosso che collega KreuzbergFriedrichshain, separati dal fiume Sprea. Cos’hanno di particolare questi due quartieri? Che fino al 1989 erano separati non solo dal fiume, ma anche dal muro di Berlino. Il ponte è molto particolare, sembra medievale per via delle torrette e degli archi, ma è di epoca più recente. Durante la Guerra fredda è diventato simbolo di divisione, perché fu uno dei punti di passaggio tra Est e Ovest e quindi zona di confine, pattugliata da guardie armate.

Alla destra del ponte, inizia la East side Gallery, frequentata perlopiù da giovanissimi e turisti che fotografano i dipinti murali creati da numerosi artisti, invitati appositamente a lasciare la loro teimg_5064stimonianza sui brandelli di muro ancora in piedi. Il muro in sé mi ha sorpreso non poco. Voglio dire, è poco più di un muretto, basso e neanche tanto profondo. Come diavolo sono riusciti a tenere buoni milioni di uomini con un ostacolo così piccolo? La seconda parziale delusione è stata la street gallery, protetta da sbarre perché evidentemente le persone non sanno tenere i pennarelli fermi e stavano rovinando le opere d’arte. I disegni, invece, sono stupendi e valgono la pena di arrivare fin laggiù (il quartiere non è proprio centralissimo). Vi consiglio scarpe comode e di arrivare a piedi fino ad Alexanderplatz, così potrete vederle tutte.

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Arrivata ad Alexanderplatz, è ora di cenare. Voglio tornare nella piazza che, ormai lo sapete, ho eletto a preferita, Hackescher Markt. Scelgo Weihenstephaner, un locale bavarese con camerieri vestite con i costumi tradizimg_5079ionali. Peccato che abbiano dimenticato di indossare scarpe intonate, rovinando un po’ l’atmosfera. comunque i piatti meritano. Lo stinco è croccante al punto giusto, e lo strudel è divino. Non so se è più buona la panna o la salsa che lo accompagna. E non lo saprò mai, sono finite entrambe troppo presto per poter giudicare!

 

 

 

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Vi aspetto domani, con la penultima puntata del diario. Dico solo: Babelplatz, Badenschiff e Torre della Televisione.

Ich bin Berliner/6: Sachsenhausen

Sachsenhausen. Tranquillità. Pace. Silenzio. Desolazione.

Orrore.

Silenzio.

Lacrime.

La mia visita a Sachsenhausen è tutto questo, e anche qualcosa d’inesprimibile a parole.

Cos’è Sachsenhausen? Era un campo di concentramento nazista che si trova a circa 35 km a nord da Berlino, a Oranienburg, e che venne utilizzato principalmente per i prigionieri politici dal 1936 fino alla fine del Terzo Reich nel maggio 1945. Successivamente, Oranienburg entrò a far parte della zona di occupazione sovietica, quindi la struttura venne usata come campo speciale fino al 1950.

Non avevo mai visto prima un campo di concentramento, ma ero convinta che tutti i film e i libri sull’argomento mi avessero in qualche modo preparato a quello che avrei trovato.

No, proprio no.

Nella cittadina si arriva facilmente con un treno e c’è un autobus alla stazione che porta direttamente al campo, anche se volendo si può andare a piedi. L’impatto direi che è leggero. Casette singole, la posta, la farmacia, il giornalaio. La tranquillità assoluta. Poi, una sottile inquietudine si fa strada ancora prima di entrare. Il paragone è blasfemo, ma sembra il quartiere delle Casalinghe disperate, perfetto all’apparenza, marcio dentro. Le case sono attaccate al campo, quando avevo sempre pensato che fossero stati costruiti fuori dai centri abitati per non avere testimoni del massacro.

Invece, qui sembra che sia perfettamente inserito nella comunità. L’audioguida conferma il sospetto: la popolazione sapeva, sapeva e accettava. Il giro è costruito in modo da non impressionare fin dall’inizio, lasciando al visitatore il tempo di “acclimatarsi”. Il primo edificio che incontro è la casa del generale, dentro un giardino che oggi ospita diverse lapidi spontaneamente donate dai parenti di alcune vittime. Vedo un signore che passeggia con un mazzo di fiori in mano e mi rendo conto di non aver pensato a un omaggio. Per terra ci sono tante piccole pigne, mi sembrano ideali per rimediare. La pigna è associata metaforicamente all’eternità e all’immortalità. Il pino, infatti, è un sempreverde, non ingiallisce e non perde le foglie. Non so chi siate, né dove siate sepolti, ma oggi questa pigna è per voi.

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Per voi, che oggi siete FREI, LIBERI.

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Arbeit macht frei

Il famigerato slogan “Arbeit macht frei”, “il lavoro rende liberi” mi fa capire che sto per entrare davvero nel campo.

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Una volta attraversato il cancello, mi sono ritrovata in un campo vasto, una landa desolata, perché come me anche gli altri sono ammutoliti improvvisamente. Il campo è vasto, si sente solo il vento sugli alberi e qualche cornacchia ogni tantoimg_5022. M’innervosisce la perfezione geometrica con cui è stato pensato e progettato. Dalla cima della Torretta A, che si trova sopra il cancello, le SS di guardia potevano raggiungere e uccidere tutti i prigionieri con una mitragliatrice e se qualcuno provava a scappare veniva subito individuato. Le fabbriche in cui lavoravano i prigionieri sono state dismesse, rimane solo il perimetro riempito di sassi, per far capire com’erano collocate all’epoca. Alcune baracche sono state ricostruite quando il sito è diventato museo.

In mezzo al campo c’è poi una specie di mezzaluna, la cosiddetta “via delle scarpe“, dove i prigionieri percorrevano per km su km terreni di diversa consistenza, costruiti appositamente per testare la suola delle stivali che sarebbero poi stati utilizzati dai soldati tedeschi. In quel momento si è affacciato un pensiero sgradito, quanto fosse grottesco aver appena assistito a una maratona, dove si consumano suole in un’attività divertente, e dover poi immaginare quanto massacrante fosse questo “lavoro” per i prigionieri.

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Il campo di Sachsenhausen era completo di tutto: prigione, cucina, lazzaretto, infermeria. L’infermeria è quasi alla fine del giro ed è veramente orribile, nel vero senso della parola. Due padiglioni con sotterranei comunicanti, in cui i medici nazisti compivano i loro esperimenti, soprattutto sui bambini.  A un certo punto la gola mi si è strozzata, dovevo uscire subito di lì, respirare aria, tornare all’aperto.

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Mi sono seduta su un muretto, alle prese con sentimenti di rabbia, impotenza, nonostante tutto incredulità, smarrimento. Come, come sia stato possibile tutto questo, rimarrà probabilmente un mistero per tutti quelli che non l’hanno vissuto. Come, come queste atrocità vengano compiute ancora oggi, può essere spiegato solo con l’incapacità dell’uomo di imparare dai propri errori. E con la capacità dell’uomo di tacitare la propria coscienza.

Il post sarebbe dovuto terminare con il resto della giornata. Mi perdonerete se rimando a domani il resto.

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Leggi anche: 

Ich bin Berliner/1: I ragazzi dello zoo di Berlino

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Ich bin Berliner/5: corri, runner, corri. Che io mi riposo…

Ma quanto è bello alzarsi la mattina presto e andare a vedere quelli che si ammazzano di fatica correndo? Al solo pensierimg_4966o di quanto arriveranno stravolti e sconvolti ti senti già meglio, la città ti sembra più bella e le gambe ti spingono a fare una lunga e bella passeggiata. Perché la finirai senza stramazzare al suolo e senza che nessuno chiami l’ambulanza.

Haha, amici podisti, naturalmente sto scherzando. E’ che casualmente mi sono trovata a Berlino proprio la settimana della famosissima maratona e non potevo certo perdermi, io, anfibio umano, il fiume di 40.000 persone che allo start hanno inondato i “fori imperiali” che dalla porta di Brandeburgo costeggiano il Tiergarten, praticamente il Central Park berlinese. Uno spettacolo nello spettacolo, una massa umana che corre felice verso il traguardo di una vita, che sia un record o solamente…finirla.

Diciamo che ho fatto la stalker e per un po’ vi ho seguito, facendo su e giù con la metro. Alla fine, mi sono diretta verso Gendarmenmarkt, dove avevano posizionato un rifornimento che offriva…birra! ai corridori. Ho visto pure che qualcuno la prendeva. Meno male che era quella analcolica, dicono buona tra l’altro.  img_4968 img_4975 img_4982 img_4983

Il Gendarmenmarkt (“Mercato dei Gendarmi”) è una piazza sulla quale si affacciano le chiese gemelle Deutscher Dom e Französischer Dom e il Konzerthaus. La piazza ospita anche la statua di Schiller ed è considerata una delle più belle di Berlino. Personalmente non mi ha fatto impazzire, direi che un breve giro è più che sufficiente.

Tornando verso l’arrivo della maratona, che finisce dov’è iniziata, ho incontrato l’ambasciata americana, con l’orso statua della Libertà, e il memoriale ebraico.

Più tardi, circumnavigando di nuovo il Tiergarten, ho incontrato la Colonna della Vittoria, simbolo della vittoria militare prussiana nel 19° secolo, è oggi un emblema della comunità gay e un punto panoramico da cui osservare la città per i turisti. Salendo solo 280 scalini, infatti, si arriva 67 metri di altezza.

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Stavolta ammetto che mi sono risparmiata la faticaccia in favore della mia prima cena tipica, a Unten den Linden, “la strada dei tigli”. Il ristorante si chiama Nante-eck e io ho scelto il Preussischer Landsknechtspieß, lo spiedino prussiano, che hanno presentato direttamente in padella, infilzato su uno spadino e circondato di verdure buonissime. Un boccale di birra a innaffiare il leggero pasto e tutti a nanna. Domani sarà la volta di un luogo che mai nessuno avrebbe dovuto visitare. Eppure, purtroppo…

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Ich bin Berliner/4: questo tè è very, very smoky!

“Dai, vieni anche tu”

“Mah, non lo so…”
“Non hai la tuta?”
“Sì, quella in valigia la metto sempre…”
“E allora? Su, vieni”.
E’ così che mi hanno convinto a partecipare alla Breakfast run, una non competitiva di 6 km che precede la maratona di Berlino del giorno dopo e che finisce con una colazione, da qui il nome evocativo.

Breakfast run

Avrei mai potuto resistere al dolce richiamo del mio pasto preferito? Giammai, e infatti mi presento puntuale alle 9 meno qualcosa sul luogo del delitto, lo Charlottemburg Schloss di cui vi ho già ampiamente narrato. Posto qualche foto per farvi capire che popolazione di matti anima l’evento. Per la serie, il giorno prima ti diverti, il giorno dopo muori. Per fortuna, io la 42 km del giorno dopo l’ho corsa dagli spalti! Puntuali come orologi tedeschi, alle 9 in punto hanno dato il via e questa folla impazzita di travestiti si è riversata sulle strade. Per fortuna a Berlino sono larghe, perché vi assicuro che eravamo veramente tanti. Direzione: Olympiastadion, meglio conosciuto come lo stadio delle Olimpiadi hitleriane del 1936, quelle di Jesse Owens, per intenderci. I berlinesi ci accompagnano dai balconi, salutando e suonando campanacci.
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E’ proprio un bel momento, una festa dello sport. Io con la scusa di dover fotografare a destra e sinistra m’impegno veramente poco, ma allo stadio voglio arrivarci, perché così mi danno questa benedetta colazione! A un certo punto vedo le bandiere, eccoci, ci siamo. La signora peruviana che corre accanto a me e che ogni tanto si ferma per riposarsi facendo finta di aspettare qualcuno, che secondo me 6517era rimasto a Lima, scatta in avanti e la perdo di vista. Ha approfittato della mia sosta per fotografare un passeggino legato a un palo con la catena. Pazienza, entrerò allo stadio da sola: percorro il tunnel, sempre con calma girando un video, e poi, finalmente, il campo da gioco! La pista! Ce l’ho fatta! Faccio il mio bel giro di campo, resistendo all’impulso che anima gli altri di fingersi centrometristi pronti allo scatto, salgo le scale e il sospirato momento è arrivato: piovono krapfen come se non ci fosse un domani. Buoni da morire, meno male che ho evitato di affaticare il fegat6535o!

Alexanderplatz

In pace con il mondo, evito di pensare che la bomba calorica della colazione ha superato di gran lunga il dispendio energetico della corsa, perché sempre di corsa mi traslo verso Alexanderplatz, la mitica piazza della canzone di Milva, considerata il centro della parte orientale della città. La piazza, non Milva. Lo ammetto: la delusione si è fatta sentire, forte e chiara. Mi ha fatto lo stesso effetto di Pest quando ho visitato Budapest la prima volta: il peggio dell’occidente, cioè le insegne commerciali, innestato su palazzi spartani, che poco o niente c’entrano. Sorry, dico no ad Alexanderplatz, che vale comunque una visita veloce perché qui trovate la fontana dell’amicizia e dei popoli, la Torre della televisione, uno dei simboli della città, e l’orologio universale, che mostra l’orario in tutti i fusi in cui è divisa la superficie terrestre. Ok, due foto e passo oltre, domandandomi come mai sia così amata dai turisti di tutto il mondo. Una viuzza là, due di qua e hoplà, mi ritrovo casualmente, guarda il destino, nel mio luogo di ritrovo preferito.

Hackescher Markt

Una piazza pedonale adiacente all’omonima stazione dei treni di fine ‘800, miracolosamente sopravvissuta alle bombe della seconda guerra mondiale. Un posto piacevole in cui fermarsi a mangiare qualcosa, o ad ascoltare il menestrello di strada seduti sul muretto, o a girare per il mercatino del giovedì o del sabato, come nel mio caso. Qualche bancarella e poi, sempre rigorosamente per caso, mi sono infilata nel tunnel paradisiaco degli Hackeschen Höfe. In pratica sono otto cortili interni comunicanti, che collegano abitazioni private, laboratori e negozi. Da perderci la testa: eleganti, tranquilli, dopo la caduta del Muro sono stati ristrutturati e ora ospitano un cinema, un teatro, caffetterie e negozi di design e boutique di moda. Se passate per Berlino, vi consiglio caldamente di visitarli, soprattutto se siete architetti, chissà che non vi venga qualche buona idea per riqualificare le periferie moderne. Io li ho visitati nell’ordine in cui vengono indicati all’ingresso, ma potete anche decidere di girare in ordine sparso.

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Sala da tè tagika

Alla fine di questo bel giro, se ci mettete anche la faticaccia della corsa mattutina, penso proprio di essermi meritata una sosta ristoratrice, no?. Rimanendo sempre all’interno del quartiere ebraico, poso le mie doloranti membra su un tappeto e ordino un tè russo. D’altra parte, mi trovo in un locale che si chiama Tadschikische Teestube, cioè una sala da tè tagika.
La signora che prende l’ordinazione mi osserva e mi avverte: “It’s smoky”.
“Okay”, faccio io.
“It’s very smoky”.
“Okkaaayyyy”, replico io.
Pensa che sia stordita, o cosa?
Era smokimg_4963y smoky, nel vero senso della parola. La povera signora ha tentato di avvisare questa stordita che si sarebbe ritrovata a fumare una sigaretta bevendo tè! Mai assaggiata una cosa del genere. Non mi sono pentita di averlo scelto, ma chissà come avrà ridotto i miei poveri polmoni, già belli allargati dalla corsa!
Vi aspetto domani con la quinta parte del mio Berlin trip: la famosissima maratona di Berlino. Seguita da una very, very lauta cena tipica.

Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino – Christiane F.

Il libro autobiografico intitolato Wir Kinder vom Bahnhof Zoo (titolo italiano Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino) descrive la discesa all’inferno di Christiane F., dal trasloco a sei anni dalla campagna di Amburgo al quartiere-dormitorio berlinese di Gropiusstadt, l’infanzia difficile, la tossicodipendenza e la prostituzione iniziate fin dalla preadolescenza. Questo drammatico saggio-denuncia destò molto scalpore in tutto il mondo e fu tradotto in diverse lingue, diventando un controverso simbolo per la generazione che più di tutte subì le conseguenze dell’abuso di stupefacenti. Al libro è seguito nel 1981 il film.

Ritratto impietoso

Ne esce un ritratto della società berlinese degli anni ’70 impietoso. Famiglie assenti, o talmente deboli da risultare impotenti, scuola indifferente, polizia tollerante ma esclusivamente punitiva nei confronti di ragazzini forse ancora recuperabili, centri giovanili religiosi inconsapevolmente (?) ricettacolo di pusher, medici e psicologi che curano i sintomi, ma non le cause. In mezzo, Christiane in cerca di un’identità che erroneamente trova nell’uniformarsi a un gruppo, per sembrare “paracula”, “tosta”, “giusta”. Senza chiedersi perché, senza domandarsi per chi, senza trovare la forza di chiedere aiuto. O, piuttosto, cercandolo nella madre, che non capisce, non vuole vedere, non riconosce nel suo angelo quel demonio che la spinge sempre più in basso, fino a una morte certa. Quella morte che coglie senza sorpresa Axel, Stella, Babsi, e tanti ragazzi senza volto come loro, che una mattina diventano un trafiletto del giornale. Quella morte in solitudine che li aspetta alla fermata della stazione del giardino zoologico, la Banhof zoo.

Soli

Soli, come i tossicodipendenti non possono che essere, perché i loro rapporti sociali si basano esclusivamente sull’egoismo e la necessità di rimediare la dose quotidiana. Stop. Non c’è spazio per altro. Forse è proprio questo l’aspetto più sconvolgente del saggio di Christiane F., i giorni che si susseguono uguali, uno dopo l’altro, in un meccanismo che sembra poter essere interrotto solo dal viaggio finale, nella sua attesa. Quando, per salvarla, la madre la mette su un aereo, lei prova orrore nei confronti dei parenti che si divertono al centro commerciale, tutti uguali, tutti senza valori veri. Christiane rifiuta l’omologazione, eppure vuole omologarsi a centinaia di altri tossici senza nome. E’ in questo eterno conflitto con se stessa che vedo il nodo del libro. Christiane non si accetta, non ha abbastanza personalità per farlo, e trasforma la sua debolezza in un’arma. “Guardatemi, sono un’adolescente perduta. Sono il risultato vivente dei vostri errori”.

Da leggere

Terribile, sconvolgente, eppure da leggere, assolutamente. L’avevo già affrontato da adolescente e mi aveva scosso profondamente. L’ho riletto oggi, da adulta, e finalmente vedo Christiane F., e gli altri personaggi, per quello che realmente sono, niente di più. Non è un caso, forse, che oggi l’unico a essersi veramente tirato fuori dai guai è il dolce Detlef. Christiane Vera Felscherinow, invece, è rimasta fedele a se stessa, dalla Banhof zoo, in fondo, non è mai veramente uscita. Ma di questo parlerò nella recensione al libro che ha pubblicato due anni fa, “La mia seconda vita”.

Noi ci immaginiamo di comprarci la cava di calce quando non verrà più sfruttata. E lì sotto ci vogliamo costruire delle case di legno con un enorme giardino pieno di animali e con tutto quello di cui uno ha bisogno per vivere. L’unica strada che c’è per arrivare alla cava la vogliamo chiudere. Non avremmo comunque più alcuna voglia di ritornare su.”

Leggi anche: 

Segnalo questo interessante documentario di quasi un’ora sulla storia di Christiane F., con interviste, spezzoni dell’epoca e molti temi su cui riflettere.

Ich bin Berliner: il mio viaggio a Berlino