Le quattro casalinghe di Tokyo – Natsuo Kirino

Quattro operaie, logorate dalla vita casalinga e coniugale, s’incontrano tutte le sere in fabbrica per lavorare in squadra durante il turno di notte. Sono diverse per età, condizione sociale, avvenenza. Tutte, però, hanno in comune una situazione familiare disastrosa. Una sera la più giovane, la bella Yayoi, giudicata da tutti madre e moglie esemplare, in un impeto di rabbia strozza con una cintura il marito, tornato a casa ubriaco dopo aver dilapidato tutti i risparmi al gioco. Yayoi chiede aiuto a Masako, la più intelligente e coraggiosa delle quattro, che a sua volta coinvolge la “maestra” Yoshie, la quale combatte con la mancanza di soldi, una casa fatiscente e una suocera invalida. Per caso, mentre si sbarazzano del corpo dell’uomo, arriva l’inaffidabile e superficiale Kuniko. E saranno guai per tutte loro.

Il romanzo nella prima parte è davvero avvincente. Sono entrata subito nell’atmosfera noir accentuata dalla notte, che avvolge tutto e rende il male non così brutto, in fondo. Perché ancora più brutta è la vita senza sogni e senza domani che queste quattro donne si trovano a (soprav)vivere. Una vita dominata dagli occhi rossi della mancanza di sonno, in cui l’omicidio di un marito fedifrago appare quasi come un risarcimento, la speranza di un futuro più leggero. Poi, piano piano, queste donne mostrano tutte le loro fragilità, i loro difetti. Ecco che da vittime si trasformano in carnefici, da schiave della grande distribuzione si tramutano in usuraie e ricattatrici. Sullo sfondo, uomini nostalgici, troppo giovani per capire, oppure troppo marci dentro per redimersi. Il bene e il male si confondono, si sostituiscono l’un l’altro, come i piatti pronti che le quattro preparano hanno finito per sostituire cibi preparati con amore.

Una bella sorpresa questa scrittrice, uno stile originale e scorrevole. Peccato solo che il romanzo via via perda intensità, fino ad arrivare a un finale che mi ha lasciato insoddisfatta, per quanto sembra tirato via. Comunque un libro che merita. Basta non farsi trarre in inganno dalla traduzione fuorviante del titolo. Le quattro sono tutto tranne che casalinghe. Sono invece Out, proprio come nel titolo originale.

Margherita dolcelunedì

Mi è sempre piaciuto il lunedì. La ripresa del ritmo, il racconto delle mirabolanti attività del fine settimana, che chissà se sono poi vere, andare al museo o a prendere un aperitivo come se fosse un giorno di festa. Oggettivamente, però, è un giorno difficile e quando torni a casa non vedi l’ora di coccolarti con qualcosa di goloso.

Io spesso scelgo il comfort food tipico del fine settimana, lei, la regina Margherita di Napoli, il motivo per cui non vedo l’ora di mettermi sul divano e accendere la tv, lasciando scivolare via piano piano le tensioni della giornata.

Stavolta ho scelto un impasto misto di farina integrale e farina 0, di forza w260 e ovviamente la mia mother. Il poolish con la pasta madre andrebbe fatto di sera, lasciando lievitare tutta la notte per poi lavorare l’impasto il giorno dopo. Per mancanza di tempo ho accorciato un po’ i tempi, lavorando il primo poolish all’alba per mettere in forno la sera.

Gli ingredienti, per 4 pizze tonde o una teglia intera:

  • 120 gr di pasta madre rinfrescata, 160 gr di acqua, 120 gr farina manitoba per il poolish
  • 200 gr di farina integrale, 200 gr di farina 0, 180 gr di acqua, 7 gr di malto d’orzo, 2o gr olio evo, sale, per l’impasto finale
  • passata di pomodoro, 4 mozzarelline di bufala, sale, olio evo, mix di basilico e timo, per il condimento.

Il poolish

Himg_5179o messo in una ciotola la mia mother e ho aggiunto l’acqua tiepida. Con un cucchiaio ho girato finché il lievito madre non si è sciolto completamente. Ho poi aggiunto la farina e mescolato. L’impasto, come potete vedere dalla foto, è rimasto molle. Ho coperto con pellicola trasparente e sono andata a lavorare.

 

 

La sera

Hoimg_5180 aggiunto al poolish acqua emulsionata con olio, il malto d’orzo, le due farine, piano piano fino ad assorbimento, e ho mescolato. Ho poi rovesciato l’impasto sulla spianatoia e ho lavorato di gomito per un quarto d’ora, più o meno. Alla fine, ho lasciato riposare. L’ideale sarebbe stato far riposare, effettuare una serie di pieghe, lasciar riposare, pieghe e poi in forno. Ho saltato qualche passaggio e ho fatto riposare per circa un’ora, eseguito una serie di pieghe e fatto riposare giusto il tempo di accendere il forno a 250° e preparare il condimento.

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Il condimento

Ho sminuzzato e fatto scolare la mozzarella, sono andata nell’orto, cioè sul terrazzo, a prendere basilico e timo, e li ho lavati e tagliuzzati per avere pronto il mix da spargere sopra la pizza. Il sugo andava già bene così, ma se vi sembra troppo liquido potete metterlo sul fuoco per farlo restringere.

La regina Margherita

Ho ripreso l’impasto, l’ho tagliato in 4 parti e l’ho lavorato con le mani per dargli forma. Potete creare quello che volete, una pizza tonda e una lunga, una quadrata, eccetera. Una volta steso l’impasto, con un cucchiaio l’ho cosparsa di pomodoro e mozzarella, poco olio e altrettanto poco sale, il mix di odori. 250° per 10 minuti circa, o comunque fino a quando alzandola la vedete cotta sotto e poi, mi raccomando…

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…un bel bicchiere di birra, un piatto colorato, qualche tovagliolo spiritoso e di corsa sul divano.

 

 

 

 

Buon lunedì!

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Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino – Christiane F.

Il libro autobiografico intitolato Wir Kinder vom Bahnhof Zoo (titolo italiano Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino) descrive la discesa all’inferno di Christiane F., dal trasloco a sei anni dalla campagna di Amburgo al quartiere-dormitorio berlinese di Gropiusstadt, l’infanzia difficile, la tossicodipendenza e la prostituzione iniziate fin dalla preadolescenza. Questo drammatico saggio-denuncia destò molto scalpore in tutto il mondo e fu tradotto in diverse lingue, diventando un controverso simbolo per la generazione che più di tutte subì le conseguenze dell’abuso di stupefacenti. Al libro è seguito nel 1981 il film.

Ritratto impietoso

Ne esce un ritratto della società berlinese degli anni ’70 impietoso. Famiglie assenti, o talmente deboli da risultare impotenti, scuola indifferente, polizia tollerante ma esclusivamente punitiva nei confronti di ragazzini forse ancora recuperabili, centri giovanili religiosi inconsapevolmente (?) ricettacolo di pusher, medici e psicologi che curano i sintomi, ma non le cause. In mezzo, Christiane in cerca di un’identità che erroneamente trova nell’uniformarsi a un gruppo, per sembrare “paracula”, “tosta”, “giusta”. Senza chiedersi perché, senza domandarsi per chi, senza trovare la forza di chiedere aiuto. O, piuttosto, cercandolo nella madre, che non capisce, non vuole vedere, non riconosce nel suo angelo quel demonio che la spinge sempre più in basso, fino a una morte certa. Quella morte che coglie senza sorpresa Axel, Stella, Babsi, e tanti ragazzi senza volto come loro, che una mattina diventano un trafiletto del giornale. Quella morte in solitudine che li aspetta alla fermata della stazione del giardino zoologico, la Banhof zoo.

Soli

Soli, come i tossicodipendenti non possono che essere, perché i loro rapporti sociali si basano esclusivamente sull’egoismo e la necessità di rimediare la dose quotidiana. Stop. Non c’è spazio per altro. Forse è proprio questo l’aspetto più sconvolgente del saggio di Christiane F., i giorni che si susseguono uguali, uno dopo l’altro, in un meccanismo che sembra poter essere interrotto solo dal viaggio finale, nella sua attesa. Quando, per salvarla, la madre la mette su un aereo, lei prova orrore nei confronti dei parenti che si divertono al centro commerciale, tutti uguali, tutti senza valori veri. Christiane rifiuta l’omologazione, eppure vuole omologarsi a centinaia di altri tossici senza nome. E’ in questo eterno conflitto con se stessa che vedo il nodo del libro. Christiane non si accetta, non ha abbastanza personalità per farlo, e trasforma la sua debolezza in un’arma. “Guardatemi, sono un’adolescente perduta. Sono il risultato vivente dei vostri errori”.

Da leggere

Terribile, sconvolgente, eppure da leggere, assolutamente. L’avevo già affrontato da adolescente e mi aveva scosso profondamente. L’ho riletto oggi, da adulta, e finalmente vedo Christiane F., e gli altri personaggi, per quello che realmente sono, niente di più. Non è un caso, forse, che oggi l’unico a essersi veramente tirato fuori dai guai è il dolce Detlef. Christiane Vera Felscherinow, invece, è rimasta fedele a se stessa, dalla Banhof zoo, in fondo, non è mai veramente uscita. Ma di questo parlerò nella recensione al libro che ha pubblicato due anni fa, “La mia seconda vita”.

Noi ci immaginiamo di comprarci la cava di calce quando non verrà più sfruttata. E lì sotto ci vogliamo costruire delle case di legno con un enorme giardino pieno di animali e con tutto quello di cui uno ha bisogno per vivere. L’unica strada che c’è per arrivare alla cava la vogliamo chiudere. Non avremmo comunque più alcuna voglia di ritornare su.”

Leggi anche: 

Segnalo questo interessante documentario di quasi un’ora sulla storia di Christiane F., con interviste, spezzoni dell’epoca e molti temi su cui riflettere.

Ich bin Berliner: il mio viaggio a Berlino

Ich bin Berliner/3: Il giardino dei piaceri del Grande Fratello

 

Il terzo giorno inizia con una passeggiata nell’Isola dei musei, dove, lo dice il nome stesso, si trova un considerevole numero di musei, di importanza internazionale. L’intera area è stata dichiarata nel 1999 patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.

Non potendo, sempre per questioni di tempo, visitare tutti i musei, ho scelto quello che per me è più rappresentativo: il Pergamonmuseum. Anche si chiama museo di Pergamo, in realtà è costituito da tre aree, perché ospita una collezione di antichità classiche, una di antichità del vicino Oriente e una di arte islamica. Le prime due, a mio parere, sono le migliori, ma un’occhiata anche all’arte islamica a fine visita non fatevela mancare.

Si parte subito alla grande, perché appena entrata mi sono trovata davanti la ricostruzione della Porta di Ishtar, da cui nel VI secolo a.C. si accedevaimg_4888 alla città di Babilonia. E’ interamente ricoperta con tasselli di ceramica blu e le mura sono decorate con leoni, draghi e tori, i simboli delle principali divinità babilonesi. Assolutamente meravigliosa, da sola varrebbe la visita, ma le sorprese sono appena iniziate. Dalla porta di Ishtar, proprio come in passato, si accede a un’altra sala, dove incredibilmente gli archeologi sono riusciti a ricostruire parte della Porta del mercato di Mileto, un capolavoro di architettura Romana, il reperto archeologico più grande del mondo ospitato in un museo. Il lavoro certosino con cui è stata innalzata la posta è un eccezionale esempio di valorizzazione moderna del genio antico. Qui ho ritrovato di nuovo quella sensazione che Berlino mi ha dato più volte in questa settimana, questo contatto continuo tra passato e futuro, un fluire costante tra ordine e sregolatezza, un anelito alla grandiosità che può restituirci cose belle, oppure portare il mondo sull’orlo del disastro.

In confronto a questi due esempi il resto della visita è andato in discesa, anche perché purtroppo fino al 2019 colui che dà il nome al museo, l’Altare di Pergamo, sarà in ristrutturazione e quindi impossibile da vedere. Peccato, davvero, sarebbe stato un giusto completamento. Per la cronaca, compreso nel prezzo del biglietto c’è l’audioguida, che è stata pensata per guidare letteralmente il visitatore all’interno delle sale.

Uscita da lì, mi sono concessa una passeggiata rilassante sotto il (raro, mi dicono) sole berlinese. L’isola è pedonale e un luogo di pace, nonostante i tanti piccoli locali che affollano il lungofiume.

Mi sono fermata in uno di questi e ho deciso di assaggiare una delle specialità della casa: il currywurst. Vi voglio dare un consiglio: non prendetelo nei tanti chioschetti che lo offrono. Vale la pena di spendere qualcosa in più e ordinarlo in un buon ristorante. La mia prima impressione, infatti, è stata negativa. Annegato in una salsa di pomodoro e ketchup, l’ho trovato moscio e per niente invitante. Quasi quasi ho preferito le patatine fritte con cui mi è stato servito. Come ho detto, l’impressione è stata ribaltata quando l’ho assaggiato di nuovo in un ristorante: niente a che vedere con il primo (ma della cucina berlinese parlerò in un’altra puntata).

Il riposo è finito, proprio sul lungofiume c’è un altro museo da visitare, il Museo della DDR, che da dieci anni colleziona tutto ciò che riguarda il quarantennio della Repubblica Democratica Tedesca (1949-1990). Stavolta le audioguide non ci sono, perché il DDR-Museum è costruito come una serie di sale interattive, che aprono finestre (e cassetti) su ogni aspetto della vita nell’ex repubblica democratica. E’ incredibile come a un certo puimg_4909nto sembra di poterli rivivere, quegli anni. Si parte con la vita quotidiana: cosa studiavano, cosa mangiavano, dove vivevano, quali sport sceglievano, che lavori facevano cos’era contenuto nelle scrivanie dei burocrati. Che macchine guidavano? Una, la Trabant, che ordinavano dieci anni prima per riceverla dieci anni dopo. Vuoi farti un giro? Sali in macchina e con un simulatore potrai guidare dentro un quartiere. La sfida è riuscire a uscirne. Sfida persa, almeno per quanto mi riguarda. Dopo una serie di curve, curve, curve, in mezzo a palazzi altissimi, sono rimasta senza benzina. Sospetto che all’epoca fosse molto comune. Scesa da lì, mi sono infilata nella stanza di un collaboratore della STASI, la polizia segreta della DDR, e ho ascoltato le telefonate degli oppositori del regime socialista. Subito dopo, la parte più divertente: ho digitato un interno sul citofono, mi hanno risposto in tedesco una cosa del tipo “sali, xx piano”. Accanto c’era un ascensore: l’ho preso, ho digitato il piano, le porte si sono chiuse e un suono ha simulato la partenza degli ascensori. Non vi nascondo che io e gli altri ci siamo guardati leggermente preoccupati…quando le porte si sono aperte, sul retro, siamo stati catapultati dentro un tipico appartamento di Berlino est, perfettamente arredato, pure con la finta pioggia che s’intravede dall’esterno della finestra. Un televisore trasmetteva il telecinegiornale. Dopo aver spiato nella casa del Grande Fratello, aprendo anche frigorifero e cassetti in camera da letto, con scoperte sorprendenti, la visita è sostanzialmente finita. Lo consiglio veramente, è divertente e istruttivo allo stesso tempo. E non avete idea di quanta gente rinunci per paura a prendere l’ascensore! Perdendo praticamente tutta la seconda parte della visita.

6433All’uscita mi sono sentita quasi una cittadina della Germania Est. L’atmosfera un po’ soffocante del passato recente doveva essere in qualche modo controbilanciata. Allora, niente di meglio che il Lustgarden (Il giardino dei piaceri) di fronte al Duomo per rilassarmi e fare qualche foto poco impegnativa. Costruito nel 1573, il giardino ha avuto una storia travagliata e i più svariati utilizzi, come un po’ tutto qui, fino ad assumere la funzione attuale di luogo prediletto dai berlinesi per prendere il sole all’aperto. Potevo io esimermi dall’utilizzarlo come gli autoctoni? 

La terza puntata finisce qui. Vi aspetto domani per la quarta, dove entreremo in una sala da tè tagika, gireremo per gli otto cortili di Rosenthaler straße e vi farò conoscere la mia piazza preferita. Vi racconterò anche come e perché ho partecipato anch’io alla Breakfast run…

Ich bin Berliner/2: Luisen e Marlene ballano da sole

Dopo essermi ambientata, si fa per dire, in città, il secondo giorno è iniziato il giro vero e proprio. Berlino è una città grande, stracolma di cose da vedere. Una settimana non basta e, per farsela bastare, non resta che trottare per ore ogni giorno.

Charlotte Schloss

Prima destinazione: Charlottenburg Schloss, una delle più antiche residenze degli elettori di Brandeburgo, la famiglia Hohenzollern. Nel corso di due secoli è stata continuamente ammodernata, arredata e allargata. Vi dico subito che il prezzo è variabile in funzione delle aree che si vogliono visitare: l’antica residenza, il nuovo padiglione, di stile più contenuto, il bellevue, i giardini e il mausoleo. Io li ho visti tutti, ma l’unico che secondo merita veramente è il primo, l’edificio più antico. Se avete poco tempo, vi suggerirei di limitarvi a quello. Anche la possibilità di fare foto si paga a parte.

In ogni caso, il nucleo originario della residenza fu realizzato per volere della regina Sophie Charlotte alla fine del XVII secolo. Per questo alla sua morte l’intero castello fu a lei intitolato, anche se la vera padrona di casa è stata in fondo Luisa, l’amGalleria Dorataata consorte di Federico III. La cupola del corpo centrale, alta 48 metri e sormontata dalla statua della Dea Fortuna, è diventata uno dei simboli di Berlino. Il complesso è stato gravemente danneggiato dai bombardamenti durante seconda guerra mondiale e quasi completamente ricostruito.

Il barocco

Agli Hohenzollern piaceva lo stile barocco ripreso dai grandi maestri dell’architettura italiana del seicento, gli arredi sfarzosi e le decorazioni che richiamano le divinità e i miti degli antichi. Uno degli esempi più mirabili è la cosiddetta Galleria Dorata, l’antica sala da ballo lunga 42 metri in cui una volta si intrattenevano sovrani e nobili. E poi alla fine dell’antica dimora, quando stavo per Napoleone uscire, eccolo lì davanti a me, il quadro raffigurante Napoleone che tutti i libri di storia riproducono. Lì, di fronte a me!

Dritta

Il biglietto d’ingresso al Castello include la possibilità di passeggiare all’interno del parco, il cui stile riprende quello dei giardini di Versailles. Se non avete fretta, una bella passeggiata nel parco, seguita da una breve visita del mausoleo dove riposano i padroni di casa, può fare da preludio a una sosta ristoratrice nel caffè del parco, veramente incantevole.

Filmhaus (casa del cinema)

U6364n caffè ed è già ora di rimettersi in marcia verso il Museum für Film und Fernsehen, alla Filmhaus (casa del cinema), situata all’interno del Sony Centre di Potsdamer Platz. Il museo ripercorre la storia del cinema tedesco, con particolare insistenza sugli anni del cinema muto e del bianco e nero. Non è un caso che il Festival di Berlino si svolga a poca distanza da qui  in Marlene Dietrich Platz. Protagonisti assoluti  la diva immortale Marlene Dietrich, Olympia di Leni Riefensthal, girato durante le olimpiadi naziste del 1938, i capolavori classici dell’Espressionismo tedesco, come Il gabinetto del dottor Caligari e Metropolis, di Fritz Lang. Poi, devo dire che non si capisce esattamente il salto logico che dalla Hollywood degli anni d’oro ci porta direttamente al futurismo e alla fantascienza. E’ come se il cinema tedesco fosse rimasto nel buio degli anni ’40. Forse è parte dell’anima di questa metropoli, il continuo salto temporale tra passato e futuro.

Potsdamer Platz e il Sony center

All’uscita, Potsdamer Platz e il Sony center meritano uno sguardo rilassato che li abbracci circolarmente in un solo colpo d’occhio. La piazza, infatti, è un perfetto esempio del salto temporale di cui parlavo. Potsdamer Platz non è una piazza vera e propria, ma una zona circolare costituita da tre aree: Daimler City, Sony Centere Besheim Centre. Quella che prima degli anni ’90 era una zona far west dove il Muro separava la parte Est da quella Ovest, ora è un centro vivace, frequentatissimo sia di giorno sia di notte, perché esempio positivo di mix azzeccato di case, shopping, business e vita notturna. Perfetto per buttarsi anima e corpo nello spirito effervescente della capitale teutonica.

La seconda puntata finisce qui. Domani vi racconterò di come Berlino continui a sembrarmi la città dei contrasti e del salto temporale e il mio incontro con la famigerata DDR.

Leggi anche: 
http://www.pennaecalamaro.com/2016/10/05/ich-bin-berliner3-il-giardino-dei-piaceri-del-grande-fratello/

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