Archivi tag: weekend

La Rimini che non ti aspetti

Mare organizzato, sole, spiagge, movida. Questa è Rimini d’estate e più o meno tutti la viviamo o l’abbiamo vissuta così. In altre stagioni, invece? Continua con tappa Romagna il mio viaggio nel mare d’inverno, che il pensiero non considera e che invece dovrebbe. Vediamo insieme perché.

Cosa fare a Rimini d’inverno

Piazza Cavour 

Purtroppo la mia è stata una sosta lampo di una giornata, però ho tentato di sfruttarla fino in fondo, complice anche un sole primaverile piacevolissimo. Sono uscita dalla stazione dei treni e mi sono diretta verso piazza Cavour. Nel medioevo era il centro della vita cittadina, ospitava tra l’altro il mercato, e ancora oggi offre un colpo d’occhio notevole. Su un lato della piazza si affacciano bar e negozi, sull’altro sono allineati il Palazzo dell’Arengo, il Palazzo del Podestà e il Teatro Galli. Al centro, spicca l’antica fontana pubblica “della Pigna”. Il teatro Galli è stato protagonista di una vicenda travagliata: distrutto durante la seconda guerra mondiale da un bombardamento, è stato inaugurato a ottobre dell’anno scorso. Nel tempo, è stato prima parzialmente demolito e poi è stata tentata diverse volte una ricostruzione, finalmente cominciata nel 2014.

Castel Sismondo

Alle spalle del teatro, si trova piazza Malatesta. Qui svetta Castel Sismondo, che prende il proprio nome dal suo ideatore e costruttore, Sigismondo Pandolfo Malatesta, a quell’epoca signore di Rimini e Fano. Oggi possiamo ammirare solo il nucleo centrale del castello, che era originariamente (1437) una residenza-fortezza difesa da un ulteriore giro di mura e da un fossato. Se avete tempo, su via Sigismondo, alla sinistra del Teatro Galli, potrete visitare la Chiesa di Sant’Agostino e gli affreschi della scuola riminese del ‘300.

Il Ponte di Tiberio

Avendo poco spazio, ho saltato la chiesa di Sant’Agostino per andare subito verso il Ponte di Tiberio. Non c’è niente da fare, sono come gli inglesi. Tra me e gli antichi romani c’è un feeling particolare. Il ponte è meraviglioso, uno dei più notevoli ponti romani superstiti. Rivestito in pietra d’Istria, a cinque arcate, in stile dorico, lungo 70 metri, è ancora oggi perfettamente funzionante. L’imponente ponte fu iniziato per decreto dell’Imperatore Augusto nel 14 d.C. e terminato nel 21 d.C. dal suo successore Tiberio. Come tutte le opere di questo geniale popolo, è ingegneristicamente all’avanguardia ed esteticamente armonico. Peccato solo che non sia esclusivamente pedonale, perché è la via che collega Borgo San Giuliano e Rimini.

Borgo di San Giuliano

Atttraversato il ponte, mi sono ritrovata nel vecchio quartiere dei pescatori riminesi, Borgo di San Giuliano. E’ il più antico dei borghi della città di Rimini: la sua storia si rintraccia già nel XI secolo, quando era un quartiere popolare fatto di vicoli e casette basse, abitato da gente di mare. Oggi è un luogo vivace e ricco di attività e locali caratteristici, un intrico di stradine e piazzette colorate e pittoresche. Anche Federico Fellini era tra i più grandi ammiratori del borgo,  in cui decorazioni e murales ritraggono alcune delle scene più belle dei film e della vita di Fellini.

Altri monumenti

Mi limito a citarli perché purtroppo, o per fortuna, ho terminato la mia giornata a Rimini con una sosta al porto senza fare nulla se non prendere il sole. In ogni caso, l’itinerario alla scoperta dei segni della romanità dal Ponte di Tiberio con la nuova piazza sull’acqua continua con l’Arco d’Augusto, il più antico tra gli archi romani ancora esistenti e fonte d’ispirazione per l’architettura rinascimentale, e il Tempio Malatestiano, capolavoro del Rinascimento italiano. Imperdibile, poi, una visita alla Domus del Chirurgo, il complesso archeologico che ha conquistato fama internazionale per l’eccezionale corredo chirurgico-farmaceutico, il più ricco mai giunto dall’antichità, in mostra nell’adiacente Museo della Città insieme a opere della scuola riminese del Trecento.

Gli eventi di Rimini 

Vi ho già detto del nuovo teatro Galli www.teatrogalli.it, cui si aggiungono la Sagra Musicale Malatestiana, la stagione di prosa, la mostra Giardini d’Autore…insomma, ce n’è per tutti i gusti.

Cosa mangiare a Rimini 

Se dici Romagna la vera piada riminese, a cui si eventualmente se avete più giorni potete aggiungere escursioni in quella che un tempo era la Signoria dei Malatesta e dei Montefeltro tra rocche e castelli. Io mi sono fermata dalla Lella, ma sono sicura che in ogni locale di Rimini siano le più buone che uno possa mangiare. A parte quelle fatte da me, ovviamente. 🙂 🙂 🙂 Tornando alle cose serie, il cuore della movida riminese invernale è nel centro storico, e in particolare dietro la Vecchia Pescheria, con le sue cantinette, che per un aperitivo e uno spuntino è perfetta, o al Borgo San Giuliano con  i suoi locali e osterie.

Ulteriori suggerimenti 

Se siete più sfortunati di me e capitate a Rimini in un giorno di pioggia, potete rilassarvi con un bel tuffo alle terme, rigenerandovi nella spa e nella piscina termale con vasca biomarina e vista sul mare d’inverno. Oppure, potete optare per i parchi divertimento. Italia in miniatura, Fiabilandia, Oltremare e l’Acquario di Cattolica, però, non sono aperti tutto l’anno, quindi controllate prima sui rispettivi siti.

Come arrivare a Rimini

Partono dalla stazione di Bologna, Bari e Ravenna i treni regionali per arrivare a Rimini Centro, che si trova a pochi passi dal centro storico e dal mare.  La stazione di Rimini Fiera, invece, si trova sulla linea Milano – Bari, e permette ai visitatori, in coincidenza con le manifestazioni fieristiche, di arrivare direttamente davanti all’ingresso principale della Fiera.

www.riminiturismo.it

IMG_20181024_132303 IMG_20181024_132205 IMG_20181024_131448

Le amiche del venerdì sera – Kate Jacobs

Siamo a metà settimana e venerdì sembra ancora lontano. Mi sono tornate in mente le ragazze che ho visto lavorare la lana nella metropolitana di New York. Allora, niente di meglio che parlare di un romanzo che ha questo giorno nel titolo e un negozio di lana come ambientazione. Quattro chiacchiere con le amiche, un caffè e qualche biscotto: un sogno, vero? La vita della protagonista, però, è tutt’altro che un sogno…

Trama

Tutto è nato un po’ per caso: qualche cliente ritardataria che si trattiene oltre l’orario di chiusura, un paio di consigli sull’arte della maglia che diventano quattro chiacchiere e un caffè. Ed ecco il Club del Venerdì. L’appuntamento è da “Walker & Figlia”, un negozio di filati a Manhattan. Lei è Georgia: mamma single, trentacinque anni o poco più. A ingarbugliarle l’esistenza, il suo ex con un improvviso istinto paterno. E l’ex amica del cuore, che vorrebbe rimediare agli errori del passato. Per fortuna c’è il Club, capace di superare differenze di gusti ed età, riunendo donne in carriera e femministe, signore mature e teenager intraprendenti. Ben presto, le lezioni sul diritto e sul rovescio lasciano spazio a segreti e confidenze, e quelle che erano semplici clienti si trasformano in amiche. Unite da un legame che saprà resistere anche quando sarà la vita a girare a rovescio.

Via lo stress con calze e gomitoli

Sarebbe bello sapere che un negozio così esiste davvero. Un luogo dove la saracinesca non si abbassa all’ora di chiusura e che grazie a ferri e gomitoli di lana ti permette di sfogare le frustazioni della settimana e di iniziare il weekend con allegria, o quantomeno più serenità. Questo è il bozzolo che Georgia e sua figlia hanno saputo creare intorno a un manipolo di clienti molto differenti per cultura ed esperienze di vita, accumunate dal sacro amore per il lavoro a maglia. Non crediate che siano anziane: non lo è Georgia e non lo sono le altre, come la copertina lascia giustamente intuire. D’altra parte, in questi giorni ho visto così tante ragazze sferruzzare nella metropolitana di New York, che ho capito quanta presa abbia ancora, per fortuna, il lavoro manuale. Niente di meglio per scaricare la tensione, soprattutto se come la protagonista sei una ragazza madre che si è fatta da sé.

Un romanzo che procede prima lentamente e poi via via sempre più spedito verso un finale che, francamente, fatico a capire. Come già sapete, ogni romanzo per me deve essere autoconclusivo, anche se ci sono dei seguiti. Questo lo è in parte, perché chiaramente lascia i lettori senza un lieto fine che sappiamo già prima o poi ci dovrà pur essere. Per questo motivo, non ho letto il secondo romanzo e ho lasciato alla mia immaginazione il finale della storia. Ciò non toglie che il libro si lasci leggere con piacevolezza, almeno fino a tre quarti.

Una vacanza da sogno? A La Thuile, in Valle D’Aosta

Scommetto che siete appena tornati dalle vacanze e vi sentite ancora come qualche giorno fa: sotto il sole, su una sdraio, ascoltando pigramente le onde del mare che s’infrangono a riva. Poetico, eh? Oppure siete ridotti come me, avete sofferto il caldo di un’estate in città? Sia come sia, oggi per vendicarmi voglio parlarvi di freddo, neve e un luogo incantato. Vi racconto di un viaggio meraviglioso a La Thuile, in Valle d’Aosta. Anche perché La Thuile ha un unico, piccolo ma non trascurabile difetto: per trovare posto a prezzi umani bisogna muoversi per tempo.

Perché La Thuile

IMG_6756Bramavo La Thuile fin dall’anno scorso, per un semplice motivo. Ho chiesto a un gruppo di montanari (veri) di indicarmi una località con le seguenti caratteristiche: bella ed elegante, ospitale, facilmente raggiungibile anche solo con il trasporto pubblico perché sono una sostenitrice della mobilità sostenibile, dotata di piste di buon livello e di divertimenti anche per i non puristi dello sci. Obiettivo: 3-4 giorni di vacanza in un posto dove si respiri aria vera di montagna.

La risposta dei montanari consultati è stata univoca: La Thuile, Valle d’Aosta. E La Thuile sia. Di seguito vi darò qualche dritta su dove dormire, cosa fare, dove mangiare e come arrivare a La Thuile e dintorni. Come sempre, se avete altri suggerimenti o domande, scrivetemi nei commenti e cercherò di aiutarvi.

Dove dormire a La Thuile?

Cosa faccio nella vita? Scrivo. E cosa faccio quando non scrivo? Leggo. Dove avrei potuto alloggiare se non in una locanda letteraria? Il primo impatto con La Thuile è stato fiabesco. Sono entrata nella Locanda Collomb e mi è sembrato di essere finita in quella di Lorelai Gilmore, delle Gilmore Girls. Ve la ricordate? La locanda, che si trova in una delle strade laterali del paese, a pochissima distanza dalla stazione dei pullman, è in realtà un piccolo albergo a conduzione familiare, gestito con la libertà tipica del bed & breakfast. Il motivo per cui l’ho scelta, però, non è né la colazione pantagruelica, seppur apprezzabile, né la piccola sauna esterna in cui rilassarsi la sera. No, quello che mi ha convinto è la quantità smisurata di libri che ho trovato. Purtroppo, rimanendo pochi giorni non ho potuto sfruttare a dovere la stanza della lettura, ma ho fatto comunque in tempo a finire il romanzo che ho trovato lì dentro, A sud del confine, a ovest del sole di Murakami Haruki, di cui vi ho parlato qualche tempo fa. Spuntava da una pila e sembrava proprio che mi stesse aspettando.

In generale, la maggior parte delle sistemazioni di La Thuile sono in case vacanze, ma se preferite ci sono alberghi di diversa taglia e prezzo tra cui scegliere.

Cosa fare a La Thuile?

Sciare

Innanzitutto sciare, sulle piste o sull’anello di sci di fondo. Anche se gli autoctoni preferiscono fare sci di fondo direttamente in montagna, secondo me non è prudente avventurarsi se non si conoscono bene i percorsi. Motivo per cui me ne sono rimasta buona buona negli anelli, anche perché ho avuto bisogno di una lezione per assimilare i fondamentali e ho preso un’insegnante. In paese, nella zona della Piana di Arly, partono 3 anelli di fondo di varie lunghezze, ai quali si accede gratuitamente. I tre percorsi sono da 1, 3 e 7 kilometri. La tecnica di sci di fondo è più semplice rispetto a quella di discesa, però non ditelo al mio fondoschiena e al mio braccio destro, che sono rimasti doloranti per un bel po’ di giorni. Che volete farci, la forza di gravità mi ha attratto irresistibilmente verso terra piuttosto spesso!

Le piste 

IMG_6757Se amate le piste da sci, invece, avete solo l’imbarazzo della scelta. L’Espace San Bernardo è un vasto comprensorio internazionale che, da oltre 30 anni, unisce La Thuile e La Rosière. Italia e Francia. Cioè oltre 150 chilometri di piste e per godervele appieno (attenzione: non per farle tutte, per godervele) ci vogliono almeno tre giorni. Gli impianti sono efficienti e moderni, inoltre i panorami che offrono il ghiacciaio del Ruitor e il Monte Bianco da una parte e la vallata di Albertville dall’altra vi costringeranno a inevitabili soste per scattare foto. A Chaz Dura, punto più alto dalla parte di La Thuile, ho tolto gli sci per arrampicarmi su una piccola cima proprio vicino all’arrivo della seggiovia. Non faticherete a individuarla: vi chiama e vi dice: “Vieni qui su, che il panorama è ancora meglio”. E’ vero. Sono pochi passi, anche se un po’ faticosi. Se non siete così temerari c’è sempre il Belvedere, a 2641 metri, proprio all’altezza (in tutti i sensi…) del confine, con apposito balconcino per scattare le fotografie. Per quanto riguarda le piste, c’è di tutto e per tutti. Meglio la parte francese per chi è alle prime armi (non mancano gli snow park per bambini), ma attenzione: anche i più esperti possono trovare pane per i loro denti nello stadio da slalom. A tutti consiglio di spingervi fino alla partenza della seggiovia “Ecudets”, basta seguire i cartelli. Non tutti ci arrivano perché è il punto più basso (si scende fino a 1100 metri) e più lontano da La Thuile, ma è una pista fantastica, che si può fare da due lati, uno più facile e uno più impegnativo, in mezzo ad abeti innevati che, soprattutto quando risalirete, vi faranno sentire a Natale anche se non lo è. Tante “rosse” non molto ripide ma lunghe e strette sul versante italiano, in totale 13 piste nere tra cui la mitica Franco Berthod, la numero 3, usata per la Coppa del Mondo. Per esperti, direi. Ma l’esperto si diverte tantissimo. Curve strette e obbligate nella prima parte, sempre più ripida fino al primo muro, dove si raggiunge la pendenza del 73%. Poi il pendio diventa più dolce, ma la pista più stretta, per arrivare al secondo muro, non meno impegnativo del primo: siamo al 65% di pendenza e prima di affrontarlo è meglio fermarsi per riprendere fiato, perché la parte finale, dove si è un po’ più stanchi, merita il massimo dell’attenzione. Se ce la mettete, però, vi divertite tantissimo tra curve obbligate, dossi e, per i più coraggiosi, anche qualche saltino per arrivare fino alla base della cabinovia. E poi, naturalmente, ricominciare. Perché il bello di questa pista è che la finisci esausto ma vuoi subito farne un’altra. Sì, rischia di diventare una droga.

Salire sullo Skyway

Il terzo giorno, stanca di sciare, mi sono alzata e ho visto un sole splendente già di prima mattina. Il tempo di vestirmi ed ero sull’autobus per Courmayer. Direzione: Skyway. Ve lo dico subito: costa, ma vale tutti gli euro che spenderete. L’unica accortezza è quella di salire quando c’è una giornata di sole pieno, altrimenti in cima la nebbia non vi permetterà di vedere nulla. Mentre va su, la cabina gira di 360°, quindi non c’è neanche bisogno di muoversi per gustare in tutta la sua magnificenza il panorama verso valle e quello della parete rocciosa del Monte Bianco. In più, gli ooohhh degli altri passeggeri vi avviseranno in caso di avvistamento di uno stambecco o di altri animali che si affacciano a guardare quella cosa curiosa che sale e gira continuamente.

La cabina fa una prima sosta intermedia a Pavillon du Mont Fréty (2.200 m), comoda per chi ha bisogno o voglia di acclimatarsi, mentre una seconda stazione porta invece a Punta Helbronner (3.466 m). Io ho optato per la salita diretta in cima, senza soste intermedie: la curiosità era davvero troppa.

IMG_6778“Sbarcata” dalla funivia, siamo saliti tutti utilizzando una rampa di scale, ci siamo scambiati un in bocca al lupo tra coraggiosi e poi via! Un’altra rampa di scale e finalmente sul tetto del mondo. Beh, forse proprio sul tetto del mondo non ero, però vi assicuro che la vista da lassù è davvero spettacolare. Soprattutto se andate preparati, cioè coperti fino alla fronte, limiterete i danni da congelamento alla sola mano sguainata in favore di macchina fotografica o cellulare. Finite le avvertenze, dicevo, il panorama è qualcosa di unico. Innanzitutto, dalla terrazza panoramica a 360° ho potuto vedere il Monte Bianco, il Cervino, il Monte Rosa e il Gran Paradiso, senza contare che l’aria rarefatta e il gelano creano un mix quasi estatico…per un quarto d’ora, dopodiché l’estasi inizia pericolosamente a somigliare al torpore. Magari, a quel punto, è meglio rientrare per poi riaffacciarsi dopo qualche minuto di scongelamento, anche perché li ignorano quasi tutti ma nella sala interna è possibile osservare i minerali esposti e fare qualche foto scenografica sfruttando la pavimentazione trasparente.

La tappa intermedia 

La tappa intermedia, che io ho fatto al ritorno, è forse migliore. Infatti, se in alto l’unica possibilità di movimento consiste nel girare a 360° su una terrazza, al “1° piano” ci si può anche avventurare sulla neve. A questo punto, ci sono diverse opzioni: scendere a valle con gli sci sui fuoripista della Vallée Blanche, del Ghiacciaio del Toula, dei Marbrées. O dei boschi del Pavillon, ovviamente consigliati solo ai più esperti, passeggiare lentamente scattando foto (eccomi!), oppure spingersi fino al Rifugio Torino (http://www.rifugiotorino.com/ ), dove tra l’altro mi hanno detto che si mangia molto bene.

Io ho optato per la soluzione soft, una passeggiata tranquilla, anche perché, e stentavo io stessa a crederlo, la giornata vola via in un lampo, anche se apparentemente le cose da fare non sono molte. Lo spettacolo della natura, però, richiede tempo, quindi mi raccomando, concedetevi il tempo per gustarvi l’esperienza con calma.

Tornata alla base, ho scoperto per caso che il bar all’entrata del complesso partecipa al bookcrossing internazionale. Dopo un rapido esame dei libri a disposizione, ho scelto e portato via Olive Kitteridge, che ora dovrebbe trovarsi in un’osteria di Treviso, se v’interessa (altro viaggio che devo raccontarvi), da cui ho portato via Il ricco e il giusto di Helen Van Slyke.

Rilassarsi alle Terme di Pre Saint Didier

Sulla via del ritorno, mi sarebbe tanto piaciuto fermarmi alle famose terme di Pre Saint Didier, che si trovano proprio a metà strada tra Courmayeur e La Thuile, e che sono rinomate per le piscine di lusso e all’aperto, con la montagna che si staglia davanti. Uno scenario suggestivo. Almeno credo, perché purtroppo ahimè sono sempre prenotate. Mi hanno dato appuntamento alle 19, a tramonto finito ma sarei comunque entrata. Peccato che l’ultima navetta per La Thuile passasse alle 20:40. Troppo poco, per una che è tornata a Budapest quasi esclusivamente per le terme. Beh, non proprio, però avete capito il concetto.

Dove mangiare a La Thuile?

Qui il capitolo si fa interessante. Ve lo dico, ,c’è solo l’imbarazzo della scelta. Prima di tutto, è mio dovere informarvi che La Thuile è stata dichiarata Città del Cioccolato nel 2009. Dopo una giornata sulle piste, non c’è niente di meglio di una cioccolata con panna per riscaldarsi e confortarsi. Se volete andare oltre e farvi davvero male con un dolce ultra calorico, come ho fatto io non c’è neanche da dirlo, vi suggerisco una vera e propria bomba, in tutti sensi.

La Tometta

IMG_6752La Tometta è stata inventata da Stefano Collomb, un pasticcere di La Thuile che ha deciso di far ingrassare felicemente tutte le donne che varcano la soglia della sua pasticceria, la Pasticceria Cioccolateria Chocolat (ricordate il film Chocolat? Forse un nome ormai inflazionato, ma rende perfettamente l’idea). Prende il nome dalla forma, che ricorda quella dell’omonimo formaggio d’alpe, ed è un enorme cioccolatino di 350 grammi, a base di cioccolato al latte, gianduja e nocciole del Piemonte IGP, che provoca la pace dei sensi al primo morso. Giuro che non sto esagerando e se non ci credere assaggiatela pure voi.

Se, invece, preferite una cena tradizionale, ho il posto giusto per una serata indimenticabile.

Il rifugio Lo Riondet

In inverno, il rifugio Lo Riondet è raggiungibile solo con i gatti della neve messi a disposizione dai gestori, che scendono a prendere i clienti a un orario concordato nei pressi della chiesetta del paese fantasma di Pont Serrand. Dico paese fantasma, anche se non lo è, perché è abitato quasi solo d’estate, mentre d’inverno rimane fuori anche dalle rotte della navetta, che effettua l’ultima fermata a La Thuile, più in basso. Peccato, perché raggiungerlo senza macchina diventa estremamente difficile, visto che anche i taxi sono un miraggio. Noi, indomiti camminatori, non abbiamo voluto rinunciare nonostante gli impedimenti, e ci siamo avviati…a piedi! sui tornanti sprovvisti di marciapiede, con un vento gelido che tirava giù la neve dal ciglio della strada. Non vi consiglio di seguire il nostro esempio, ma di cercare per tempo un passaggio. Da queste parti, l’autostop è pratica ancora comune e usata regolarmente (sempre con le dovute cautele).

IMG_6764Comunque, in qualche modo siamo arrivati al luogo dell’appuntamento, e finalmente in salvo, siamo saliti sul gatto. L’esperienza è divertente: il gatto è chiuso e munito di telecamere, così abbiamo potuto sempre vedere dove stavamo andando, sempre ovviamente tenendo in considerazione il buio e la neve. All’arrivo, siamo stati accolti da un piccolo aperitivo e un gradito vin brulé e poi subito dentro, perché oggettivamente faceva un freddo cane. Dentro, abbiamo trovato sale accoglienti e un’atmosfera calda (in fase di prenotazione, vi raccomando di chiedere un tavolo lontano dalle finestre, soprattutto se la temperatura è rigida). Complice anche il vino, la sensazione di trovarsi fuori dal mondo per una sera favorisce la convivialità e gli scoppi di risa iniziano subito e mettono allegria.

Il menù è abbondante, con 65 euro a persona, escluse bevande, avrete una panoramica eccellente dei piatti valdostani. Impossibile elencarvi tutto quello che ho assaggiato. Cito solo la Raclette Savoyarde, vi arriva in tavola una mezza forma che viene scaldata e che con una spatola il cliente stesso mette nel piatto, Il costato di maialetto arrosto alla senape, davvero notevole, e il caffè alla valdostana, che viene servito nella tipica Grolla valdostana, o coppa dell’amicizia. Ho mangiato da scoppiare e quindi purtroppo per me ho dovuto saltarlo, però il rito del caffè è divertente: i commensali bevono dalla coppa a giro utilizzando le bocchette di cui è dotata e passandola al vicino di posto, girandola leggermente in modo che il convitato accanto abbia davanti la bocchetta da cui bere. Se nessuno appoggia la Grolla sul tavolo prima di bere, e prima che il caffè sia finito, significa che tra loro va tutto bene. Meglio, dunque, non metterla in tavola con i parenti serpenti!

Come arrivare a La Thuile?

In automobile: entrando in Valle d’Aosta a Pont-Saint-Martin, si percorre l’autostrada A5, che attraversa la regione da est a ovest e si esce dall’autostrada a Morgex, imboccando la S.S. 26, seguendo le indicazioni per La Thuile.

In treno: la stazione ferroviaria più vicina è Aosta e il collegamento con La Thuile è garantito da un servizio di pullman di linea. Oppure potete optare per la stazione di Torino, più lontana ma servita da diverse compagnie ferroviarie e da pullman.

Souvenir di La Thuile 

Prima di andare via, ho scelto proprio la coppa dell’amicizia come souvenir. Campeggia trionfale nel mio salotto, a futura memoria di una vacanza splendida e dell’importanza dell’amicizia nella vita.

Vi aspetto al prossimo viaggio. A proposito di terme, chi non vorrebbe trovarsi a Budapest per un weekend autunnale? Nei prossimi giorni su Penna e Calamaro, il racconto di Un caffè letterario a Budapest.

Leggi anche:

A sud del confine, a ovest del sole – Haruki Murakami

Contenuto non disponibile
Consenti i cookie cliccando su "Accetta" nel banner"

Confinati per due giorni a Ponza, l’isola “lunata”

Ponza. Vi scrivo appena sbarcata dal traghetto. Felice di sentirmi ancora viva. Il mare era piuttosto turbolento e io e due neonati abbiamo rischiato di rimanerci. Non fate commenti sui due miei compagni di avventura, vi scongiuro…Quest’anno passo il weekend di Pasqua su un’isola pontina, la più grande e la più conosciuta, Ponza. L’anno scorso l’avevo trascorsa a Sperlonga e mi è sembrata una buona idea fare il bis, andando a vedere cosa c’è di fronte al continente. Per fortuna, l’acquazzone che ha fatto alzare le onde e ballare la tarantella alla nave, al momento dell’attracco era quasi finito.

Dal porto, sono andata direttamente al piccolo albergo che ho prenotato, che si trova a circa 500 mt di distanza dallo sbarco e ottimo punto di partenza per escursioni sull’isola.

Quando sono entrata nella hall, la ragazza che mi ha accolto deve aver notato i capelli alla Mafalda e lo sguardo stralunato: “non le chiedo neanche com’è andato il viaggio”. Ecco brava, è meglio.

Mi raccomando, non spaventatevi: Ponza val bene un po’ di su e giù in mare, come vi racconterò ora.

Il giorno di Pasqua, su e giù per le calette

Domenica ci siamo alzati di buon’ora e dopo una ricca colazione siamo partiti per fare il giro di Ponza. Se non avete problemi fisici, vi consiglio di farlo a piedi, perché l’isola non è grande e siamo riusciti a vedere quasi tutti i punti d’interesse in una giornata e qualche…ehm…km di scarpinata. L’unico piccolo problema sono i piedi, che mentre vi scrivo stanno gridando pietà.

Il Frontone

Prima tappa, la spiaggia del Frontone, una delle più famose dell’Isola. Più frequentemente viene raggiunta via mare, ma il servizio è attivo solo d’estate, quindi noi siamo scesi per un sentiero piuttosto ripido. Troverete online descrizioni paurose del sentiero, ma vorrei tranquillizzarvi: niente che una persona in buona salute fisica non riesca a fare. Certo, quando inizierà la risalita l’unico pensiero fino alla cima sarà “ma chi me l’ha fatto fare”, però a quel punto potrete solo continuare ed entrare in modalità mantra yoga per spingervi al punto di partenza.

Il museo etnografico

Lungo il sentiero, prima di arrivare alla spiaggia, abbiamo incontrato per caso un cartello azzurro che indicava il museo etnografico. Incuriositi, ci siamo affacciati e abbiamo incontrato uno dei gestori della famiglia Mazzella, che con pazienza e affetto ha raccolto diverse testimonianze della vita sull’isola. Due su tutte mi hanno affascinato: la storia del soldato tedesco di origine russa che nel 1914 portò sull’isola la balalaica, uno strumento a corde della tradizione russa che lasciò come pegno d’amore a una ragazza ponzese non tornando però mai più a prenderlo e quella di zio…, che la mattina ascoltava la radio e voleva commentare, poi stizzito perché dall’altra nessuno gli rispondeva finiva per infuriarsi e spegnerla. Fuori dal “museo” c’è una piccola biblioteca, e mi sono tanto pentita di non aver portato con me libri per il bookcrossing, un calcio balilla e le sdraio per prendere il sole. Oppure, tavoli per assaggiare le specialità locali cucinate in una minuscola cucina. Noi abbiamo proseguito a destra fino agli scogli di tufo, che in epoca romana erano vasche di acqua sulfurea. Optando per il sentiero di sinistra, invece, saremmo arrivati al Fortino di Frontone, che a proposito si chiama così per la forma della roccia bianca che si affaccia sulla baia, che sembra appunto il frontone di un tempio greco. Non abbiamo camminato fino alla spiaggia del Frontone, che mi dicono in periodo estivo sia uno dei posti preferiti dai giovani per l’aperitivo al tramonto, perché il programma di escursione era bello intenso, ma l’ampia distesa avrebbe meritato almeno una passeggiata.

E poi abbiamo incontrato Fred

Ti rendi conto di quanto siano utili le lezioni di yoga quando la salita irta ti fa scoppiare i polmoni. A quel punto, o chiami qualcuno in soccorso, in effetti lì vicino hanno piazzato il poliambulatorio e non credo sia un caso, oppure come ho detto prima applichi il mantra dello yoga: muscoli antagonisti (glutei) al lavoro, sguardo fisso davanti a te e respirazione controllata. In qualche modo siamo arrivati su e siamo ripartiti per raggiungere i nostri obiettivi principali: la baia delle piscine naturali e Cala dell’acqua. Solo che all’altezza di Cala Feola abbiamo perso l’orientamento. Non aspettatevi di trovare cartelli e indicazioni, perché in tutta l’isola predomina il fai da te, ovvero giri e rigiri per viuzze e scalette finché se sei fortunato arrivi da qualche parte. Per fortuna ci ha affiancato Fred, che al collo portava la targhetta Sauron ma non si è ribellato al suo nuovo nome. Abbiamo capito che ci chiedeva di seguirlo e d’istinto ci siamo “accodati”, è proprio il caso di dire, a lui. Incredibilmente, si è mosso con abilità tra le suddette viuzze e scalette fino a portarci proprio dove volevamo!

Le piscine naturali

La baia delle piscine naturali si trova in un tratto di costa libero, non in concessione. Il mare e il vento con il tempo hanno scavato due conche naturali, le piscine, di acqua bassa e calda. La prima è chiusa tra le rocce e unita alla seconda tramite due archi naturali. Scendendo le scale, s’incontra la prima, chiusa interamente tra le rocce, unite al mare aperto e alla seconda piscina tramite due archi. La seconda piscina è meno chiusa dell’altra e con l’acqua più bassa. D’estate devono essere uno spasso per grandi e piccini.

Lo scoglio della tartaruga

Sempre seguendo Fred, siamo tornati sulla strada principale e da lì abbiamo visto lo Scoglio della tartaruga. Il perché del nome è intuibile dalla forma. Mi ha ricordato lo Scoglio dell’elefante che avevo visto in Cornovaglia. Ed è subito amore

Le Forna

Finalmente, dopo un altro tratto di strada tutto in salita, siamo giunti in località Le Forna e prima di scendere alla Cala dell’acqua, ci siamo riposati su una panchina di fronte alla chiesa mangiando panini. Per fortuna, avevamo più fame che sete, perché Fred si è rivelato una buona forchetta e da solo si è spazzolato metà del nostro pranzo.

Dopo la breve sosta, siamo scesi alla Cala.

La Cala dell’acqua

In epoca romana, la Cala dell’acqua era importante, perché qui i romani avevano trovato l’unica fonte sorgiva dell’isola, ora purtroppo chiusa. Da qui, ovviamente, il nome che porta ancora oggi. In parte ora è anche deturpata dai resti di una miniera di bentonite che nel 1935 hanno pensato bene di estrarre dalla parete sovrastante e che poi è stata chiusa nel 1975.

Forte di Papa

Dall’alto abbiamo anche scorto il Forte di Papa, realizzato alla fine del 1700 su richiesta di Papa Paolo III, dei Farnese. Costruito in posizione strategica, doveva sorvegliare i mari che dividono l’isola dal continente. Noi non ci siamo arrivati, ma se volete vederlo da vicino, basta proseguire lungo la strada principale asfaltata.

Ciao, amico Fred

Per noi è tempo di fare marcia indietro e di salutare il nostro amico Fred, che forse perché restio agli addii, o più probabilmente perché trascinato da un suo amico a quattro zampe che l’ha raggiunto al galoppo, è sparito così com’era apparso, senza salutarci. Ciao amico Fred, sei stato un’ottima guida.

Chiaia di Luna

Scendendo a ritroso lungo la panoramica che abbiamo già affrontato in salita, arrivati quasi al porto abbiamo incontrato un altro punto molto conosciuto dell’isola, la Baia di Chiaia di Luna, chiamata così per la curvatura a mezzaluna della spiaggia, chiusa alle estremità dalla roccia bianca all’estremità. La spiaggia è la più grande di Ponza e fino a qualche anno fa si poteva raggiungere attraverso un tunnel di 170 metri circa costruito dagli antichi romani. Oggi purtroppo la spiaggia è raggiungibile solo via mare e a rischio e pericolo dei natanti, perché anche la roccia che la sovrasta è friabile e a rischio crolli. Purtroppo, spiace dirlo, è uno degli esempi italici di incuria delle numerose testimonianze che il passato ci ha lasciato, non solo perché il tunnel avrebbe bisogno di essere seriamente ristrutturato per permettere ai cittadini di tutto il mondo di godere di tanta bellezza, ma anche perché, pensate, sulla cima della scogliera, che da 100 metri di altezza cade a picco sulla cala, c’era una necropoli romana che oggi è ormai in gran parte distrutta. Che dire, provo tanta malinconia quando penso a quello che ho visto l’estate scorsa in Inghilterra e a come so che tratterebbero i resti romani se ne avessero così tanti.

Il porto

Ormai il sole sta tramontando, è ora di tornare alla base, portando con me i pensieri malinconici. C’è ancora spazio per un giro del porto, meraviglioso a quest’ora, dove la sagra del casatiello ponzese, che è in pieno svolgimento, rovina un po’ ma non troppo l’atmosfera romantica che in estate deve aver fatto capitolare chissà quanti innamorati. Purtroppo, oltre a passeggiare oziosamente per la banchina, rimirando la vista del mare aperto e quella del villaggio con le sue casette colorate, deliziose, possiamo fare ben poco. I ristoranti sono quasi tutti chiusi, quindi non posso raccontarvi come si mangia in zona. Posso dirvi con certezza, però, che i prezzi non sono teneri e i due tre posti in apparenza più invitanti lì abbiamo visti in alto, a Le Forna.

In stanza faccio un conteggio spannometrico dei km percorsi con l’aiuto di google maps: 15! Direi che una bella doccia calda e dieci ore di sonno sono gli unici desideri da esprimere alla luna ponzese.

Pasquetta

I ponzesi passano il giorno di pasquetta sul Monte Guardia, a divertirsi con scampagnate e picnic. Fa caldo, la primavera si è finalmente affacciata, dopo un mese di marzo che ci raccontano è stato molto duro, Noi, invece, rimaniamo in zona porto, deserto e completamente sguarnito, perché rimangono tre cose importanti da fare: scegliere la calamita giusta, visitare il cimitero e le cisterne romane.

La calamita

La calamita giusta per fortuna ci appare al secondo o terzo negozio di souvenir in cui ci affacciamo. Non avete idea di quanto tempo sono capace di perdere su questa parte dei viaggi. Perché la calamita ha lo scopo fondamentale di farmi rivivere le sensazioni provate ogni volta che apro il frigorifero. Il che succede abbastanza spesso, eh eh. Non divaghiamo: la calamita raffigura una scarpa da ginnastica dentro cui è racchiusa Ponza. Così ricorderò per sempre la giornata ridenominata “la sfacchinata di Pasqua”.

Il cimitero

Il cimitero è situato su una collina sopra il porto e costituisce un ottimo punto di osservazione. Se avete tempo, andateci. Oltre a portare un saluto ai defunti, cosa sempre buona e giusta, potrete godere di una vista stupenda sul mare e sugli scogli. Il custode è stato così gentile da indicarci una piccola sagrestia, con una finestrella da cui osservare dall’alto un panorama spettacolare. Sulla strada per il cimitero abbiamo potuto anche “intuire” i resti di una villa costruita, sembra, dall’imperatore Augusto, con annesso tempio, per farne una residenza di villeggiatura. Un po’ come la villa di Tiberio che ho visitato a Sperlonga. In quel caso, però, i resti permettono di immaginare la pianta della villa così com’era. A Ponza, invece, ci sono oggi degli orti digradanti verso il mare e null’altro.

Le grotte di Pilato

A livello del mare, è ancora possibile ammirare le grotte di Pilato, un complesso di caverne collegate con il mare e tra di esse da cunicoli, scavate nel banco roccioso sottostante la villa. Non essendo stagione di navigazione con la barca, noi siamo riusciti a scorgerle sul traghetto di ritorno. Appena parte, guardate verso destra e riuscirete a vederle bene. Sono costituite da quattro vasche coperte e una scoperta, per questo si è sempre pensato che servissero come allevamento di pesci, che è ancora oggi l’ipotesi più accreditata. Accanto alla quale, però, si sta facendo spazio un’altra ipotesi, ossia che potesse trattarsi di uno stabilimento balneare, perché al loro interno sono stati trovati resti di colonne e statue collegato alla villa sovrastante da una scaletta scavata nella roccia. Non è stupefacente la modernità degli antichi? Il nome, invece, è ricollegabile al famoso Ponzio Pilato, in origine solo Pilato, che deve l’aggiunta di Ponzio proprio al periodo in cui fu mandato a Ponza per governarla.

Il confino

Ponza, infatti, era considerata luogo in cui confinare gli esiliati, o le persone non gradite, fin dall’antichità, non solo in epoca fascista. Qui furono confinati, tra gli altri, Giulia, la figlia di Augusto, Ponzio Pilato, Sandro Pertini, Pietro Nenni, lo stesso Mussolini alla fine della guerra, prigionieri slavi, albanesi e greci e innumerevoli altri. Tutto sommato, da quello che ho visto, direi che non dev’essere stato troppo difficile per loro adattarsi nella terra d’esilio.

Le cisterne della Dragonara e del Corridoio

Sempre a proposito di romani, vi consiglio caldamente di passare alla pro loco, gli uffici si trovano al porto, e di prenotare una visita alle due cisterne romane più vicine. Da aprile e per tutto il periodo estivo, le visite sono cinque al giorno. Noi non sapevamo che per pasquetta non erano previste visite al mattino, ma ci tenevamo tantissimo a vederle prima di ripartire e il presidente della pro loco Emilio Aprea ci ha gentilmente accompagnato all’interno per consentirci di ammirarle.

Perché vi garantisco che di pura e semplice ammirazione si tratta. La prima cisterna, quella della Dragonara, è perfettamente conservata. Scavata nel tufo dell’isola, presenta più corridoi a volta, posti su file parallele che si incrociano con navate perpendicolari. Questo metodo di scavo, ci ha spiegato la guida, serviva a formare una scacchiera di pieni e di vuoti che anche con il massimo riempimento d’acqua non avrebbe creato problemi ai pilastri di sostegno. I pavimenti e le pareti sono rivestiti di coccio pesto, un materiale naturale (di riciclo, diremmo oggi) che rendeva impermeabile la vasca, mentre una serie di condotte in entrata e in uscita garantiva il corretto funzionamento idraulico.

Se pensate che stiamo parlando di popoli antichi, e che fino a quarant’anni fa l’acqua potabile proveniva da lì sotto, non possiamo non stupirci di quanto genio possedessero. Peccato solo che gli antichi romani siano considerati più all’estero che in Italia. Anche questo non smette di stupirmi. So che l’ho detto anche qualche paragrafo sopra, ma repetita iuvant.

La seconda cisterna, del Corridoio, è altrettanto interessante e si trova a poca distanza dalla prima. Qui la guida ci fa notare le differenze stilistiche e concettuali con la precedente, dovute essenzialmente alle modifiche di era borbonica compiute sulle pareti. Inoltre, mentre l’altra ha sempre conservato la sua funzione originaria, rimanendo attiva fino ai giorni nostri, questa nel tempo è diventata deposito di rifiuti e solo recentemente è stata “liberata dal confino” e restituita ai cittadini.

Ripartire

Risaliamo all’esterno e la luce del sole ci colpisce in faccia. E’ davvero ora di andare, il traghetto ha già acceso i motori. Saluto Ponza con un arrivederci, almeno spero. Conservo negli occhi e nella mente i colori pastello delle case che contrastano con il blu profondo del mare, le scogliere che la proteggono tutt’intorno, la luna, che sull’isola lunata viene tutte le notte a specchiarsi a metà, e quel mix di trasandatezza e bellezza che caratterizza la giovine Italia, che fiera della sua bellezza se ne fa un vanto e non lavora per conservarla.

A lei, Ponza, do appuntamento per una sortita estiva e a voi al prossimo Diario di bordo.

Informazioni pratiche

Come arrivare

Ponza può essere raggiunta con diversi mezzi di trasporto: – in aereo, gli aeroporti più vicini sono quelli di Roma e Napoli. Da qui, il trasferimento ai porti d’imbarco può avvenire con i treni regionali, fino a Formia e Anzio e da qui ai porti d’imbarco con taxi o a piedi percorrendo circa un chilometro; con il taxi, auto a noleggio o elicottero. In auto fino agli imbarchi di Formia (tutto l’anno), Terracina e Anzio nella stagione estiva. Sull’isola è vietata la circolazione alle automobili dei non residenti nei mesi estivi.

Dove dormire

Ho dormito al Piccolo Hotel Luisa, che vi consiglio se cercate una soluzione di base e comoda. Vi suggerisco comunque di prenotare per tempo, soprattutto nel periodo estivo, perché l’offerta di alloggi su un’isola microscopica è inevitabilmente limitata.

Ulteriori informazioni

Per ulteriori informazioni, visitate i siti della pro loco di Ponza  o www.visitponza.it. Oppure chiedete a me, sarò felice di aiutarvi per quanto possibile.

Dove il vento dell’est soffia ancora: secondo giorno a Sofia

Secondo giorno a Sofia, la capitale della Bulgaria. Due giorni intensissimi, in uno degli ultimi avamposti dell’Est che fu. Dopo il primo giorno di ambientamento, oggi è tempo di trottare. Vi racconto tutto, venite con me.

Il mercato delle donne e il Mercato centrale

DopoIMG_5800 il Sofia free tour di ieri, oggi ho un programma intenso. E’ domenica e fuori c’è un sole caldo e invitante. L’ideale per le prime tappe, tra l’altro entrambe attaccate all’albergo, il Zhenski Pazar Women’s Market o “Il mercato delle donne” e Central Market Hall (Tsentralni Hali) o Mercato centrale. Un giro anche veloce al mercato delle donne non dovete farvelo scappare, perché è uno di quei posti che non sembra essere stato minimamente toccato dal passare del tempo. Secondo me nell’800 era esattamente così come lo vediamo ora, con vecchietti che offrono mercanzie sul ciglio della strada e botteghe alimentari con prodotti di uso quotidiano. Non è un mercato per turisti, anzi, a parte me non ne ho visti altri in giro, anche perché oltre a qualche banchetto di frutta e verdura dal punto di vista dello shopping non è che offra molto. Eppure, penso che mi pentirò per sempre di non aver comprato delle ciotole di ceramica che il venditore voleva vendermi per pochi euro: “masterchef, masterchef”, probabilmente l’unica parola in inglese oltre ai prezzi che conosceva. Il mercato non è molto grande e alla fine mi sono ritrovata quasi per caso davanti all’entrata del mercato centrale. Che però ho trovato un po’ deludente. Forse, di mattina presto era anIMG_5810cora addormentato anche lui e sarebbe stato meglio visitarlo in un orario più centrale. O forse, avendo appena fato colazione, non c’era niente di mangereccio ad attrarmi particolarmente.

Monte Vitosha e la chiesa di Boyana

Pazienza, non volevo perdermi la gita fuori Sofia e ho soprasseduto. Direzione: Monte Vitosha e la chiesa di Boyana. Per gli appassionati d’arte è una trasferta imperdibile, considerato anche che si trova a non più di 10 km dal centro città. Quando arrivo è ancora presto e non c’è tanto movimento. All’arrivo, il tassista che mi ha accompagnato mi dice che abbiamo davanti la macchina del presidente della Bulgaria, che abita poco più in là, e che vorrebbe aspettarmi, ma io preferisco essere libera di rimanere sul monte quanto voglio senza pensieri. Faccio il biglietto e poi mi dirigo verso la chiesetta e una piccola porta chiusa. Non sono sicura che si entri da lì, ma d’altra parte non vedo altre possibilità nei paraggi. Chissà perché mentre aspetto mi vengono in mente i fratelli Grimm e la casa nel bosco. Per fortuna, dopo qualche minuto arrivano altri sparuti turisti e ci mettiamo in fila. Un custode apre la porta subito dopo e ci fa cenno di entrare. L’ambiente è microscopico: c’è una piccola anticamera, dove l’uomo ci fa segno di lasciare zaini, buste e qualsiasi bagaglio ingombrante e possiamo passare avanti. Nella sala principale, piccolissima, ci attende una ragazza, che nel tipico atteggiamento bulgaro rimane silenziosa e distante, ma disponibile a dare indicazioni su richiesta. Qui vi do un suggerimento: non abbiate paura di chiedere. Io l’ho sommersa di domande e ho avuto sempre soddisfazione. Anche perché senza chiedere dettagli mi sarebbero sfuggite la maggior parte delle particolarità. Sembrava quasi un disco, a domanda iniziava a rispondere a macchinetta. Poi silenzio. Domanda, macchinetta. Silenzio.

Vasiliy da Tarnovo

L’autore degli affreschi non è certo. Vengono attribuiti a un pittore bulgaro di epoca medievale di nome Vasiliy proveniente da Tarnovo, la vecchia capitale dell’impero bulgaro. La loro importanza consiste nella cura dei particolari e nel realismo delle forme. La prospettiva tridimensionale in affreschi del 1259, cioè pochi anni prima della nascita di Giotto, li ha fatti definire “Rinascimento bizantino”, accostandoli al Rinascimento vero e proprio. Anzi, dai bulgari Vasily viene considerato addirittura un precursore del rinascimento, con cui non poteva esserci stato alcun contatto, anche se ovviamente questa impostazione sembra più frutto del patriottismo che di ricerca storica. Comunque, rimane una testimonianza interessante, che l’Unesco ha inserito tra i patrimoni protetti dell’umanità e che per fortuna non è stata distrutta, come gli stessi bulgari volevano fare agli inizi del ‘900! Prima dell’uscita, anche il severo custode si ammorbidisce e vuole mostrarci qualche dipinto della sala d’attesa. E’ più gentile, ora che si è assicurato non abbiamo fatto danni. E’ ora di lasciare spazio ai turisti successivi, la visita dura in tutto non più di dieci minuti ma io mi ritengo soddisfatta. Al ritorno, decido di prendere l’autobus ma sbaglio direzione. L’autista, che approfitta della fermata per scendere e andare a riempire la bottiglietta d’acqua alla fontanella, mi risponde un secco “no!” quando gli chiedo se il suo autobus va verso il centro. Cambio carreggiata e vado dall’altra parte. Dopo dieci minuti passa l’autobus 64, semivuoto, che mi lascia in un parco dopo poche fermate.

Vitosha boulevard

Una passeggiata di circa 2 km in semi periferia e mi ritrovo all’inizio di Vitosha boulevard, nel giardino IMG_5813delle fontane. Acqua benedetta, dopo la passeggiata. E’ ormai ora di pranzo e la fame si fa sentire. Scelgo un locale internazionale nei pressi dove mangio un’insospettabilmente ottima tortilla messicana con panini al formaggio, riservando per la sera la prova della cucina bulgara. Nel pomeriggio ritorno nei due posti che mi avevano più colpito durante il Free Sofia tour: la Rotonda di San Giorgio e la cattedrale di Aleksandr Nevskij. La prima non mi colpisce particolarmente. All’esterno sembra monumentale, ma l’interno è scuro meno imponente e la cosa che mi è rimasta davvero impressa, a parte le figure dei ventidue profeti sotto la cupola, è lo spiritoso cartello affisso in tutte le lingue al portone d’entrata: “egregi ospiti, la visita del tempio è gratuita. Vi preghiamo di comprare gli oggetti del tempio, con questo riceverete la benedizione di Dio (grazie) e aiuterete la conservazione del patrimonio culturale. Grazie”. Dubito che l’intenzione fosse di essere spiritosi, ma l’effetto è esattamente questo!

La cattedrale di Aleksandr Nevskij 

Da lì mi dirigo direttamente alla cattedrale di Aleksandr Nevskij passando per il parco della Chiesa russa di San
IMG_5827Nicola, però m’imbatto casualmente in un mercatino di cimeli sovietici e antiquariato e una sosta è d’obbligo anche se alla fine non trovo niente che mi attiri davvero. Anche la cattedrale di Aleksandr Nevskij è più imponente vista dall’esterno, mentre all’interno è piuttosto scura, anche se in stile italiano decorato con alabastro e materiali pregiati. Il custode mi fa cenni esagerati per impedirmi di usare un telefono che comunque non avrei utilizzato. Ci mancherebbe altro, con tutti i cartelli che vietano foto, lo rassicuro sul fatto che non ho nessuna intenzione di trasgredire. Siamo partiti male, ma decido di rifarmi poco dopo. Le pareti sono coperte da dipinti e affreschi, la maggior parte dei quali raffiguranti santi bulgari e russi, nonché da icone che i fedeli utilizzano per il rituale ortodosso, ovvero un’invocazione seguita da un bacio sull’immagine, gesto che vedo fare a più persone. Sono convinta che quella su cui la maggior parte delle persone si soffermano sia quella di San Giorgio e torno all’attacco del custode per chiederglielo. La sua reazione è stata fantastica, travalicando ogni cultura e ogni popolo: prima mi ha guardato pensieroso, poi afflitto da evidente pena per un’eretica mi ha risposto “quello è Dio”. Ah, so sorry. Poi, evidentemente impietosito dall’empia, mi ha fatto cenno di seguirlo e mi ha portato di fronte a un dipinto d’angolo, molto più grande. “Quello è San Giorgio”, mi dice gentilissimo. Non c’è niente da fare, il carattere dei bulgari di Sofia è questo: prima scontrosi, poi disposti ad aiutarti in tutti i modi. Ricordatevelo, quando andrete a trovarli.

Il Teatro Nazionale Ivan Vazov e il mercato dei libri all’aperto di Piazza Slaveykov

IMG_5778Prima di cena ho ancora spazio per una sosta ai giardini municipali di fronte al Teatro Nazionale Ivan Vazov, uno degli edifici più belli della città secondo me. E’ qui che vedo come ai sofioti piace trascorrere il tempo libero quando il meteo lo permette, all’aperto, giocando a scacchi, con i tifosi di uno o dell’altro giocatore che si accaniscono come se fosse una partita di calcio, o improvvisando balli di gruppo in mezzo al parco con l’accompagnamento dei musicisti di strada. Al centro dei giardini ho anche trovato una vetrina di prestito libri che non potevo non fotografare. Meno male che erano tutti in cirillico, altrimenti avrei fatto la tessera. Al mercato dei libri all’aperto di Piazza Slaveykov, invece, non ho trovato purtroppo nulla che valesse la pena di comprare. Un giretto lo merita comunque, la piazza è completamente invasa dalle bancarelle e abbellita da panchine che simulano lo scaffale di una libreria e da una panchina, dove sedersi a fare due chiacchiere con le statue di bronzo di due scrittori bulgari, padre e figlio. C’è anche una libreria molto carina da segnalare, per chi ama il genere vintage inglese, la Elephant bookstore in Shishman 31, poco distante dal Palazzo di Giustizia.

Il Kavarma

IMG_5838

La giornata sta giungendo al termine, è ora di trovare una osteria bulgara e assaggiare i piatti tipici del posto. Sono fortunata, ne trovo una senza pretese a poca distanza dalla zona centrale di Sofia. La proprietaria mi offre una postazione che sicuramente riserva ai turisti, piena di cimeli e di vestiti tradizionali appesi alle pareti. Trovo l’allestimento un po’ kitsch, però apprezzo la cortesia. Il cibo è buono, anche se le porzioni abbondanti non mi consentono di provare troppi piatti. Scelgo il kavarma, un piatto unico piatto popolare della Bulgaria, che è in pratica uno spezzatino di maiale, agnello o pollo, con aggiunta di cipolla, funghi, peperoni, IMG_5794melanzane e formaggio, che mi hanno presentato in una ciotola di terracotta identica a quelle che purtroppo non ho comprato la mattina al mercato delle donne. Che peccato! Come dolce, ho preso uno yogurt bulgaro ai frutti di bosco che mi è piaciuto molto e anche facile da replicare a casa con yogurt greco misto a panna. Ad accompagnare il tutto, naturalmente la birra locale più famosa, la kamenitza. Avrei voluto assaggiare anche il vino, che dicono non sia affatto male, ma non c’è stato il tempo. Può essere un buon motivo per tornare, oltre alla mia ciotola non acquistata? Forse.

Intanto, è ora di andare via da Sofia. Saluto i bulgari e la loro capitale con сбогом (arrivederci)!

Leggi anche:

Dessert allo yogurt bulgaro con frutti di bosco

Il mio primo giorno a Sofia

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi