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Ekaterina Gordeeva: My Sergei, che destino crudele

A love story, quella tra Ekaterina Gordeeva e Sergei Grinkov. Oggi è il giorno della finale del pattinaggio di coppia alle olimpiadi invernali di Pechino e dalla mia libreria non potevo non tirare fuori uno di quei libri che si incolla alle mani e che magicamente dallo scaffale finisce nella tua borsa. L’ho trovato a Budapest ed è finito nei miei, di scaffali. Ora vi racconto la storia di Ekaterina e Sergei. La storia meravigliosa di due grandi atleti che si sono innamorati. La storia crudele di un grande amore finito troppo presto.

Trama

La medaglia d’oro olimpica Ekaterina Gordeeva racconta la sua vita con il suo partner di lunga data e amato marito, Sergei Grinkov, dal loro primo incontro ai campionati mondiali di pattinaggio di coppia, dalla loro storia d’amore, culminata in un matrimonio da favola, al fatale attacco di cuore che ha portato via Sergei.

Un incontro combinato

Si sono incontrati per la prima volta quando lei aveva 11 anni e lui 15. Non esattamente un incontro del destino. Piuttosto, un incontro combinato. Secondo i rispettivi tecnici, quei due erano fatti per pattinare insieme sul ghiaccio e fare grandi cose. I tecnici dell’Urss raramente sbagliavano e anche con loro ci avevano visto giusto. A Calgary, nel 1988, è subito oro, anche se sono entrambi giovanissimi. La nascita della figlia Daria, nel 1991, non consente loro di partecipare ad Albertville 1992, ma a Lillehammer 1994 ci sono e vincono di nuovo. Sergei punta a Nagano nel 1998 e al terzo oro. Ekaterina pensa di non reggere la pressione di un’altra olimpiade, ma vede la speranza nei suoi occhi e non riesce a dirgli no. Stavolta è proprio il destino a decidere. Un attacco di cuore porta via Sergei, Seriozha con il nomignolo affettuoso con cui Ekaterina lo chiama, in un attimo, mentre sta facendo quello che amano di più, pattinare. Questa coppia magnifica non c’è più. Ed Ekaterina deve imparare a sorridere di nuovo: per Daria, che le sorride sempre. Daria, che ha 4 anni anni ed è la fotocopia del padre. Come lo è oggi, da adulta.

Guardate quanto sono emozionanti in questa finale olimpica. E quanto è emozionante il tributo a Sergei, dove Ekaterina danza da sola, con una presenza al suo fianco che tutti possiamo vedere.

Una fiaba dove l’amore regna

Prima siamo stati partner di pattinaggio. Poi amici. Poi amici stretti. Poi innamorati. Poi marito e moglie. Poi genitori. La loro è una favola, una favola in cui l’amore regna incontrastato. Fino a quel maledetto giorno, il 20 novembre 1995, quando Sergei si sente male sulla pista da pattinaggio durante un allenamento. Trasportato in ospedale, muore poco dopo, senza riprendere conoscenza. “Sembrava dormisse, era ancora caldo. Aveva ancora i pattini ai piedi. Glieli ho tolti io, E poi ho iniziato a parlargli, così, perché la nostra allenatrice mi ha detto che poteva ancora sentirmi”.

Il secondo tempo di Ekaterina Gordeeva

Dopo il funerale di Sergei, inizia la seconda vita di Ekaterina Gordeeva. E la sua vita ricomincia proprio durante un’esibizione per Sergei, dove lei danza sulle note della quinta sinfonia di Mahler, cercando con le braccia qualcuno che non c’è. O forse sì, sicuramente è lì con lei. Gli anni sono passati. C’è stato un altro matrimonio, un’altra figlia, che si chiama come me, Liza. Un divorzio e un terzo marito. Chissà se Ekaterina Gordeeva ha più ritrovato quella felicità assoluta. Nel libro dice di essere sicura di no, che quella felicità non sarebbe tornata mai più. E’ impossibile, sarebbe come cercare di trovare la cometa che è passata nel cielo la scorsa primavera e che passa sulla Terra solo una volta ogni diciassettemila anni. 

E mentre guardiamo la finale delle olimpiadi, sbirciamo il cielo. Magari potrebbe passare una cometa sopra Pechino. E quella cometa potrebbe essere Sergei, che continua a danzare per noi in mezzo alle stelle.

p.s. in foto, la coppia cinese in odore di medaglia d’oro. Buona visione! 😃

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L’Open vinto da Andre Agassi, aspettando Berrettini

E mentre aspettiamo con una certa trepidazione la finale di domani a Wimbledon di Matteo Berrettini, mai nessun italiano come lui, il pensiero vola come Pindaro a un campione del passato. Uno che si è rifiutato di giocare a Wimbledon perché non accettava le severissime regole sull’abbigliamento. Uno che in carriera ha vinto tutto, pur odiando lo sport che era stato scelto per lui dall’altrettanto severissimo padre. Ladies and gentlemen, His Majesty Andre Agassi.

Trama

Costretto ad allenarsi sin da quando aveva quattro anni da un padre dispotico ma determinato a farne un campione a qualunque costo, Andre Agassi cresce con un sentimento fortissimo: l’odio smisurato per il tennis. Contemporaneamente però prende piede in lui anche la consapevolezza di possedere un talento eccezionale. Ed è proprio in bilico tra una pulsione verso l’autodistruzione e la ricerca della perfezione che si svolgerà la sua incredibile carriera sportiva. Con i capelli ossigenati, l’orecchino e una tenuta più da musicista punk che da tennista, Agassi ha sconvolto il mondo del tennis, raggiungendo una serie di successi mai vista prima.

Botta e risposta tra padre e figlio

L’avevo già detto quando ho commentato il libro del padre di Agassi, Open e Indoor sembrano una specie di botta e risposta tra padre e figlio. L’autobiografia del figlio è stata, ed è tuttora, un grande successo di vendite e di pubblico. Il perché è da rintracciare prima di tutto nella capacità del giornalista J. R. Moehringer, non a caso premio Pulitzer, di cogliere gli aspetti essenziali del racconto di Andre Agassi. Poi, soprattutto, nella capacità di Andre di aprirsi completamente, di raccontare le ombre dietro le luci dello sport professionistico, la fatica, l’odio che sale per la fatica stessa, le sconfitte e i rimpianti. Oltreché, naturalmente, le cose belle dello sport e della vita. Molti hanno interpretato Open come un j’accuse nei confronti del padre, Mike Agassi, per averlo costretto a giocare a tennis fin dalla più tenera età, ma io non credo che fosse questo l’intento.

Le debolezze di un uomo

Penso, piuttosto, che Andre Agassi sia sempre stato sincero, quando giocava era un aspetto che qualsiasi detrattore gli avrebbe riconosciuto. Sincero quasi sempre, tranne quando ha tentato di nascondere la calvizie incipiente. Debolezza di uomo, quella. Che ci fa sentire ancora più vicini al grande campione. Come mi ha divertito leggere dei suoi primi approcci con la dea vivente del tennis, Steffi Graf. Cioè colei che diventerà sua moglie e la madre dei suoi figli.

A bordo campo inizia a a radunarsi una piccola folla che ci fissa a bocca aperta. Qualche fotografo scatta istantanee. Mi chiedo perché. E’ la rarità di un uomo e una donna che si allenano? O è perché sono catatonico e sbaglio una palla sì e due no? Da lontano si ha l’impressione che Steffi stia dando una lezione a un ebete a torso nudo.

Il lato oscuro della forza

La parte più interessante, per gli sportivi e per chi non lo è, rimane quella in cui descrive il suo turbolento rapporto con la sua professione. Sì, perché a certi livelli lo sport smette di divertire, di appassionare, di far stare bene e diventa una lunga, lunghissima nel suo caso, battaglia contro la fatica, i dolori, la noia e la difficoltà di essere sempre i primi, sempre i migliori, sempre al meglio, sempre sorridente. Andre Agassi ha il grande merito di aver aperto (Open) un varco verso il lato oscuro della forza. Non è tutto oro quello che luccica, il grande circo può distruggere e se Agassi ne è uscito vincente un po’ è merito suo, un po’ delle persone che lo hanno accompagnato, un po’ diciamolo, è che ci vuole tanta, tanta fortuna.

Dico ai tennisti: sentirete un sacco di applausi in vita vostra, ragazzi, ma nessuno sarà tanto importante per voi quanto l’applauso…dei colleghi. Spero che ciascuno di voi lo senta, alla fine. 

Intanto noi domani, comunque vada, applaudiremo Matteo Berrettini. Non sarà importante come l’applauso dei colleghi, ma per quello c’è tempo.

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Indoor: la nostra storia, Dominic Cobello con Mike Agassi

Mike Agassi. Per tutti i fan del tennista Andre Agassi Open è stata una lettura imperdibile. Ma anche Indoor, la replica per le rime del padre Mike, è un degno completamento di un quadretto familiare niente male.

Trama

“Avevo letto da qualche parte che il primo muscolo che un bambino sviluppa è quello che gli permette di puntare lo sguardo su qualcosa. Prima che Andre uscisse dalla maternità, progettai un attrezzo speciale per la sua culla: una palla da tennis appesa a una racchetta di legno. Ogni volta che qualcuno passava vicino alla culla, toccava la racchetta. E ogni volta gli occhi di Andre seguivano la palla. La mia teoria era che per lui sarebbe divenuto naturale, crescendo, vedere una palla da tennis che gli veniva incontro.” Per tutti coloro che hanno letto Open, Mike Agassi è il padre padrone ossessionato dall’idea di fare del figlio Andre un campione di tennis a tutti i costi, anche a quello di rubargli l’infanzia. È colui che ha costruito il terribile drago sparapalle che il figlio doveva affrontare ogni giorno per ore invece di giocare con i compagni. Insomma, quasi un mostro. Ma è proprio così? Questa è la verità di Mike.

J’accuse

Open di Andre Agassi è stato un grande successo di vendite e di pubblico. Il perché, secondo me, è da rintracciare intanto nella qualità della scrittura del giornalista J. R. Moehringer, non a caso premio Pulitzer. Poi, soprattutto, nella capacità di Andre di aprirsi completamente, di raccontare le ombre dietro le luci dello sport professionistico, la fatica, l’odio che sale per la fatica stessa, le sconfitte e i rimpianti. Oltreché, naturalmente, le cose belle dello sport e della vita. Molti hanno interpretato Open come un j’accuse nei confronti del padre, Mike Agassi, per averlo costretto a giocare a tennis fin dalla più tenera età. 

Padre padrone 

Di padri padroni è pieno il mondo dello sport e non solo. Un figlio di successo soddisfa l’ego di qualsiasi genitore, indipendentemente dal settore in cui il pargolo si mostra brillante e dotato. A quale prezzo però? Spesso calpestando i diritti del figlio a una vita normale, come quella di tutti gli altri. Ecco che allora Mike Agassi non ci sta, vuole dire la sua. E dice anche di non aver letto il libro del figlio, bugia!, ma che sicuramente tutto quello che scrive è vero. Dice anche che ha esagerato con i primi figli, causando l’abbandono precoce del tennis, e di essersi regolato meglio con Andre, la sua ultima carta da giocare. Pensa poveretti gli altri tre!

La determinazione è tutto

Ma perché Agassi senior è così fissato con il tennis? Lui, un armeno nato e cresciuto a Teheran in grande povertà, ricevette da un soldato americano una racchetta e fu subito grande amore. Anche se poi lui divenne un pugile di nome Emanoul Aghasi, così si chiamava prima di inglesizzare il nome, e partecipò anche alle olimpiadi. Una volta emigrato in America, il suo scopo nella vita è stato raggiungere un tenore di vita decoroso e  fare di uno dei suoi quattro figli un grande tennista. Ci è riuscito, perché secondo Mike la determinazione nella vita è tutto. Con un umorismo di fondo forse non voluto, pagina dopo pagina impariamo a voler bene a questo vecchietto un po’ ruffiano, un po’ bugiardo, un po’ tanto determinato a ottenere tutto quello che vuole nella vita.

Dipende dal risultato

Per qualsiasi fan di Andre Agassi, questa autobiografia è interessante. Racconta retroscena inediti visti dalla parte del papà, comprese le storie d’amore del campione, e ci fa scoprire quanto un’intera famiglia possa ruotare attorno a un solo sportivo. Che se riesce nella professione, diciamocelo, garantirà benessere a tutti. E’ sufficiente per giustificare la pressione eccessiva che i genitori mettono addosso ai figli? Come dico sempre io, dipende dal risultato. Perché se va bene, e vissero tutti felici e contenti. Come gli Agassi, tutti riuniti in una magione di Las Vegas con indirizzo Agassi boulevard.  Se va male, sono guai.

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Ho smesso di piangere – Veronica Pivetti

Ho letto contemporaneamente Ho smesso di piangere di Veronica Pivetti e Amiche di salvataggio di Alessandra Appiano. Certo, quest’ultimo è un romanzo e quella dell’attrice è una storia vera, però a volte i romanzi finiscono bene e le storie vere no. Stavolta, avevo bisogno di un lieto fine “vero” e l’ho trovato.

La trama

Il problema vero della depressione è che non la puoi raccontare, non la puoi descrivere. È invisibile. E non è uguale per tutti. Ma per tutti è un male profondo e assoluto. E va affrontata, perché tanto non si scappa. Anche per questo Veronica Pivetti ha deciso di condividere il suo momento buio. ”Lei è malata, la sua tiroide non funziona più”: questo si sente dire nel 2002. La sua tiroide ha cominciato a dare i numeri, traghettandola verso una forte depressione, complici alcuni farmaci sbagliati che le vengono prescritti. Così inizia la sua odissea. Alcuni dottori l’hanno salvata, altri massacrata, alcuni le hanno ridato la vita, altri gliel’hanno tolta. E finalmente, nel 2008, Veronica ha incominciato a rivedere la luce e a uscire da questo micidiale periodo nero.

Una malattia subdola e oscura

Sono stati sei anni infami, anni nei quali mi sono detta continuamente che era inutile vivere così. Il tempo triste sembra sempre tempo perso. Anni difficilissimi che, però, non sono passati senza lasciare un segno. Una volta ero perfettamente funzionante, ero nuova di trinca. E credevo che fosse quella la verità. Ora sono un po’ rattoppata, ho un’anima patchwork e una psiche in divenire. Ed è questa la verità. Ma va bene così, perché la vita si fa con quello che c’è, non con quello che vorremmo”.

Se davvero il libro è stato scritto da lei, Veronica Pivetti scrive davvero bene. Se ha utilizzato un ghostwriter, questo scrittore fantasma è riuscito nella titanica impresa di portare a casa un testo brillante, scorrevole, chiaro nelle sue premesse e nello svolgimento dei fatti. Perché l’attrice racconta con semplicità cosa le è accaduto in uno dei momenti più duri, forse il più duro, della sua vita. Il che per una che di mestiere fa ridere gli spettatori, non dev’essere stato granché divertente. Intendiamoci, scivolare nella depressione non è divertente per nessuno, né per chi la vive, né per chi vorrebbe stare accanto a un malato e non sa cosa fare. Lei è riuscita a far capire anche a me, che non ho mai conosciuto nessuno che ne soffrisse, cos’è la depressione. Cosa succede nella testa di una donna che apparentemente ha tutto: successo, carriera, soldi, pure un matrimonio anche se fallito, famiglia unita, cari amici e animali che ama pazzamente. E allora? Cosa scatta? Un click e tutto è finito, perduto, annientato. Scivolare nell’abisso è facile, cercare di risalire è tutta un’altra storia.

Particolari improbabili…

Peccato che però il racconto si perda su alcuni dettagli che francamente suonano inverosimili. Una cena di pesce il giorno prima di un intervento, forse è possibile ma ho dei dubbi, il professore che continua a chiamare sul cellulare e lei che non risponde, anche qui possibile, il cliente famoso va coccolato, però solitamente se il paziente non si fa più sentire il medico ben presto se ne fa una ragione. In più, il racconto di un ritorno in autostrada che appare inventato per quanto assurdo (non facevi prima a farla nei campi?), un rientro a casa con il piede di porco che neanche se lo vedessi coi miei occhi penserei che sia vero, per chiudere con un finale semplicistico a dir poco. Tutto questo casino, e poi? Risolve magicamente l’amica? Mah.

…e un’unica, grande verità

A parte questi dettagli sopra le righe, il libro è utile non per approfondire il tema della depressione in sé, chi cerca un aiuto psicologico ne rimarrebbe deluso, ma per avere conferma che la medicina non è una scienza esatta, come spesso speriamo e crediamo, e che tutti siamo umani, troppo umani, anche i medici. E che persino le stelle hanno come noi problemi, sogni, speranze, illusioni. A volte, cadono e si rialzano, proprio come noi. A volte non ce la fanno, come non ce la facciamo noi. La verità, come diceva Adenauer, è che “viviamo tutti sotto lo stesso cielo, ma non tutti abbiamo il medesimo orizzonte”.

Listen without prejudice. Da George Michael a Goring-on-Thames

Daphne Du Maurier, il lato oscuro di una scrittrice di successo

La metà di niente – Catherine Dunne

Amiche di salvataggio – Alessandra Appiano

Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino – Christiane F.

Il libro autobiografico intitolato Wir Kinder vom Bahnhof Zoo (titolo italiano Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino) descrive la discesa all’inferno di Christiane F., dal trasloco a sei anni dalla campagna di Amburgo al quartiere-dormitorio berlinese di Gropiusstadt, l’infanzia difficile, la tossicodipendenza e la prostituzione iniziate fin dalla preadolescenza. Questo drammatico saggio-denuncia destò molto scalpore in tutto il mondo e fu tradotto in diverse lingue, diventando un controverso simbolo per la generazione che più di tutte subì le conseguenze dell’abuso di stupefacenti. Al libro è seguito nel 1981 il film.

Ritratto impietoso

Ne esce un ritratto della società berlinese degli anni ’70 impietoso. Famiglie assenti, o talmente deboli da risultare impotenti, scuola indifferente, polizia tollerante ma esclusivamente punitiva nei confronti di ragazzini forse ancora recuperabili, centri giovanili religiosi inconsapevolmente (?) ricettacolo di pusher, medici e psicologi che curano i sintomi, ma non le cause. In mezzo, Christiane in cerca di un’identità che erroneamente trova nell’uniformarsi a un gruppo, per sembrare “paracula”, “tosta”, “giusta”. Senza chiedersi perché, senza domandarsi per chi, senza trovare la forza di chiedere aiuto. O, piuttosto, cercandolo nella madre, che non capisce, non vuole vedere, non riconosce nel suo angelo quel demonio che la spinge sempre più in basso, fino a una morte certa. Quella morte che coglie senza sorpresa Axel, Stella, Babsi, e tanti ragazzi senza volto come loro, che una mattina diventano un trafiletto del giornale. Quella morte in solitudine che li aspetta alla fermata della stazione del giardino zoologico, la Banhof zoo.

Soli

Soli, come i tossicodipendenti non possono che essere, perché i loro rapporti sociali si basano esclusivamente sull’egoismo e la necessità di rimediare la dose quotidiana. Stop. Non c’è spazio per altro. Forse è proprio questo l’aspetto più sconvolgente del saggio di Christiane F., i giorni che si susseguono uguali, uno dopo l’altro, in un meccanismo che sembra poter essere interrotto solo dal viaggio finale, nella sua attesa. Quando, per salvarla, la madre la mette su un aereo, lei prova orrore nei confronti dei parenti che si divertono al centro commerciale, tutti uguali, tutti senza valori veri. Christiane rifiuta l’omologazione, eppure vuole omologarsi a centinaia di altri tossici senza nome. E’ in questo eterno conflitto con se stessa che vedo il nodo del libro. Christiane non si accetta, non ha abbastanza personalità per farlo, e trasforma la sua debolezza in un’arma. “Guardatemi, sono un’adolescente perduta. Sono il risultato vivente dei vostri errori”.

Da leggere

Terribile, sconvolgente, eppure da leggere, assolutamente. L’avevo già affrontato da adolescente e mi aveva scosso profondamente. L’ho riletto oggi, da adulta, e finalmente vedo Christiane F., e gli altri personaggi, per quello che realmente sono, niente di più. Non è un caso, forse, che oggi l’unico a essersi veramente tirato fuori dai guai è il dolce Detlef. Christiane Vera Felscherinow, invece, è rimasta fedele a se stessa, dalla Banhof zoo, in fondo, non è mai veramente uscita. Ma di questo parlerò nella recensione al libro che ha pubblicato due anni fa, “La mia seconda vita”.

Noi ci immaginiamo di comprarci la cava di calce quando non verrà più sfruttata. E lì sotto ci vogliamo costruire delle case di legno con un enorme giardino pieno di animali e con tutto quello di cui uno ha bisogno per vivere. L’unica strada che c’è per arrivare alla cava la vogliamo chiudere. Non avremmo comunque più alcuna voglia di ritornare su.”

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Segnalo questo interessante documentario di quasi un’ora sulla storia di Christiane F., con interviste, spezzoni dell’epoca e molti temi su cui riflettere.

Ich bin Berliner: il mio viaggio a Berlino