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L’arte liberata 1937-1947 alle Scuderie del Quirinale

Sempre a proposito di arte salvata, stavolta dalla guerra e non dalla malavita, vi segnalo quest’altra interessante mostra per i vostri giri romani natalizi. In realtà la mostra Arte liberata rimarrà alle Scuderie del Quirinale fino al 10 aprile 2023, quindi c’è tutto il tempo per visitarla. Basta non entrare all’ultimo orario! Ora vi spiego perché.

Capolavori salvati dalla guerra

La mostra è aperta dal 16 dicembre alle Scuderie del Quirinale. E’ organizzata dalle stesse Scuderie in collaborazione con la Galleria Nazionale delle Marche, l’ICCD – Istituto Centrale per il catalogo e la Documentazione e l’Archivio Luce – Cinecittà. Troverete al suo interno una selezione di oltre cento capolavori salvati durante la Seconda Guerra Mondiale, oltre che un ampio panorama documentario, fotografico e sonoro – riuniti grazie alla collaborazione di ben quaranta musei e istituti – per un racconto avvincente ed emozionante di un momento drammatico per l’Italia.

trittico jpeg

Una storia semisconosciuta 

La mostra ricompone la trama di un intreccio con molti fili: alcuni sono stati già raccontati, altri sono stati dimenticati e vengono riportati alla luce proprio in questa occasione; tutti costituiscono tasselli fondamentali per raccontare una storia complessa e semisconosciuta, come tante altre che riguardano persone comuni. E’ proprio nei momenti drammatici che si vede la differenza: queste donne e questi uomini hanno saputo interpretare la propria professione all’insegna di un interesse comune, coscienti dell’universalità del patrimonio da salvare. Il filo conduttore dell’esposizione, infatti, è l’azione lungimirante di tanti soprintendenti e funzionari dell’Amministrazione delle Belle Arti – spesso messi forzatamente a riposo dopo aver rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò – che, coadiuvati da storici dell’arte e rappresentanti delle gerarchie vaticane, senza armi e con mezzi limitati, si sono fatti carico di un’azione coraggiosa, salvaguardando il patrimonio artistico-culturale, a volte a rischio della loro stessa vita.

quirinale tondo jpeg

1937-1947

Una mostra che fa il paio con quella che vi ho già presentato sull’arte salvata dalla ricettazione. Oggi come allora, con l’esigenza di salvare l’unica cosa che ci unisce davvero: l’arte. Alle Scuderie del Quirinale ci sono pezzi molto belli. Quello che vi consiglio è di non andare nell’ultimo orario di entrata disponibile. Le opere esposte sono più di cento e vale la pena soffermarsi sui pannelli esplicativi per comprendere il contesto in cui queste opere sono state messe in sicurezza. E’ una mostra da vivere con calma. La selezione delle opere, infatti, è stata fatta su una rigorosa indagine d’archivio che parte dagli inventari, dalle liste stilate dai direttori e dai soprintendenti dell’epoca, dai loro diari e dalle fotografie storiche che rappresentavano questi lavori. Apre il 1937, con il Discobolo, e chiude il 1947, con la Danae di Tiziano. In mezzo c’è la guerra. 

discobolo quirinale arte salvata 1 jpeg tiziano quirinale arte salvata 2

I libri ricoverati a Minturno

A parte Alessandro Manzoni ritratto da Francesco Hayez, gli amanti dei libri troveranno pane per i loro denti. Vi racconto la storia dei libri ricoverati a Minturno. Nel 1943, 158 casse di libri della Biblioteca universitaria di Napoli furono nascoste nel Convento dei frati minori a Minturno. Nel 1944 parte delle casse furono sepolte dalle macerie. Un telegrafista americano, Irving Tross, prelevò otto volumi dalle casse e li tenne come ricordo di guerra. Nel 2013, ormai 96enne, decise di restituirli. E’ morto pochi giorni dopo la cerimonia di restituzione.

libri ricoverati jpeg

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Il Museo dell’arte salvata

Museo dell’Arte Salvata, chicca per un Natale romano

Il Museo dell’Arte Salvata è una chicca che vi lascio per i vostri giri romani natalizi. L’offerta museale a Roma certo non manca, ma, come dire, si concentra spesso sempre sui soliti posti. Il tempo è  poco e allora vincono per definizione i pezzi più pregiati. Alt! Che dico? Pezzi pregiati? E cosa c’è di più pregiato delle Terme di Diocleziano? Direte voi, che c’entrano le Terme di Diocleziano con il Museo dell’Arte Salvata? Ora vi racconto.

Parto dalle Terme di Diocleziano

Nessun romano che si rispetti può evitare di visitare questo monumento eccezionale almeno una volta nella vita. Le Terme di Diocleziano, infatti, sono un complesso monumentale unico al mondo per dimensioni e stato di conservazione. Un’opera incredibile sotto tutti i punti di vista. Pensate che ci sono voluti solo otto anni per costruirle, tra il 298 e il 306 d.C. In effetti si chiamano di Diocleziano, ma non fu lui a volerle. L’estensione è altrettanto stupefacente: si estendevano su una superficie di ben 13 ettari, nella zona compresa tra i colli Viminale e Quirinale. Il complesso poteva contenere fino a 3000 persone contemporaneamente ed era strutturato secondo lo schema consueto delle grandi terme imperiali, con le sale principali del percorso termale distribuite lungo un asse centrale. Dal calidarium, la sala calda riscaldata artificialmente con un complesso sistema di camere d’aria  sotto i pavimenti e intorno alle pareti, si accedeva al tepidarium, con temperatura intermedia, e quindi al frigidarium, l’ampia sala per i bagni freddi. Il frigidarium oggi è la Basilica di S. Maria degli Angeli. Ma non finisce qui: c’erano la natatioun’enorme piscina scoperta di 4000 metri quadrati impreziosita da una maestosa facciata monumentale, due grandi palestre disposte simmetricamente ai lati dell’edificio centrale e una serie di aule con diverse funzioni. I romani sapevano proprio vivere!

Piazza Esedra

Oggi di tutto questo rimane solo una piccola parte, ma grazie a un plastico all’interno del Museo, è possibile immaginare come doveva essere all’epoca. Vi basti pensare che il colonnato semicircolare dell’attuale piazza della Repubblica, opera di fine Ottocento dell’architetto Gaetano Koch, ricalca la grande esedra delle terme romane di Diocleziano. Infatti, fino a qualche anno fa, la piazza si chiamava proprio Piazza Esedra e così è ancora conosciuta dai romani. 

E qui veniamo al Museo dell’Arte Salvata 

Vi ho detto sopra che una serie di ampie aule con diverse funzioni. Tra queste, c’era l’Aula Ottagona, anche nota come Planetario perché la sua cupola a ombrello venne utilizzata nel 1900 per riprodurre la volta celeste. Devo ringraziare la signora della biglietteria che me l’ha segnalata. L’edificio è distaccato dal museo principale, bisogna uscire (il museo è a lato della stazione Termini) e rientrare sulla piazza, dopo aver superato la Basilica di S. Maria degli Angeli. Forse, senza le sue indicazioni mi sarebbe sfuggita. Invece, è molto interessante: l’Aula Ottagona è da pochissimo diventata Museo dell’Arte Salvata, uno spazio espositivo in cui le opere tratte in salvo da trafugamenti e dispersioni vengono custodite e presentate al pubblico, prima di fare ritorno alle loro sedi originarie. Qui vengono raccontate le storie dei ritrovamenti, dei salvataggi, delle restituzioni o delle indagini effettuate. Peccato solo che siano conservati in teca. Non si dovrebbe dire e neanche pensare, ma a voi posso confidarlo: ci sono manufatti così belli esteticamente, che quasi quasi posso capire i trafugatori. Vi assicuro che non stonerebbero neanche un po’ in una casa moderna come oggetti di uso quotidiano! Cosa che all’epoca della creazione erano. Perché non ricreare un ambiente in cui gli oggetti “vivevano”? La butto lì, l’allestimento sembrerebbe meno “freddo”.

Orfeo e le Sirene 

Vi consiglio di finire il giro proprio qui dentro, al Museo dell’Arte Salvata, senza accorciare. Credo che per Natale potrete ancora trovare un’opera arrivata da poco, il trittico Orfeo e le Sirene. Le tre figure in terracotta erano state portate alla luce da scavi illeciti effettuati in Puglia negli anni Settanta, finendo poi al Getty Museum di Los Angeles. Sono state restituite all’Italia e da settembre ospitate al Museo dell’Arte Salvata. Le tre opere, gruppo magnogreco del IV secolo a.C., raffigurano l’episodio in cui le sirene cercano di ammaliare con il proprio canto gli argonauti. Ma Orfeo, con il suono della sua cetra, “vince la voce delle fanciulle” e salva i compagni. L’opera dovrebbe poi tornare nella sua sede originaria, in Puglia, al MArTa – Museo archeologico di Taranto.

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Bath e il gossip degli antichi romani alle terme

Andrea Frediani e gli Orsini, i lupi di Roma

Andrea Frediani è un autore prolifico,  laureato in Storia medievale. E proprio nella Roma medievale ci porta con I lupi di Roma, storia romanzata presentata al premio Strega 2021. Lavoro con cui lancia una sfida al lettore: convincere la gente che la storia è appassionante, puntando a mediare tra la ricostruzione accurata e il ritmo incalzante. Come dice lui stesso: “spero di aver realizzato un’opera avvincente e, allo stesso tempo, istruttiva, un binomio che dovrebbe essere l’essenza della divulgazione storica“. Io come lettrice ho raccolto la sfida. Lui, come autore, sarà riuscito nel suo obiettivo? Ora vi racconto. 

Trama

Nel 1277, una feroce lotta per il po­tere si scatena in occasione del con­clave. Dopo sei mesi di sede vacante, la famiglia Orsini riesce a far eleg­gere un proprio esponente. Il nuovo pontefice, Niccolò III, si propone di arginare lo strapotere di Carlo D’An­giò, re francese di Napoli e senatore di Roma, ma mira anche a consoli­dare le fortune della famiglia. In bre­ve gli Orsini assumono il controllo di Roma, di Viterbo e del collegio cardinalizio. Tuttavia le ambizioni del papa e di suo cugino, il cardina­le Matteo Rubeo, obbligano alcuni membri della famiglia, come Orso, podestà di Viterbo, e Perna, spinta da un amore proibito, a sacrificare i loro stessi sentimenti. Ma l’ascesa della dinastia viene interrotta da un evento imprevedibile, che esporrà gli Orsini alla vendetta dei loro tanti nemici. In cerca di riscatto, gli Orsini scopriran­no che farsi campioni degli ideali di libertà può essere un obiettivo più gratificante del dominio. Da Bolo­gna a Palermo, passando per Firenze, Viterbo e Roma, si faranno quindi protagonisti delle lotte tra guelfi e ghibellini, per le autonomie comunali e dei Vespri siciliani, imprimendo la loro mano sul ricco affresco dell’Italia tardomedievale. Questa è una storia di potere, di fede, di amore e di san­gue. Questa è la storia della famiglia Orsini, i Lupi di Roma.

I lupi…

L’ autore di questo romanzo, Andrea Frediani, ci porta in una Roma che per lunghi periodi è stata soggetta a lotte intestine per la conquista del potere. Avvenimenti di cui il popolo avrebbe fatto volentieri a meno, visto le sofferenze che ha dovuto subire, ma questo è un altro discorso. La storia non si cambia, anche se qui viene un po’ romanzata, per ammissione dello stesso autore. In ogni caso, Andrea Frediani ben descrive le faide tra le famiglie patrizie romane, nonché le alleanze con il clero e le potenze straniere. Quando veniva acquisita una posizione dominante da una fazione, per le altre erano dolori! Questo aspetto, il romanzo lo spiega perfettamente. L’autore confeziona una buona storia, senza lasciare pause inutili.

…e le iene. 

Al contrario, lancia messaggi su cui riflettere. Soprattutto sui trascorsi della chiesa, che perdendo il potere temporale, è fortunatamente tornata ai dettami cristiani. Devo dire, però, che forse il titolo di questo libro non è quello giusto. Probabilmente, sarebbe stato meglio “Le iene di Roma“, perché in effetti i lupi uccidono la preda e la divorano.

Le iene, invece, la divorano quando è ancora viva.

Quindi, per rispondere alla domanda, Andrea Frediani è riuscito nel suo intento? Direi proprio di sì.

E a voi? Piacciono i libri romanzati sull’antica Roma? Quali mi consigliate di leggere?

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Romancè segreta: Farnesina e Monte Mario

Pensate che l’unico buco della serratura da cui spiare Roma sia sull’Aventino? Inauguro oggi la nuova rubrica Romancè segreta per romancèrs curiosi. Questo è il primo contributo: due sentieri in piena città, per farvi scoprire o riscoprire la capitale da una prospettiva diversa. Soprattutto perché tra illusioni ottiche e uditive vedrete Roma come non l’avete mai vista! Quindi, allacciamo le scarpe e partiamo. Oggi andiamo alla scoperta di Farnesina e Monte Mario, due trafficatissimi colli della parte nord di Roma, conosciuti più per la presenza del Ministero degli Esteri, stadio e osservatorio astronomico che per l’aspetto naturalistico e storico. In realtà, in passato erano un crocevia molto frequentato e anche ora, inerpicandosi all’interno, è possibile quasi sentire i passi degli antenati. Che non sarebbero contentissimi di come li gestiamo, ma questo ve lo racconto all’interno.

Sentiero Colli della Farnesina 

Gli ingressi sono due: si può entrare da via dei Colli della Farnesina, come ho fatto io,  o da via dei Casali di Santo Spirito, accanto al cimitero militare francese. Il percorso è ad anello, quindi sostanzialmente non cambia nulla, dipende solo da quale giro preferite fare. Entrando da via dei Colli della Farnesina, il primo pezzo è in salita e vi consiglio di fare attenzione. Il parco, infatti, è ciclabile con mountain bike e la strada è stretta, quindi è facile incontrare dei pazzi lanciati a tutta birra che non prendono in considerazione gente che sale a piedi. C’è da dire che il parco non è frequentatissimo, almeno in determinati orari, quindi è probabile che la maggior parte delle volte i ciclisti riescano a fare i loro allenamenti senza incontrare anima viva. E anche che le guide dicono di fare il giro in senso orario, ma io non le ho lette e ovviamente l’ho fatto in senso antiorario 😉 

Cimitero militare dei Francesi

Orario o antiorario che sia, mi sono ritrovata dentro un bosco, che finisce in via dei Casali di Santo Spirito, davanti al Cimitero militare dei Francesi. Il cimitero era chiuso, ma anche da fuori è possibile avere una prospettiva del luogo in cui riposano 1888 militari deceduti tra il 1943 e il 1944 in guerra. Un altro monumento dedicato ai soldati francesi caduti in battaglia, stavolta contro la Repubblica Romana del 1849, si trova al Gianicolo.

Lo Stadio Olimpico

Accanto al cimitero, parte il secondo pezzo di sentiero, quello che porta a una specie di terrazzo panoramico, allestito con panchine spartane, presumo dai frequentatori, essenzialmente padroni dei cani che qui circolano liberamente. Da qui, il panorama comprende lo Stadio Olimpico, il Foro italico e il Tevere dal centro alla sinistra e Monte Mario con Villa Madama a destra. Qui è fantastica l’illusione ottica, perché Stadio e Foro Italico sembrano vicinissimi e molto grandi, quando in realtà sono abbastanza distanti! Prima che costruissero la copertura dell’Olimpico, infatti, i tifosi senza biglietto si radunavano qui per seguire la squadra del cuore anche da lontano. 

Il rientro

Il giro sostanzialmente finisce qui, a meno che non vogliate allungare verso la Valle di Farneto, dove io però non sono arrivata. Non resta che tornare indietro e ripercorrere l’anello in direzione contraria. Verso la fine, un’altra sorpresa “illusionistica”, stavolta uditiva. Alla fine dell’anello, proprio nei pressi del cancello di via dei Colli della Farnesina, il frastuono delle macchine che percorrono la trafficata Tangenziale est sottostante, mi dicono che sono arrivata. Ma girando per l’ultima discesa prima dell’uscita, miracolosamente i rumori cessano e torna il silenzio del bosco! 

Riserva di Monte Mario: la collina dell’osservatorio

Questo percorso è di circa 1 chilometro e dura 40 minuti. È possibile entrare da Viale del Parco Mellini o da piazzale Maresciallo Giardino, come ho fatto io. Il sentiero della riserva di Monte Mario è percorribile tutto l’anno, perché rispetto all’altro è meno “selvaggio” e quasi tutto asfaltato, ma salite e discese sono ripide, perché raggiunge i 139 metri di altezza. Anche se viene chiamato Monte, è in realtà un colle, che al tempo degli antichi romani ospitava le ville residenziali di poeti e nobili, che qui trovavano refrigerio dall’umidità del fiume sottostante. Era anche attraversato dagli eserciti di ritorno dalle campagne militari. La stessa strada che più tardi percorsero i pellegrini che si recavano a Roma, perché questo è di fatto l’ultimo tratto della via Francigena, con l’arrivo a San Pietro. 

Tornanti e scalette

Entrando ci sono due possibilità: o affrontare i tornanti, o abbreviare salendo le scalette che portano in cima. Dipende dal tempo che avete: io ho fatto i tornanti all’andata e mi sono affrettata per le scalette al rientro, perché i cartelli di avviso del pericolo cinghiali e il buio incombente mi hanno spinto ad accelerare il passo! Comunque di cinghiali, o altri animali, neanche l’ombra. Anche se il sito viene segnalato per le caratteristiche uniche del territorio e per la sua particolare flora e fauna. Sembra, infatti, che Monte Mario custodisca tracce di epoca preistorica e quindi segni di insediamenti umani fino all’epoca romana, dove svolse ruolo di avamposto commerciale. Diventato terra di coltivazione nel medioevo, durante il Rinascimento è oggetto di diversi interventi edilizi, fino al quasi abbandono dei giorni nostri. 

Villa Mazzanti 

Fu costruita alla fine del XIX secolo dall’ingegnere Luigi Mazzanti su un preesistente edificio appartenuto alla famiglia Barberini. Espropriata nel 1967, è diventata parco pubblico di quartiere. Originariamente, il parco della villa si estendeva fino a viale Angelico, dove c’era un vivaio, Piazzale Maresciallo Giardino e via Gomenizza, dove c’era una zona coltivata a orto. Lo stile è quello di un parco all’inglese con roccaglie, ripidi vialetti e fontane rustiche a scogliera di tufo. Quando fu costruita, c’era la moda di imitare le ville storiche nobiliari e questo è chiaramente visibile fin dagli esterni. Da un punto di vista architettonico, infatti, la villa non è grandissima ma fonde elementi dell’architettura rinascimentale e classica con temi fantasiosi, simbolici o dal sapore esotico. Una bella copia, insomma.

Villa Mellini

Si trova quasi alla sommità del parco ed è una delle poche ville quattrocentesche superstiti. Fu fatta costruire dal cancelliere perpetuo del Comune Mario Mellini durante il pontificato di Sisto IV (1471-1484). Sembra che Wolfgang Goethe amasse passeggiare nel parco Mellini e descriverne le bellezze naturali. Come Wordsworth, che gli dedicò il sonetto “The Pine of Monte Mario at Rome”: 

I saw far off the dark top of a Pine 
Look like a cloud—a slender stem the tie 
That bound it to its native earth—poised high 
‘Mid evening hues, along the horizon line, 
Striving in peace each other to outshine. 
But when I learned the Tree was living there, 
Saved from the sordid axe by Beaumont’s care, 
Oh, what a gush of tenderness was mine! 
The rescued Pine-tree, with its sky so bright 
And cloud-like beauty, rich in thoughts of home, 
Death-parted friends, and days too swift in flight, 
Supplanted the whole majesty of Rome 
(Then first apparent from the Pincian Height) 
Crowned with St Peter’s everlasting Dome.

I pini domestici e la vista su Roma dovevano piacere moltissimo agli artisti, se anche William Turner fece un disegno intitolato “Stone Pines on Monte Mario, with a View of Rome from near the Villa Mellini”.

Stone Pines on Monte Mario 1819 Joseph Mallord William Turner 1775-1851 Accepted by the nation as part of the Turner Bequest 1856 http://www.tate.org.uk/art/work/D16337
Stone Pines on Monte Mario 1819 Joseph Mallord William Turner 1775-1851 Accepted by the nation as part of the Turner Bequest 1856 http://www.tate.org.uk/art/work/D16337

Nel 1935 la villa divenne sede dell’Osservatorio Astronomico di Monte Mario e del Museo Astronomico e Copernicano: il primo comprende due cupole principali dove si trovano gli equatoriali per l’osservazione degli astri e una Torre Solare entrata in funzione nel 1958. L’Osservatorio è rimasto in funzione fino al 2000, poi l’attività di osservazione si è trasferita a Monte Porzio Catone. Oggi, è sede della dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

La Terrazza dello Zodiaco e il Vialetto degli innamorati

Questo è il mio grande dispiacere. Avrebbe dovuto essere il punto d’arrivo della camminata, quello più romantico, al tramonto, mentre le luci si abbassavano su una vista spettacolare. E invece, la vista spettacolare più o meno c’è, ma che peccato vedere incuria e abbandono dove un tempo c’erano vita e coccole! Il ristorante Lo Zodiaco, famosissimo, e il bar adiacente sono infatti chiusi da due anni per fallimento e, da allora, tra crollo alberi e mancata manutenzione, direi che di romantico è rimasto ben poco. Vale comunque la pena di arrivare fin quassù per il panorama che si apre sul Tevere, quando le luci della città si abbassano e restano quelle di lampioni, macchine e case. Il momento è sicuramente suggestivo e so che vi piacerà. Attenzione però! Sbrigatevi a scendere prima che faccia buio per tornare indietro, perché quando calano le luci il parco diventa la casa dei cinghiali!

Che mi dite? Vi è piaciuta questa prima puntata di Romancè segreta? Se vi va, iscrivetevi alla newsletter per seguire le prossime puntate!

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Pasqua a Roma con l’Hanji, la carta dei mille anni

In Corea usano l’hanji per il restauro dei libri antichi, è talmente resistente che dura mille anni. Da qui il nome di questa carta così particolare, che è diventata la protagonista di un progetto espositivo realizzato dall’Accademia di Belle Arti di Roma in collaborazione con l’Istituto Culturale Coreano. Il risultato possiamo vederlo fino al 22 maggio 2022 andando a visitare il Museo Carlo Bilotti – Aranciera di Villa Borghese.  Se a Pasqua e nei weekend successivi non avete organizzato niente, o se avete già in programma una passeggiata all’aperto, questo è il posto che fa per voi. Ora vi racconto cosa potrete vedere all’interno e in cosa consiste il progetto dell’Accademia.

Cos’è l’hanji

L’hanji è una carta particolarissima, che ha come elemento base una pasta ottenuta dalla corteccia delle piante di gelso. Le fibre che compongono questa cellulosa sono molto più lunghe rispetto a quelle della carta tradizionale. Questo permette ai filamenti di rimanere ben intrecciati tra di loro durante il processo produttivo, dando vita a una carta molto forte, pieghevole, morbida come seta e resistente al tempo senza ingiallimenti. Il materiale che viene impiegato durante il processo di incollatura, infatti, non è chimico, ma si ottiene dalla linfa stessa del gelso, permettendo alla carta di conservare il proprio colore e la propria capacità di piegatura. Tradizionalmente veniva impiegata nella calligrafia e nella pittura, ma anche come isolante per le case hanok e per il riscaldamento a pavimento. L’hanji è così versatile che si può usare praticamente per tutto: oggettistica, vestiti, spaghi, arredamento d’interni.

Il progetto

Il progetto espositivo è stato realizzato dall’Accademia di Belle Arti in collaborazione con l’Istituto Culturale Coreano. Gli artisti selezionati  sono sia giovani alle prime esperienze sia importanti artisti riconosciuti a livello internazionale. A loro è stata garantita la massima libertà creativa, con l’unica richiesta di partecipare alla realizzazione manuale della carta presso il laboratorio dell’Accademia di Belle Arti di Roma, l’unico in Europa ad essersi specializzato nella produzione della Carta Coreana tradizionale. Il risultato di questa esperienza pratica sono i lavori che possiamo vedere visitando la mostra.

La mostra

Pe capire quello che gli artisti hanno allestito, bisogna partire dal video introduttivo, che il custode del museo consiglia caldamente di guardare. Sono d’accordo, perdete 5 minuti e capirete come viene creata la carta. Un lavoro pazzesco, fatto di pazienza e attenzione ai dettagli. Incredibile come in un Paese dove la tecnologia porta i coreani più o meno cento anni avanti a noi europei, e non scherzo, è veramente così, progresso e tradizione riescano a convivere così pacificamente. Anzi, la tradizione accompagna il progresso. Questo è visibile ovunque in Corea del Sud, ve ne ho già parlato ampiamente, e ho ritrovato la stessa commistione girando per le sale.

Le sale

Le opere italiane dialogano con quelle coreane, nel senso che si mescolano l’una alle altre sulle pareti. In realtà, è abbastanza intuitivo capire se l’artista è italiano o coreano e, soprattutto, se è un artista alle prime armi o no. Devo dire che le opere coreane, pur essendo enormemente più a proprio agio nell’utilizzo della carta, ed è subito percepibile, finiscono per somigliarsi le une alle altre, acquisendo quella tipica linearità e ordine orientale che è un marchio di fabbrica. Gli artisti italiani in alcuni casi sono stati più ingenui, ma hanno comunque tentato di differenziare le opere.  L’opera coreana che si discosta dalle altre, e che è anche la mia preferita, è questa Gamcheon dyed with Persimmon” di Kim Yang Hee, che rappresenta il Gamcheon Culture Village di Busan, di cui vi ho già parlato qui.

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Tra quelle italiane, mi ha colpito Elena Nonnis e il suo Piece, una sorta di diario del momento creativo dei colleghi artisti.

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Oggetti e manufatti

L’ultima sezione è dedicata a oggetti e manufatti che raccontano l’uso multidisciplinare che di questa carta si fa in Corea del Sud. Vi ho detto sopra che è molto resistente: talmente resistente che, vi assicuro, i vasi sembrano di ceramica. Nell’ultima parte sono esposti due vestiti tradizionali, di re e regina rispettivamente. Sembrano quelli dei drama, incredibile pensare che siano fatti di carta!

vestiti hanji 2 logo vestiti hanji logo

Che ne dite? Vi ho convinto ad andarci? Il museo è inserito nel contesto di Villa Borghese, all’uscita non può mancare una passeggiata e, perché no, anche un giro in barca al laghetto!

Informazioni

Museo Bilotti – Aranciera di Villa Borghese viale Fiorello La Guardia, 6 Roma.

Orari: martedì-venerdì 10.00 – 16.00; sabato e domenica 10.00 – 19.00, con ingresso gratuito. Fino al 22 maggio 2022.