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Andrea Frediani e gli Orsini, i lupi di Roma

Andrea Frediani è un autore prolifico,  laureato in Storia medievale. E proprio nella Roma medievale ci porta con I lupi di Roma, storia romanzata presentata al premio Strega 2021. Lavoro con cui lancia una sfida al lettore: convincere la gente che la storia è appassionante, puntando a mediare tra la ricostruzione accurata e il ritmo incalzante. Come dice lui stesso: “spero di aver realizzato un’opera avvincente e, allo stesso tempo, istruttiva, un binomio che dovrebbe essere l’essenza della divulgazione storica“. Io come lettrice ho raccolto la sfida. Lui, come autore, sarà riuscito nel suo obiettivo? Ora vi racconto. 

Trama

Nel 1277, una feroce lotta per il po­tere si scatena in occasione del con­clave. Dopo sei mesi di sede vacante, la famiglia Orsini riesce a far eleg­gere un proprio esponente. Il nuovo pontefice, Niccolò III, si propone di arginare lo strapotere di Carlo D’An­giò, re francese di Napoli e senatore di Roma, ma mira anche a consoli­dare le fortune della famiglia. In bre­ve gli Orsini assumono il controllo di Roma, di Viterbo e del collegio cardinalizio. Tuttavia le ambizioni del papa e di suo cugino, il cardina­le Matteo Rubeo, obbligano alcuni membri della famiglia, come Orso, podestà di Viterbo, e Perna, spinta da un amore proibito, a sacrificare i loro stessi sentimenti. Ma l’ascesa della dinastia viene interrotta da un evento imprevedibile, che esporrà gli Orsini alla vendetta dei loro tanti nemici. In cerca di riscatto, gli Orsini scopriran­no che farsi campioni degli ideali di libertà può essere un obiettivo più gratificante del dominio. Da Bolo­gna a Palermo, passando per Firenze, Viterbo e Roma, si faranno quindi protagonisti delle lotte tra guelfi e ghibellini, per le autonomie comunali e dei Vespri siciliani, imprimendo la loro mano sul ricco affresco dell’Italia tardomedievale. Questa è una storia di potere, di fede, di amore e di san­gue. Questa è la storia della famiglia Orsini, i Lupi di Roma.

I lupi…

L’ autore di questo romanzo, Andrea Frediani, ci porta in una Roma che per lunghi periodi è stata soggetta a lotte intestine per la conquista del potere. Avvenimenti di cui il popolo avrebbe fatto volentieri a meno, visto le sofferenze che ha dovuto subire, ma questo è un altro discorso. La storia non si cambia, anche se qui viene un po’ romanzata, per ammissione dello stesso autore. In ogni caso, Andrea Frediani ben descrive le faide tra le famiglie patrizie romane, nonché le alleanze con il clero e le potenze straniere. Quando veniva acquisita una posizione dominante da una fazione, per le altre erano dolori! Questo aspetto, il romanzo lo spiega perfettamente. L’autore confeziona una buona storia, senza lasciare pause inutili.

…e le iene. 

Al contrario, lancia messaggi su cui riflettere. Soprattutto sui trascorsi della chiesa, che perdendo il potere temporale, è fortunatamente tornata ai dettami cristiani. Devo dire, però, che forse il titolo di questo libro non è quello giusto. Probabilmente, sarebbe stato meglio “Le iene di Roma“, perché in effetti i lupi uccidono la preda e la divorano.

Le iene, invece, la divorano quando è ancora viva.

Quindi, per rispondere alla domanda, Andrea Frediani è riuscito nel suo intento? Direi proprio di sì.

E a voi? Piacciono i libri romanzati sull’antica Roma? Quali mi consigliate di leggere?

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Romancè segreta: Farnesina e Monte Mario

Pensate che l’unico buco della serratura da cui spiare Roma sia sull’Aventino? Inauguro oggi la nuova rubrica Romancè segreta per romancèrs curiosi. Questo è il primo contributo: due sentieri in piena città, per farvi scoprire o riscoprire la capitale da una prospettiva diversa. Soprattutto perché tra illusioni ottiche e uditive vedrete Roma come non l’avete mai vista! Quindi, allacciamo le scarpe e partiamo. Oggi andiamo alla scoperta di Farnesina e Monte Mario, due trafficatissimi colli della parte nord di Roma, conosciuti più per la presenza del Ministero degli Esteri, stadio e osservatorio astronomico che per l’aspetto naturalistico e storico. In realtà, in passato erano un crocevia molto frequentato e anche ora, inerpicandosi all’interno, è possibile quasi sentire i passi degli antenati. Che non sarebbero contentissimi di come li gestiamo, ma questo ve lo racconto all’interno.

Sentiero Colli della Farnesina 

Gli ingressi sono due: si può entrare da via dei Colli della Farnesina, come ho fatto io,  o da via dei Casali di Santo Spirito, accanto al cimitero militare francese. Il percorso è ad anello, quindi sostanzialmente non cambia nulla, dipende solo da quale giro preferite fare. Entrando da via dei Colli della Farnesina, il primo pezzo è in salita e vi consiglio di fare attenzione. Il parco, infatti, è ciclabile con mountain bike e la strada è stretta, quindi è facile incontrare dei pazzi lanciati a tutta birra che non prendono in considerazione gente che sale a piedi. C’è da dire che il parco non è frequentatissimo, almeno in determinati orari, quindi è probabile che la maggior parte delle volte i ciclisti riescano a fare i loro allenamenti senza incontrare anima viva. E anche che le guide dicono di fare il giro in senso orario, ma io non le ho lette e ovviamente l’ho fatto in senso antiorario 😉 

Cimitero militare dei Francesi

Orario o antiorario che sia, mi sono ritrovata dentro un bosco, che finisce in via dei Casali di Santo Spirito, davanti al Cimitero militare dei Francesi. Il cimitero era chiuso, ma anche da fuori è possibile avere una prospettiva del luogo in cui riposano 1888 militari deceduti tra il 1943 e il 1944 in guerra. Un altro monumento dedicato ai soldati francesi caduti in battaglia, stavolta contro la Repubblica Romana del 1849, si trova al Gianicolo.

Lo Stadio Olimpico

Accanto al cimitero, parte il secondo pezzo di sentiero, quello che porta a una specie di terrazzo panoramico, allestito con panchine spartane, presumo dai frequentatori, essenzialmente padroni dei cani che qui circolano liberamente. Da qui, il panorama comprende lo Stadio Olimpico, il Foro italico e il Tevere dal centro alla sinistra e Monte Mario con Villa Madama a destra. Qui è fantastica l’illusione ottica, perché Stadio e Foro Italico sembrano vicinissimi e molto grandi, quando in realtà sono abbastanza distanti! Prima che costruissero la copertura dell’Olimpico, infatti, i tifosi senza biglietto si radunavano qui per seguire la squadra del cuore anche da lontano. 

Il rientro

Il giro sostanzialmente finisce qui, a meno che non vogliate allungare verso la Valle di Farneto, dove io però non sono arrivata. Non resta che tornare indietro e ripercorrere l’anello in direzione contraria. Verso la fine, un’altra sorpresa “illusionistica”, stavolta uditiva. Alla fine dell’anello, proprio nei pressi del cancello di via dei Colli della Farnesina, il frastuono delle macchine che percorrono la trafficata Tangenziale est sottostante, mi dicono che sono arrivata. Ma girando per l’ultima discesa prima dell’uscita, miracolosamente i rumori cessano e torna il silenzio del bosco! 

Riserva di Monte Mario: la collina dell’osservatorio

Questo percorso è di circa 1 chilometro e dura 40 minuti. È possibile entrare da Viale del Parco Mellini o da piazzale Maresciallo Giardino, come ho fatto io. Il sentiero della riserva di Monte Mario è percorribile tutto l’anno, perché rispetto all’altro è meno “selvaggio” e quasi tutto asfaltato, ma salite e discese sono ripide, perché raggiunge i 139 metri di altezza. Anche se viene chiamato Monte, è in realtà un colle, che al tempo degli antichi romani ospitava le ville residenziali di poeti e nobili, che qui trovavano refrigerio dall’umidità del fiume sottostante. Era anche attraversato dagli eserciti di ritorno dalle campagne militari. La stessa strada che più tardi percorsero i pellegrini che si recavano a Roma, perché questo è di fatto l’ultimo tratto della via Francigena, con l’arrivo a San Pietro. 

Tornanti e scalette

Entrando ci sono due possibilità: o affrontare i tornanti, o abbreviare salendo le scalette che portano in cima. Dipende dal tempo che avete: io ho fatto i tornanti all’andata e mi sono affrettata per le scalette al rientro, perché i cartelli di avviso del pericolo cinghiali e il buio incombente mi hanno spinto ad accelerare il passo! Comunque di cinghiali, o altri animali, neanche l’ombra. Anche se il sito viene segnalato per le caratteristiche uniche del territorio e per la sua particolare flora e fauna. Sembra, infatti, che Monte Mario custodisca tracce di epoca preistorica e quindi segni di insediamenti umani fino all’epoca romana, dove svolse ruolo di avamposto commerciale. Diventato terra di coltivazione nel medioevo, durante il Rinascimento è oggetto di diversi interventi edilizi, fino al quasi abbandono dei giorni nostri. 

Villa Mazzanti 

Fu costruita alla fine del XIX secolo dall’ingegnere Luigi Mazzanti su un preesistente edificio appartenuto alla famiglia Barberini. Espropriata nel 1967, è diventata parco pubblico di quartiere. Originariamente, il parco della villa si estendeva fino a viale Angelico, dove c’era un vivaio, Piazzale Maresciallo Giardino e via Gomenizza, dove c’era una zona coltivata a orto. Lo stile è quello di un parco all’inglese con roccaglie, ripidi vialetti e fontane rustiche a scogliera di tufo. Quando fu costruita, c’era la moda di imitare le ville storiche nobiliari e questo è chiaramente visibile fin dagli esterni. Da un punto di vista architettonico, infatti, la villa non è grandissima ma fonde elementi dell’architettura rinascimentale e classica con temi fantasiosi, simbolici o dal sapore esotico. Una bella copia, insomma.

Villa Mellini

Si trova quasi alla sommità del parco ed è una delle poche ville quattrocentesche superstiti. Fu fatta costruire dal cancelliere perpetuo del Comune Mario Mellini durante il pontificato di Sisto IV (1471-1484). Sembra che Wolfgang Goethe amasse passeggiare nel parco Mellini e descriverne le bellezze naturali. Come Wordsworth, che gli dedicò il sonetto “The Pine of Monte Mario at Rome”: 

I saw far off the dark top of a Pine 
Look like a cloud—a slender stem the tie 
That bound it to its native earth—poised high 
‘Mid evening hues, along the horizon line, 
Striving in peace each other to outshine. 
But when I learned the Tree was living there, 
Saved from the sordid axe by Beaumont’s care, 
Oh, what a gush of tenderness was mine! 
The rescued Pine-tree, with its sky so bright 
And cloud-like beauty, rich in thoughts of home, 
Death-parted friends, and days too swift in flight, 
Supplanted the whole majesty of Rome 
(Then first apparent from the Pincian Height) 
Crowned with St Peter’s everlasting Dome.

I pini domestici e la vista su Roma dovevano piacere moltissimo agli artisti, se anche William Turner fece un disegno intitolato “Stone Pines on Monte Mario, with a View of Rome from near the Villa Mellini”.

Stone Pines on Monte Mario 1819 Joseph Mallord William Turner 1775-1851 Accepted by the nation as part of the Turner Bequest 1856 http://www.tate.org.uk/art/work/D16337
Stone Pines on Monte Mario 1819 Joseph Mallord William Turner 1775-1851 Accepted by the nation as part of the Turner Bequest 1856 http://www.tate.org.uk/art/work/D16337

Nel 1935 la villa divenne sede dell’Osservatorio Astronomico di Monte Mario e del Museo Astronomico e Copernicano: il primo comprende due cupole principali dove si trovano gli equatoriali per l’osservazione degli astri e una Torre Solare entrata in funzione nel 1958. L’Osservatorio è rimasto in funzione fino al 2000, poi l’attività di osservazione si è trasferita a Monte Porzio Catone. Oggi, è sede della dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

La Terrazza dello Zodiaco e il Vialetto degli innamorati

Questo è il mio grande dispiacere. Avrebbe dovuto essere il punto d’arrivo della camminata, quello più romantico, al tramonto, mentre le luci si abbassavano su una vista spettacolare. E invece, la vista spettacolare più o meno c’è, ma che peccato vedere incuria e abbandono dove un tempo c’erano vita e coccole! Il ristorante Lo Zodiaco, famosissimo, e il bar adiacente sono infatti chiusi da due anni per fallimento e, da allora, tra crollo alberi e mancata manutenzione, direi che di romantico è rimasto ben poco. Vale comunque la pena di arrivare fin quassù per il panorama che si apre sul Tevere, quando le luci della città si abbassano e restano quelle di lampioni, macchine e case. Il momento è sicuramente suggestivo e so che vi piacerà. Attenzione però! Sbrigatevi a scendere prima che faccia buio per tornare indietro, perché quando calano le luci il parco diventa la casa dei cinghiali!

Che mi dite? Vi è piaciuta questa prima puntata di Romancè segreta? Se vi va, iscrivetevi alla newsletter per seguire le prossime puntate!

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Pasqua a Roma con l’Hanji, la carta dei mille anni

In Corea usano l’hanji per il restauro dei libri antichi, è talmente resistente che dura mille anni. Da qui il nome di questa carta così particolare, che è diventata la protagonista di un progetto espositivo realizzato dall’Accademia di Belle Arti di Roma in collaborazione con l’Istituto Culturale Coreano. Il risultato possiamo vederlo fino al 22 maggio 2022 andando a visitare il Museo Carlo Bilotti – Aranciera di Villa Borghese.  Se a Pasqua e nei weekend successivi non avete organizzato niente, o se avete già in programma una passeggiata all’aperto, questo è il posto che fa per voi. Ora vi racconto cosa potrete vedere all’interno e in cosa consiste il progetto dell’Accademia.

Cos’è l’hanji

L’hanji è una carta particolarissima, che ha come elemento base una pasta ottenuta dalla corteccia delle piante di gelso. Le fibre che compongono questa cellulosa sono molto più lunghe rispetto a quelle della carta tradizionale. Questo permette ai filamenti di rimanere ben intrecciati tra di loro durante il processo produttivo, dando vita a una carta molto forte, pieghevole, morbida come seta e resistente al tempo senza ingiallimenti. Il materiale che viene impiegato durante il processo di incollatura, infatti, non è chimico, ma si ottiene dalla linfa stessa del gelso, permettendo alla carta di conservare il proprio colore e la propria capacità di piegatura. Tradizionalmente veniva impiegata nella calligrafia e nella pittura, ma anche come isolante per le case hanok e per il riscaldamento a pavimento. L’hanji è così versatile che si può usare praticamente per tutto: oggettistica, vestiti, spaghi, arredamento d’interni.

Il progetto

Il progetto espositivo è stato realizzato dall’Accademia di Belle Arti in collaborazione con l’Istituto Culturale Coreano. Gli artisti selezionati  sono sia giovani alle prime esperienze sia importanti artisti riconosciuti a livello internazionale. A loro è stata garantita la massima libertà creativa, con l’unica richiesta di partecipare alla realizzazione manuale della carta presso il laboratorio dell’Accademia di Belle Arti di Roma, l’unico in Europa ad essersi specializzato nella produzione della Carta Coreana tradizionale. Il risultato di questa esperienza pratica sono i lavori che possiamo vedere visitando la mostra.

La mostra

Pe capire quello che gli artisti hanno allestito, bisogna partire dal video introduttivo, che il custode del museo consiglia caldamente di guardare. Sono d’accordo, perdete 5 minuti e capirete come viene creata la carta. Un lavoro pazzesco, fatto di pazienza e attenzione ai dettagli. Incredibile come in un Paese dove la tecnologia porta i coreani più o meno cento anni avanti a noi europei, e non scherzo, è veramente così, progresso e tradizione riescano a convivere così pacificamente. Anzi, la tradizione accompagna il progresso. Questo è visibile ovunque in Corea del Sud, ve ne ho già parlato ampiamente, e ho ritrovato la stessa commistione girando per le sale.

Le sale

Le opere italiane dialogano con quelle coreane, nel senso che si mescolano l’una alle altre sulle pareti. In realtà, è abbastanza intuitivo capire se l’artista è italiano o coreano e, soprattutto, se è un artista alle prime armi o no. Devo dire che le opere coreane, pur essendo enormemente più a proprio agio nell’utilizzo della carta, ed è subito percepibile, finiscono per somigliarsi le une alle altre, acquisendo quella tipica linearità e ordine orientale che è un marchio di fabbrica. Gli artisti italiani in alcuni casi sono stati più ingenui, ma hanno comunque tentato di differenziare le opere.  L’opera coreana che si discosta dalle altre, e che è anche la mia preferita, è questa Gamcheon dyed with Persimmon” di Kim Yang Hee, che rappresenta il Gamcheon Culture Village di Busan, di cui vi ho già parlato qui.

copertina 1 logo

Tra quelle italiane, mi ha colpito Elena Nonnis e il suo Piece, una sorta di diario del momento creativo dei colleghi artisti.

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Oggetti e manufatti

L’ultima sezione è dedicata a oggetti e manufatti che raccontano l’uso multidisciplinare che di questa carta si fa in Corea del Sud. Vi ho detto sopra che è molto resistente: talmente resistente che, vi assicuro, i vasi sembrano di ceramica. Nell’ultima parte sono esposti due vestiti tradizionali, di re e regina rispettivamente. Sembrano quelli dei drama, incredibile pensare che siano fatti di carta!

vestiti hanji 2 logo vestiti hanji logo

Che ne dite? Vi ho convinto ad andarci? Il museo è inserito nel contesto di Villa Borghese, all’uscita non può mancare una passeggiata e, perché no, anche un giro in barca al laghetto!

Informazioni

Museo Bilotti – Aranciera di Villa Borghese viale Fiorello La Guardia, 6 Roma.

Orari: martedì-venerdì 10.00 – 16.00; sabato e domenica 10.00 – 19.00, con ingresso gratuito. Fino al 22 maggio 2022.

Daniela Amenta e La ladra di piante di Monteverde vecchio

Daniela Amenta è una giornalista romana di lungo corso, esperta di musica rock e politica, due mondi che sembrano lontani anni luce, ma che in comune hanno la passione. La stessa passione che muove i protagonisti: per le piante lei, per la musica lui. In mezzo, un delitto, un’inchiesta, un informatore e una Roma immersa in una cappa d’afa. E non solo.

Trama

Quell’estate a Roma faceva molto caldo. E quando Roma si arroventa perde la sua grande bellezza e si trasforma in una città dura, arrogante, coperta da un vapore insopportabile, segnata da odori di sangue e mentuccia. Qui c’è chi sopravvive rubando piante dagli androni dei portoni, chi cura gatti randagi e chi ascolta jazz e rock’n’roll. Una giovane donna dai capelli rossi, un cronista esausto a caccia di tenerezze e un vecchio giornalista che sta perdendo la memoria si incrociano ai margini della scena di un crimine. Dove sfilano badanti, redattori di giornali che inseguono scoop, giardinieri che conoscono la vita segreta delle orchidee, Bill Evans, i Clash e Pasolini. È la Roma del quadrante sud, quella che guarda il mare attraverso il percorso del Tevere. Un pezzo di metropoli trasformato in una mappa di luoghi e sentimenti dove, nonostante l’afa, crescono ancora le Aspidistre. E piccoli sogni di resurrezione e d’amore.

Amo et odio

Daniela Amenta ama e odia Roma. Si vede, si sente, si respira in ogni pagina di questo romanzo. Daniela Amenta, evidentemente, è una romana d.o.c., perché è così che si sente un romano. Ostaggio di una città e della sua bellezza. Una bellezza di cui si riempie la bocca “solo chi vive in certi quartieri e la vede da certe terrazze”. Tutti gli altri, devono trovare un modo per sopravvivere ai suoi tentacoli. E ad affitti in nero in case microscopiche. Ecco che, allora, un terrazzo può diventare un giardino botanico di piante dal salvare, un vinile l’unica ancora di salvezza nella vita, i gatti, un motivo per uscire di casa e riscoprire una coscienza civile.

Sopravvivere alla città

C’è Anna dai capelli rossi, ma chissà se le piacerebbe essere chiamata così, dato che anche il personaggio più famoso di lei lo odiava. Anna vive una vita sospesa, come tanti trentenni di oggi. Anna ha un mezzo contratto, a pochi soldi, e deve farselo piacere in qualche modo. Per sopravvivere, ruba piante. Sì, è lei la ladra di piante, preferibilmente quelle mezze smorte abbandonate negli androni dei condomini, che lei tenta disperatamente di salvare. C’è Riccardo, giornalista esperto. Lui si che ha un bel lavoro, ma non lo fa più con passione. E’ stanco delle notizie copia-incolla, stanco di direttori che non capiscono niente e seguono logiche di mercato che poco hanno a che fare con la qualità dell’informazione. C’è Lanfranco, un vecchio informatore, che vecchio lo sta diventando sul serio e sente che la memoria inizia a vacillare.

Sono entrata in questo orto, nel mio Getsemani pensile, all’ottavo piano di un palazzo perbene. C’è di tutto, qui. Piante sbilenche, rigogliose, piante con le flebo, piante mezze morte, malconce, c’è un tappeto di Aspidistre, ci sono quelle stronze di acidofile, le camelie e un rododendro che mi fa impazzire, ci sono le gardenie amatissime e piante di cui non so il nome. 

Certe atmosfere

Daniela Amenta conosce bene Roma, i personaggi che la popolano, è stata cronista di nera, e certe atmosfere che l’avvolgono in estate. E’ forse questa la parte più godibile del racconto, quella che mi ha conquistato. Se volete leggere di una Roma non da copertina, ma neanche criminale, che oggi le polarizzazioni vanno tanto di moda, questo romanzo vi offrirà una prospettiva diversa e affascinante, suo malgrado. Se amate le piante, non potrete non riconoscervi nell’opera pia che mette in piedi Anna, ma quale ladra? E, soprattutto, come sto facendo io in questo momento, nel cercare di capire quale parte del seme di avocado vada in acqua. Se vi piace la musica rock, quella senza autotune, troverete spunti interessanti. La storia di Daniela Amenta scorre via con facilità e si legge con piacere. A patto di sorvolare su qualche stereotipo di troppo, il vivaista contadino che assume solo stranieri “perché lavorano di più”, per esempio, la violenza di genere che viene infilata un po’ a forza, e francamente non necessaria e neanche approfondita a dovere, e su un giallo che parte troppo tardi e si risolve troppo presto.

“E secondo te, Valdesi, ci avrebbe fatto schifo qualche altro giorno di suspense…? Ecco, anche io sono d’accordo con il direttore, per una volta: qualche altra pagina di suspense non ci avrebbe fatto schifo.

Un’altra polarizzazione

Rimangono le descrizioni vivide di una città che non è come la squadra, che si ama e basta. Roma, se la ami, la ami e la odi, non c’è spazio per le vie di mezzo. Un’altra polarizzazione, a ben pensarci.

La casa era un ex lavatoio, ma in compenso aveva uno spazio esterno «sublime», come aveva detto la signorina Natalia facendogli firmare una stipula di comodato d’uso gratuito per 18 mesi. Per gratuito s’intendevano 800 iuros in nero, cash. Però il panorama valeva la pena e, in qualche modo, anche la truffa. Da lì prendeva forma la periferia dissennata di Roma che iniziava da Trastevere: una fila di parabole e cemento, treni e mattoni si allungava verso viale Marconi. Oltre s’ergeva, sferica e di salnitro, la torre del Gazometro. Si vedevano le pendici di Garbatella che, a un tratto, perdeva i toni pastello dei tetti per diventare di acciaio all’Eur. Si vedeva la cappa d’afa su Portuense e il verde spento dei platani ad accompagnare il viaggio del Tevere. E in certi giorni speciali la facciata d’oro di San Paolo brillava come una medaglia sul petto di questa città sfacciata. 

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Goya e la fisiognomica in mostra a Roma

Il 29 aprile ha aperto a Roma, e per la prima volta in Italia, la mostra Goya Fisionomista, a cura di Juan Bordes. Dopo mesi di chiusura di tutti i luoghi d’arte, non mi è sembrato vero e mi sono precipitata. Non ci crederete, c’ero solo io a quell’ora! E adesso vi racconto com’è andata e cosa potrete vedere. 

Fino al 18 settembre 2021

Ospitata dall’Instituto Cervantes  nella Sala Dalí di Piazza Navona, dopo essere stata a Madrid, Bordeaux, Algeri e Praga, la mostra rimarrà aperta fino al 18 settembre 2021. La rassegna raccoglie 38 incisioni di Francisco Goya appartenenti a tre delle sue famose serie: Los Caprichos (I capricci, 29 incisioni), Los Disparates (Le sciocchezze, 5 incisioni) e Los Desastres (I disastri, 4 incisioni). Una selezione che analizza i rapporti dei volti di Goya con i trattati di fisiognomica dell’epoca e si completa con 109 riproduzioni di illustrazioni del XVIII e XIX secolo.

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I legami di Goya con le teorie fisiognomiche 

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La mostra analizza il rapporto tra i volti più significativi dei suoi personaggi e le teorie fisiognomiche pubblicate tra il Settecento e l’Ottocento. Rivelando l’interesse di Goya per la fisionomia, in parte scaturito da un suo viaggio in Italia, dove le ristampe di Giovanni Battista della Porta erano popolari in un momento in cui la scienza studiava il riflesso della malattia mentale nei volti delle persone. Una pseudoscienza che cercava l’animalità del volto umano e delle sue espressioni, e che faceva parte del sapere popolare sin dal XVI secolo. Per dimostrare che Goya fosse a conoscenza di queste teorie, la mostra evidenzia i parallelismi tra le litografie dell’artista spagnolo (insieme ad ingrandimenti fotografici dei volti dei suoi personaggi) e i grandi album fisionomici di Le Brun o l’enciclopedia di Moreau de la Sarthe (1806-1809). Grazie a questi paragoni, le fonti di Goya diventano evidenti, con un allestimento che mette a confronto le varie opere, mostrandoci tre tipi di fisionomie: animale, patologica e degradata. La caratteristica essenziale dei volti creati da Goya, infatti, è la brutalità, poiché le emozioni sono mostrate nella loro forma più pura. 

Da vedere?

Se amate il pittore spagnolo, sì, da vedere. Anche se non c’entra nulla, mi ha ricordato Madrid e il periodo oscuro di Goya, con la deformazione e la ferocia dipinte sui volti dei personaggi rappresentanti. E poi, che ve lo dico a fare, quando esci, un giro di piazza Navona e dintorni è d’obbligo, altrimenti il leone s’arrabbia! :p

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Giorni e orari 

Organizzata dall’Instituto Cervantes e dalla Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, la mostra si può visitare gratuitamente dal martedì al sabato dalle ore 16 alle 20, su prenotazione scrivendo cenrom@cervantes.es. Indirizzo: Roma, Piazza Navona, 91. La visita dura, più o meno, 30 minuti. 

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Leonardo da Vinci in mostra a Roma

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