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Jessica Au, Tempo di neve e quel rapporto madre-figlia

Jessica Au fa il suo esordio nella narrativa con questa novella, Tempo di neve, il racconto di quel filo sottile che unisce madri e figlie. O meglio, di quei nodi che lo piegano e sfilacciano. Il risultato è una serena riflessione su ciò che siamo, su chi ci ha fatto diventare ciò che siamo e su chi saremmo potuti essere, se solo non fossimo il prodotto delle nostre esperienze e dell’ambiente in cui siamo cresciuti. Vi ho detto diverse volte che i libri spesso ti vengono a cercare. Ecco: questo è decisamente un libro che mi è venuto a cercare. Di cui avevo bisogno in questo momento, in un certo senso.

Trama 

Una figlia e sua madre, che vivono da tempo lontane, si danno appuntamento nella capitale giapponese. Non è un viaggio come gli altri: questo ha l’aspetto di un addio. Così come la giovane regola il diaframma della sua Nikon per fissare l’immagine dell’anziana donna per sempre, allo stesso modo è costretta a scegliere quali dettagli del loro rapporto mettere a fuoco e quali invece lasciar galleggiare in superficie e poi disperdere, come sull’acqua increspata dei canali della città. Le due condividono ciotole di noodles fumanti in minuscoli ristoranti, visitano mostre e fanno del loro meglio per evitare che la pioggia di ottobre rovini i loro programmi. Ma rifugiarsi nei ricordi non è sufficiente quando ci si trova in un corpo a corpo privato di ogni traccia di intimità e possibilità di avvicinamento. Qual è allora il significato di questo errare fianco a fianco?

Il viaggio comincia

Era mattina presto e la strada era piena di gente, la maggior parte lasciava la stazione anziché entrarci, come facevamo noi. Per tutto il tempo mia madre restò al mio fianco, quasi temesse che se ci fossimo separate il flusso della folla, come una corrente, ci avrebbe impedito di tornare l’una dall’altra, mandandoci sempre più alla deriva e allontanandoci ancora e ancora. 

E’ la narratrice, la figlia, a raccontarci perché madre e figlia prendono due voli diversi per ritrovarsi in Giappone. All’inizio dell’anno le avevo chiesto di venire con me in Giappone. Ormai non vivevamo più nella stessa città, e non eravamo mai state via insieme da quando ero adulta, ma iniziavo a rendermi conto che era una cosa importante, per ragioni a cui non ero ancora in grado di dare un nome. Avevo scelto il Giappone perché…forse sentivo che che ci avrebbe messo in una situazione di parità, che saremmo state entrambe straniere. 

Per ragioni a cui non si sa dare un nome

Essere figli non è facile. O meglio, non è sempre facile. C’è un passato con cui fare i conti, un passato che non è il tuo, ma che è presente anche quando non vorresti. Jessica Au spiega in questo passaggio quali sono le ragioni cui non sa dare nome. Una volta io e Laurie (il compagno) avevamo scherzato sulla mia frugalità, sul fatto che finivo sempre gli avanzi di ogni pasto, anche se non avevo più fame, perché non potevo sopportare di vedere il cibo andare sprecato. All’epoca avevo scherzato anch’io, ma non avevo replicato che era la frugalità di mia madre che imitavo, non la mia.

Tempo di neve

In questo loro pellegrinaggio per il Giappone, le due donne cercano una sintonia che probabilmente non hanno mai avuto. Figlie di epoche diverse, di tradizioni diverse, di mentalità distanti. Una donna moderna una, un’emigrata mai perfettamente integrata l’altra. Eppure, durante questo viaggio, di fronte ai quadri o davanti a un tè, senza quasi parlare, madre e figlia imparano a sintonizzarsi sull’altra. O meglio, è la figlia che forse lascia andare la figura materna. Il tutto è pervaso da un senso attutito di perdita, di ultimo incontro, di pensiero su quello che verrà dopo. Il senso attutito della neve, che è nell’aria, ma non cade. E che la madre vorrebbe tanto vedere per la prima volta, anche se sappiamo, chissà come e chissà perché, che non la vedrà mai.

Camminando nella neve

Una novella che mi ha preso, pagina dopo pagina. Che mi ha trasmesso un senso di pace, di tranquillità, come se davvero stessi camminando nella neve e, intorno, silenzio. Avrei voluto che Jessica Au continuasse. Che quella madre così silente trovasse una sua voce. Che non si sentisse troppo l’ineluttabilità della fine. Ma ho adorato il finale, anche se temo che nella traduzione italiana si sia perso il simbolismo delle scarpe (SPOILER in fondo al post). Voglio adottare il punto di vista della narratrice: Esausta e confusa, pensai che forse era giusto non capire tutto, ma limitarsi a vedere le cose e a trattenerne le impressioni. Anche perché Forse è un bene fermarsi di tanto in tanto a riflettere sulle cose che sono successe, pensare alla tristezza potrebbe anche finire per renderti felice.

***

Mentre procedevamo mi chiese del mio lavoro. All’inizio non risposi, poi le spiegai che in molti dipinti antichi si poteva scoprire quello che veniva chiamato un pentimento, uno strato precedente di qualcosa sopra cui l’artista aveva scelto di dipingere altro. Dissi che in questo senso la scrittura era molto simile alla pittura. Solo in quel modo si poteva tornare indietro e cambiare il passato, rendere le cose non com’erano, ma come avremmo voluto che fossero o, piuttosto, come le percepivamo. Aggiunsi che, per quel motivo, era meglio non si fidasse di ciò che leggeva. 

Attenzione, SPOILER: nella versione italiana, si perde il simbolismo delle scarpe. La figlia aiuta la mamma a infilarle, non ad alzarle. In Cina, infilare le scarpe significa intesa reciproca. Quello che la figlia aveva bisogno di trovare.

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Anne Berest, chi ha inviato La cartolina?

Anne Berest è la mia prima scoperta del 2023. Pensavo di sapere tutto su nazismo, ebrei e deportazione. Invece, avevo sottovalutato un aspetto fondamentale: la storia la scrivono i vincitori. E ai vincitori non piace ricordare cosa è successo in tempo di guerra. Soprattutto, se la storia alla fine tira fuori la verità. Ecco cos’è stato per me questo libro: un po’ saggio, un po’ autobiografia, un po’ (credo) romanzo.

Trama

Nel 2003 la madre di Anne Berest riceve una strana cartolina anonima sulla quale sono scritti soltanto quattro nomi, Ephraïm, Emma, Noémie e Jacques, ovvero i nonni e gli zii morti ad Auschwitz. Lì per lì pensa a uno scherzo di cattivo gusto, la mette in un cassetto e se la dimentica. Quasi vent’anni dopo, però, Anne Berest decide di scoprire chi l’abbia mandata. È l’inizio di un’indagine a ritroso nel tempo in cui Anne ricostruisce la storia della sua famiglia, ebrei russi approdati a Parigi dopo una rocambolesca fuga. Dieci anni di pace prima che la Francia sia invasa dalla furia nazista e la persecuzione degli ebrei diventi un incubo che avrà per quella famiglia un tragico epilogo. Alla fine, Anne scoprirà chi ha mandato la cartolina, ma la cosa non è importante quanto il risultato delle sue ricerche, che la porterà a capire cosa abbia significato essere ebrei durante il Novecento e cosa significhi oggi.

Una neomamma che si chiede da dove viene 

Il libro di Anne Berest ha molti pregi. Uno dei quali è presentarci una famiglia di ebrei non osservanti, che vivono esattamente come qualsiasi laico nel proprio Paese. Ad Anne serve una rottura, in questo caso il suo diventare madre, per interessarsi davvero alle sue origini. Anche perché nella sua famiglia c’è molto di taciuto. La nonna non amava ricordare la sua tragedia e ne parlava poco, quasi sempre alla nipote. Che per pudore, o intuendo che fosse qualcosa di troppo grande per lei, evitava di parlarne alla madre. Queste figure di donna, nei loro silenzi, sono molto potenti. In quante famiglie succede lo stesso? In tante. Siamo abituati alla figura del superstite come a colui, o colei, che deve tramandare la memoria perché certi fatti non accadano più. Invece accadono ancora oggi, sono sotto i nostri occhi. E non tutti vogliono parlarne. O denunciare. O addirittura ricordarli. “Nei momenti di instabilità economica e sociale aumenta la paura del diverso, dell’altro, che sia donna, straniero, migrante o ebreo. Per questo è importante ricordare le tragedie del passato”, afferma la scrittrice.

Un viaggio nel passato

La cartolina rompe il silenzio. Chi l’ha mandata? E perché? Anne Berest e la madre si mettono alla ricerca della persona che l’ha spedita. Così facendo, Anne scopre che la madre già in passato aveva tentato qualche ricerca. Purtroppo senza grandi successi, perché Myriam (nonna di Anne e madre di Lélia) è stata per tutta la vita una figura sfuggente. Anne a un certo punto dice una cosa che mi ha colpito molto: “ci guardava e sembrava che nei nostri sguardi, nelle nostre risate, vedesse qualcun altro. Era lì, ma da un’altra parte”. La cartolina rappresenta il sottile filo col passato, leggendo capirete perché. Intanto, posso dirvi che la cartolina raffigura l’Opéra Garnier, con il timbro del Louvre. Entrambi gli elementi sono importanti. “Non siamo mai stati religiosi ed era come se la nostra identità ebraica esistesse attraverso le definizioni degli altri. Il passato continuava a entrare nel presente. Era giunto il momento di indagare la storia della mia famiglia e mi è subito tornata in mente la cartolina“.

Il puzzle si ricompone

E così, passo dopo passo, tassello dopo tassello, Anne Berest riesce a ricostruire la storia dei suoi antenati, dei bisnonni e dei prozii che non sono più tornati dalla deportazione. E con loro, la storia e le figure di chi è stato causa o spettatore degli eventi che hanno portato alla tragica fine di questa famiglia. Myriam si è salvata per caso e per fortuna. Gli altri componenti della famiglia avrebbero potuto salvarsi, se solo Ephraïm avesse dato ascolto agli avvertimenti e non alla sua volontà di trasformarsi in un francese in tutto e per tutto. E’ interessante anche come Anne Berest ci mostri senza filtri la differenza di giudizio tra lei e la madre, tra la prima generazione nata dopo la guerra e l’ultima nata durante la guerra. Tra la passione di chi ha subìto e la razionalità di chi non ha vissuto.

“Mamma, non ti sembra strano che allevano maiali pur essendo ebrei?”

Se ne fregavano completamente! …poteva avere un senso nei Paesi caldi…ed Ephraïm non era osservante“.

“Forse il fatto che il direttore agricolo dice di non essere competente è una forma di resistenza. Non occuparsene è un modo per impedire che le cose vengano fatte”.

“Sei un’ottimista. Non so proprio da chi hai preso”. 

“Smettila! Non sono ottimista, penso solo che si debbano prendere in considerazione le due facce della medaglia. In tutta questa storia mi affascina pensare che in una stessa amministrazione pubblica, quella francese, possano coesistere stronzi e persone come si deve”. 

Le due facce della medaglia

Questo è un altro punto molto interessante, che fa di questo libro, secondo me, una buona lettura per i ragazzi da consigliare a scuola. Innanzitutto, esplora il ruolo dei Paesi vincitori della seconda guerra mondiale nella discriminazione prima e nella deportazione poi degli ebrei. Ruolo di cui non si parla mai, o solo di sfuggita. Eppure, anche in Francia c’erano i campi di concentramento. I fratelli di Myriam finiscono a Pithiviers, nella Loira. Prima “accolgono” i giovani, poi le altre categorie, per rispettare i numeri imposti dai tedeschi. Perché questa distinzione?

“Lo so, sembra strano, perché abbiamo in testa le immagini di intere famiglie arrestate insieme, figli, genitori, nonni… Ma esistevano vari tipi di arresto. Il progetto del Terzo Reich , lo sterminio di milioni di persone, era talmente di ampia portata che hanno dovuto scaglionarlo su vari anni. Abbiamo visto come in un primo tempo le ordinanze puntassero a neutralizzare gli ebrei per impedire loro di agire. Hai capito il giochino?”. “Sì, separare gli ebrei dalla popolazione francese, allontanarli fisicamente, renderli invisibili”. “Addirittura nella metropolitana, dove non potevano più salire nei vagoni dei francesi…”. “Ma non tutti sono rimasti indifferenti”. 

No, non tutti sono rimasti indifferenti

Anne Berest ci racconta di persone che hanno aiutato, o provato ad aiutare, gli ebrei. Molte sono donne, anche di loro si parla poco nella storia dei vincitori, di solito uomini: Janine Picabia, la sorella di nonno Vicente, una delle poche donne a capo di una rete di resistenza, Gloria. La madre di Janine, Gabrielle Picabia, un’artista prestata alla resistenza. Adélaïde Haas Hautval, medico e psichiatra francese, imprigionata nel campo di concentramento di Auschwitz, e prima nel campo francese di Pithiviers dove conobbe la sorella di Myriam Noémie e la scrittrice Irène Némirovsky, curava i prigionieri e si rifiutò di collaborare con la sperimentazione medica nazista. È stata nominata Giusta tra le Nazioni nel 1965. Samuel Beckett, anche lui si unì alla resistenza.

I palazzi raccontano

E ci racconta di luoghi che conosciamo bene, anche se forse meno bene per la loro storia. Come l’Opéra Garnier, che durante la guerra diventò il posto di ritrovo e di divertimento dei nazisti. O come l’ufficio postale del Louvre, il più grande di Parigi e aperto h24, per questo il preferito da chi voleva inviare notizie ai familiari. Vi avevo detto sopra che erano dettagli importanti…non a caso nella foto in evidenza del blog c’è proprio l’Opéra, che ho visitato durante il viaggio a Parigi

E ci racconta tanto altro. Per esempio, come la Francia abbia tentato di seppellire sotto un tappeto elegante i fatti avvenuti durante la guerra e come altre figure abbiano lottato, e ancora lottino, per far emergere la verità, Ma temo che finirei per annoiarvi. Quello che posso fare, è consigliarvi questo libro, dopodiché ognuno attiverà gli approfondimenti che ritiene utili in base ai suoi interessi. Ma non fatevelo sfuggire, questo posso senz’altro dirlo.

Avete altri libri da suggerirmi? Avete dei ricordi da condividere? Scrivetemi nei commenti.

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Prenditi cura di mamma, di Shin Kyung-Sook

Shin Kyung-Sook con questo romanzo è stata la prima scrittrice a vincere il Man Asian Literary Prize. Premio che non esiste più, ma che veniva assegnato al miglior romanzo di scrittore asiatico tradotto in inglese. Scrittore, non scrittrice. Shin Kyung-Sook sfonda il tetto di cristallo con la storia di una madre che non ha tempo né desiderio di essere altro. Una madre che un giorno scompare, lasciando nei suoi cari tanti interrogativi. Ma soprattutto rimorsi.

Trama 

Park So-nyo, 69 anni, minuta, capelli argentati, scompare, senza denaro e senza documenti, nella sterminata marea umana della metropolitana di Seul. Era arrivata  con il marito nella grande città dalla campagna per andare a trovare i figli: il primogenito, appena diventato dirigente di un’impresa immobiliare; la secondogenita, scrittrice; la terzogenita, madre di tre figli. La sua scomparsa è non soltanto fonte di angoscia e preoccupazione, ma anche di rimorsi e sensi di colpa. Park So-nyo non era più la stessa da qualche tempo. Una volta, rientrando in campagna dalla città, una delle figlie ha trovato la casa materna nel più totale disordine. E la mamma che, seduta nel cortile, si stringeva la testa con le mani. 

Figure monodimensionali

E’ incredibile come, a volte, la nostra percezione delle persone si cristallizzi: la madre, il padre, che so, l’avvocato, lo scrittore. Tutti monodimensionali, tutti con un ruolo ben definito e inamovibile. Mamma è mamma sempre. E sempre e solo mamma. La immaginiamo mai con i suoi sogni e desideri? Pensiamo mai che, forse, nella vita avrebbe voluto fare altro? Essere, altro? Magari non è così, magari si è sempre presa cura di tutti, in casa. Come Park So-nyo, per una vita a completa disposizione della famiglia. E poi? Quando lei ha avuto bisogno di aiuto, chi c’era?

Nessuno

Nessuno. Non c’era nessuno. Questo romanzo è straziante, perché sembra quasi di vederla, questa vecchietta con un principio di demenza senile, forse, che si perde nella caotica Seoul. Come ha fatto a perdersi? Il marito camminava troppo veloce, il figlio grande ha preferito andare alle terme a rilassarsi piuttosto che andare a prendere i genitori, la figlia di mezzo era per lavoro all’estero, la figlia più piccola ha a sua volta tre figli a cui badare, non ha tempo per se stessa, figuriamoci per i genitori. A puntare il dito è un farmacista: non vi eravate accorti?

I vecchi non li vuole nessuno

No, non si sono accorti, ognuno troppo preso dal vortice della sua vita per accorgersi che la mamma aveva bisogno di aiuto. Eppure, i segnali c’erano, erano sotto gli occhi di tutti. Guardate che succede spessissimo, non è qualcosa che può accadere in un mondo diverso dal nostro. Accade ovunque, ogni giorno. Park So-nyo lo sa bene, a un certo punto dice che i vecchi non li vuole nessuno, meglio prepararsi il funerale finché la salute c’è. Infatti, a ulteriore riprova che può accadere ovunque, il romanzo finisce a Roma, non in Corea del Sud. Perché a Roma?

E’ sbagliato annullarsi per gli altri?

Vi lascio scoprire il finale che è molto, molto bello. E molto, molto commovente. Potrei dire che la morale è semplice, abbracciamo e aiutiamo i nostri vecchietti finché sono con noi, ma forse sarebbe paternalistico. Ognuno di noi ha la sua storia. Forse, ha ragione la figlia minore, quando dice “io non sono come mamma, non potrei sacrificare tutto per i miei figli”. Ha sbagliato Park So-nyo ad annullarsi per gli altri? Quello che è successo è il risultato di un carattere troppo accomodante? 

Le voci di tutti

Un romanzo che lancia molti spunti di riflessione, un buon momento per guardarsi dentro e darsi delle risposte. Sto facendo tutto quello che posso? Esisto, in qualche modo? E gli altri esistono per me? Peccato che perda un po’ di mordente nella fase centrale, con dei passaggi quasi da telenovela, per poi riprendersi alla fine. Dal punto di vista stilistico, la scrittrice sceglie di farci sentire le voci di quasi tutti, del figlio, della figlia scrittrice, del marito e anche della signora scomparsa. A volte, utilizzando la seconda persona, a volte la prima. Per farci immedesimare, come se il personaggio parlasse al lettore. O come se qualcuno osservasse il personaggio, dandogli del tu. A me è piaciuto questo stile, mi ha ricordato La donna giusta di di Sándor Márai, anche se ovviamente lontano anni luce come tema.

Il titolo

Il titolo originale è 엄마를 부탁해, Prenditi cura di mamma, e ho deciso di lasciare questo titolo per il post. E’ un titolo molto significativo. Come significativo è il santino che ho trovato nel romanzo, lasciato da qualcuno in un punto di bookcrossing. Ritrae La Madonna con bambino e angeli, attribuito a Longhi della scuola del Garofalo e, sull’altro lato, una frase in latino firmata da papa Benedetto XVI e datata 2007. Lo ammetto, mi è partita la trama. La persona che ha lasciato il romanzo, l’ha comprato in Vaticano? Ha comprato lì anche il santino? L’ha lasciato nel libro appositamente? La mia risposta è sì, sì, sì. E’ come se mi avesse lasciato il testimone: “prenditi cura di lui. E di lei”. E io lo farò. 

E voi? Conoscete quest’autrice? Avete letto qualcosa di lei? p.s. curiosità, per un po’, credo che non avremo novità da parte sua. Nel 2015 è stata coinvolta in uno scandalo, accusata di plagio ai danni nientedimenoche…Yukio Mishima. All’inizio ha negato, ma sembra che alla fine abbia chiesto scusa.

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http://www.pennaecalamaro.com/2016/09/07/77/

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Agostino, Alberto Moravia e le prime volte

Agostino di Alberto Moravia è uno di quei libri che di solito assegnano come lettura per l’estate e che uno tende a scegliere più per la brevità che per altri motivi. Lo avevo già letto durante l’adolescenza e l’ho trovato tra gli audiolibri che ultimamente sto saccheggiando. Perché non rileggerlo?, ho pensato. E così ho fatto, trovandoci molte implicazioni che alla prima lettura mi erano sfuggite.

Trama

Agostino è la storia di un’iniziazione sessuale. Da una parte, un ragazzo di tredici anni che è ancora un bambino; dall’altra la madre, vedova, ancora fiorente e desiderosa di vivere. Durante una vacanza al mare i rapporti tra il figlio e la madre cambiano, si corrompono d’inquietudine. Per il ragazzo sarà necessario approdare a un’autentica crisi, una lacerazione che gli consentirà di ripartire poi a ricomporre il mondo. 

Atmosfera pigra e sonnolenta

Agostino di Alberto Moravia è uno di quei romanzi letti durante l’adolescenza di cui ricordavo poco o nulla. Mi era rimasta in testa, però, l’atmosfera di calura estiva, quel senso di sonnolenza e pigrizia che spinge le persone a osservare distese, più che a muoversi. Ed è esattamente l’atmosfera che ho ritrovato scegliendo di ascoltare l’audiolibro di Raiplaysound, letto dall’attrice Alba Rohrwacher. Come era successo anche con Utz, letto da Lino Guanciale, ho faticato a entrare nella storia con la sua voce, che ho trovato efficace nel finale, nel trasmettere i pensieri di Agostino, ma molto meno nel rendere il gruppo di ragazzi e gente del posto con cui Agostino si trova a doversi confrontare.

L’estate delle prime volte

Già, perché quella di Agostino è l’Agosto (da qui il nome del protagonista) delle prime volte. La prima volta in cui si trova fuori dal suo ambiente agiato, la prima volta in cui si scopre non più bambino, la prima volta in cui capisce che la madre è una donna, con le esigenze di qualsiasi donna e che vanno oltre la maternità, la prima volta in cui le pulsioni sessuali si fanno sentire prepotenti. Potremmo dire che, ancora oggi, Agostino incarna l’archetipo del preadolescente: non è più bambino, ma non è ancora uomo. Né carne né pesce, come diremmo oggi. E senza una figura paterna con cui confrontarsi.

Un romanzo di formazione

In una rilettura moderna, lascerei in secondo piano la vicenda del rapporto con la madre, che è il motivo del successo e dello scandalo che hanno accompagnato l’esordio di questo romanzo quando è stato pubblicato negli anni ’40. All’inizio, infatti, ne fu impedita la distribuzione dalla censura fascista e solo due anni più tardi, nel 1945, venne dato alle stampe in tiratura più estesa. Oggi penso che dovremmo considerarlo un romanzo di formazione: all’epoca, potevano forse suscitare scandalo i riferimenti alla sessualità della madre, il bagnino omosessuale, il tentativo di andare con una prostituta. Oggi, direi che potremmo far rientrare il tutto nel complesso di Edipo, nella sua fase più delicata, la consapevolezza. Non sappiamo come finirà per Agostino, i personaggi di Alberto Moravia finiscono quasi sempre per ripiegarsi su se stessi, pur di non affrontare la vita. Indifferenti, in un certo senso. A me piace pensare che Alberto Moravia ci abbia lasciato in sospeso per lasciare Agostino libero di crescere ancora un po’, prima di affrontare la sua fatidica, prima volta. E che lasci libera la madre di rifarsi una vita, di trovare qualcuno da amare dopo una storia estiva che li ha cambiati entrambi, come è giusto che sia.

Voi che ne pensate? Agostino riuscirà a liberarsi dai suoi tormenti? 

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Elogio alla bruttezza – Loredana Frescura

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