Archivi tag: libri

Il diario di Marco Goldin e Gli ultimi giorni di Van Gogh

Il diario di Marco Goldin sugli ultimi giorni di Van Gogh mi è capitato sottomano in biblioteca qualche giorno prima che andassi a visitare la mostra di Roma di cui vi ho già parlato. Ancora fresche le sensazioni dell’esposizione, mi sono letta con calma questo diario inventato su uno dei miei pittori preferiti. Ora vi dico cosa ne penso.

Trama

Come in un vero e proprio «diario ritrovato» Vincent van Gogh ci racconta, giorno per giorno, le ultime settimane della sua vita trascorse nel villaggio di Auvers-sur-Oise, a nord di Parigi. Un’autobiografia ideale e poetica, fatta anche di tanti ricordi, in cui Marco Goldin presta le sue parole al grande pittore olandese, con un passo narrativo coinvolgente e sempre fedele alle fonti storiche e all’epistolario. La scena si apre il 15 maggio 1890, quando Van Gogh lascia ancora fresco sul cavalletto l’ultimo quadro a Saint-Rémy, in Provenza, prima di andare a Parigi dal fratello Theo. E prima di prendere il suo ultimo treno per Auvers. Da lì in avanti il racconto si snoda avvincente, tra le strade strette di quel villaggio, la casa del dottor Gachet, le distese di erba medica su cui galleggia il rosso dei papaveri, il fiume che scorre lento, la chiesa con un cielo smaltato di azzurro come una vetrata gotica. E infine i campi di grano come un appuntamento con il destino.

L’originale è emozione allo stato puro

Il grande pregio di questo libro è che si legge in un attimo, la scrittura è fluida e le vicende narrate sono di grande interesse per tutti gli amanti di Van Gogh. Tuttavia, lo consiglio quasi esclusivamente a chi vuole farsi un’idea del pittore e leggere una storia semplice come l’azzurro in copertina. Per gli appassionati del grande artista olandese, invece, potrebbe essere quasi deludente. Non tanto per i contenuti, Marco Goldin è uno dei massimi esperti sul tema, ma per il paragone inevitabile con gli scritti lasciati da Vincent Van Gogh. Le parole originali sono così intense, profonde e commoventi, che immedesimarsi in questa “imitazione” risulta troppo complicato. Questo è quello che è successo a me. A un certo punto, la lettura ha finito per essere interessante quando ha toccato particolari di cui non ero a conoscenza, ma mi è sembrata blanda dal punto di vista emozionale. D’altra parte, Vincent Van Gogh è emozione allo stato puro, difficile anche solo accostarsi all’originale.

Leggi anche:
A proposito di originale. Fate ancora in tempo, prenotatevi. Van Gogh in mostra a Roma: io sono ancora qui

Casa Keats-Shelley e i giorni oziosi di Roma

L’estate nei tuoi occhi. The summer trilogy 1

Ho appena finito il primo volume della Summer trilogy di Jenny Han. Chissà che non porti un tempo un po’ più stabile. Aspettate anche voi l’estate spasmodicamente come fa Belly? Dal canto mio, ammetto di essere un tipo da stagioni intermedie, però mi fa sempre piacere leggere storie di mare, avventure e amore sotto il solleone. Anche questa prometteva innamoramenti al chiaro di luna. Ora vi racconto che ne penso.

Trama

Belly misura il tempo in estati. Tutto ciò che di bello e magico è successo nella sua vita, è successo fra giugno e agosto. L’inverno è solo il periodo che la divide dalla prossima estate, dalla casa sulla spiaggia e da Susannah che, oltre a essere la migliore amica di sua mamma, è anche la madre di Jeremiah e Conrad. Loro sono gli amici con i quali è cresciuta: uno è il ragazzo su cui contare, l’altro è quello che ti fa battere il cuore. Questa estate però sarà un’estate speciale, perché sta per accadere quello che Belly sogna da sempre, e che sembrava non sarebbe mai accaduto…

Di nuovo Jenny Han 

Premetto che all’inizio pensavo che L’estate nei tuoi occhi fosse un titolo stand alone, quindi non so se proseguirò la Summer trilogy. Non tanto perché mi costringerebbe a procacciarmi gli altri due libri, ma perché non mi ha convinto pienamente. Avevo già conosciuto Jenny Han con Tutte le volte che ho scritto ti amo (Lara Jean Vol. 1) e avevo trovato carina la storia e gli argomenti trattati. Dovrei anche avere da qualche parte il seguito, ma non l’ho ancora iniziato. In realtà, la Summer trilogy è precedente, addirittura risale al 2009 ma è stata ristampata l’anno scorso perché è uscita la serie tv. Comunque, come al solito vi dirò quello che mi è piaciuto e quello che non mi quadra su questa lettura. 

La casa dei sogni

Innanzitutto, contrariamente agli altri commenti che ho letto, questo andirivieni tra passato e presente secondo me ha reso la narrazione più vivace. L’idea di una casa estiva che faccia da centro del mondo per i bambini prima, e adolescenti poi, mi fa sognare. Corrisponde un po’ all’idea delle lunghe vacanze estive che sono divertenti solo per chi, appunto, riesce a viverle in un posto come questo. Belly, quindi, aspetta tutto l’anno questo momento, anche perché è segretamente innamorata di uno dei due fratelli che dividono la casa e le giornate con lei. La location è, quindi, l’aspetto che mi ha preso di più. Le loro avventure, invece, stentano a decollare, c’è una sorta di lungo preambolo imbarazzato, in cui la narrazione non è proprio fluidissima. Essendo, però, il primo numero della serie, serve a inquadrare i personaggi.

Belly e Conrad in ombra

I quali personaggi, ahimè, sono per ora l’anello debole della narrazione, forse più adatta a degli adolescenti che a noi adulti. Infatti, il vero motivo per andare avanti per me è stata Susannah, la mamma di Conrad e Jeremiah e padrona di casa. Anche la mamma di Belly non mi è dispiaciuta. Così come Jeremiah. Sono proprio i teorici protagonisti che vengono un po’ a mancare. Rimangono quasi in ombra, qualcosa succede, ma delle loro sensazioni sappiamo poco. Si scopriranno di più nel seguito? Probabile. Vi saprò dire se deciderò di proseguire. Nel frattempo, darò una possibilità alla serie tv.

Leggi anche: 

Laura Dean continua a lasciarmi

 

La più bella nuotata? Dislessia e matematica in love

La più bella nuotata della vostra vita la ricordate? Io sì, dopo ve la racconto. E’ in tema con il tempo uggioso di questi giorni. Vi parlo però anche di questo libro d’esordio di Anne Becker, che ha studiato Pedagogia Speciale all’università di Heidelberg e si occupa di didattica per allievi con bisogni speciali e difficoltà di apprendimento. E proprio di questo ci racconta nel suo primo romanzo: un dislessico e una nerd rischiano di trovarsi isolati e infelici. A meno che non uniscano le forze e trovino qualcuno in grado di capirli e sostenerli. Vi racconterò di Jan e Flo, della loro nuotata e della mia. In cambio, mi dite com’è stata la vostra?

Trama

In acqua Jan non ha rivali: la sua specialità è il dorso, e i suoi tempi sono da vero campione. A scuola invece fatica a rimanere a galla. È dislessico e preferirebbe attraversare a nuoto l’oceano piuttosto che tuffarsi in un libro. Quando si trasferisce con la famiglia in una città sul lago, i dubbi e le paure lo assillano: riuscirà a conquistare la fiducia dell’allenatore e della squadra di nuoto?
E a nascondere il suo segreto ai compagni di scuola? E a non apparire un completo imbranato agli occhi della nuova vicina di casa? Flo è una maga della matematica, ha una madre lontana, un diario su cui appunta tutti gli avvenimenti importanti in forma di grafici e… due galline da compagnia. Anche lei è piena di dubbi e di domande: quando rivedrà sua madre? C’è da fidarsi del nuovo vicino di casa riccio, che si tuffa dalla piattaforma come un atleta olimpico? Oppure è solo un altro bullo in combutta con il viscido Linus? Le risposte arriveranno quando meno se lo aspettano, lasciandoli senza fiato come un tuffo nell’acqua ghiacciata.

Diario per diagrammi e grafici

Serve qualche pagina per entrare nello spirito di questo romanzo per ragazzi dagli 11 anni in poi di Anne Becker, ma una volta rodato il meccanismo, i due diari diventano gustosi. Mi è piaciuto di più quello di Flo, se fossi un’insegnante farei cimentare i ragazzi su questa modalità espressiva per grafici e diagrammi, perché è proprio divertente e avvicina alla tanto odiata matematica. E poi ti insegna che ci sono tanti modi per esprimersi, non è detto che esista solo la parola scritta. Il diario di Jan, invece, è più classico, è da lui che sappiamo cosa succede in questo spaccato di vita. Il che è strano, è Jan che ha difficoltà a leggere. Difficoltà importanti, anche il menù della pizza gli crea problemi. E i compagni finiscono per ridere di lui. O no? Non tutti sono bulletti, a volte anche chi ha delle debolezze legge nelle reazioni degli altri cose che non esistono.

Forza e debolezza

Insomma, una buona lettura, ad alta leggibilità per aiutare chi è come Jan, per riflettere sui punti di forza e debolezza che tutti abbiamo. E, soprattutto, su come l’amicizia, l’amore e l’aiuto degli altri possano aiutarci a vivere. Dovendo fare un appunto, direi che Anne Becker conosce poco il mondo del nuoto. A tredici anni, Jan dovrebbe fare allenamenti più intensi ed essere moooolto più impegnato, se davvero avesse le capacità per presentarsi ai campionati nazionali. Invece l’autrice tratta l’argomento come se fosse una passeggiata. Vi assicuro che non lo è. D’altra parte, la più bella nuotata lo è sul serio, quindi la perdoniamo.

La nuotata più bella 

E arriviamo a noi. Qual è la più bella nuotata? La mia non è romantica, ma la ricordo come se fosse ieri. Un allenamento sotto la grandine, i chicchi sulle braccia, per fortuna uscite senza ammaccature. E sott’acqua, il caldo che contrasta il freddo fuori. Ma quanto è bello nuotare? E la vostra? Ora tocca a voi, raccontatemi!
p.s. l’allenatore di Jan potrebbe passare per un sessista, con le sua “femminuccia che piagnucola”. In effetti, non è che sia incisivo per tutto il racconto. Se volete mettervi alla prova, fate il test “Che personaggio sei?” proposto dalla casa editrice. Ho rischiato seriamente di essere la gallina di Flo!
Leggi anche:

Jessica Au, Tempo di neve e quel rapporto madre-figlia

Jessica Au fa il suo esordio nella narrativa con questa novella, Tempo di neve, il racconto di quel filo sottile che unisce madri e figlie. O meglio, di quei nodi che lo piegano e sfilacciano. Il risultato è una serena riflessione su ciò che siamo, su chi ci ha fatto diventare ciò che siamo e su chi saremmo potuti essere, se solo non fossimo il prodotto delle nostre esperienze e dell’ambiente in cui siamo cresciuti. Vi ho detto diverse volte che i libri spesso ti vengono a cercare. Ecco: questo è decisamente un libro che mi è venuto a cercare. Di cui avevo bisogno in questo momento, in un certo senso.

Trama 

Una figlia e sua madre, che vivono da tempo lontane, si danno appuntamento nella capitale giapponese. Non è un viaggio come gli altri: questo ha l’aspetto di un addio. Così come la giovane regola il diaframma della sua Nikon per fissare l’immagine dell’anziana donna per sempre, allo stesso modo è costretta a scegliere quali dettagli del loro rapporto mettere a fuoco e quali invece lasciar galleggiare in superficie e poi disperdere, come sull’acqua increspata dei canali della città. Le due condividono ciotole di noodles fumanti in minuscoli ristoranti, visitano mostre e fanno del loro meglio per evitare che la pioggia di ottobre rovini i loro programmi. Ma rifugiarsi nei ricordi non è sufficiente quando ci si trova in un corpo a corpo privato di ogni traccia di intimità e possibilità di avvicinamento. Qual è allora il significato di questo errare fianco a fianco?

Il viaggio comincia

Era mattina presto e la strada era piena di gente, la maggior parte lasciava la stazione anziché entrarci, come facevamo noi. Per tutto il tempo mia madre restò al mio fianco, quasi temesse che se ci fossimo separate il flusso della folla, come una corrente, ci avrebbe impedito di tornare l’una dall’altra, mandandoci sempre più alla deriva e allontanandoci ancora e ancora. 

E’ la narratrice, la figlia, a raccontarci perché madre e figlia prendono due voli diversi per ritrovarsi in Giappone. All’inizio dell’anno le avevo chiesto di venire con me in Giappone. Ormai non vivevamo più nella stessa città, e non eravamo mai state via insieme da quando ero adulta, ma iniziavo a rendermi conto che era una cosa importante, per ragioni a cui non ero ancora in grado di dare un nome. Avevo scelto il Giappone perché…forse sentivo che che ci avrebbe messo in una situazione di parità, che saremmo state entrambe straniere. 

Per ragioni a cui non si sa dare un nome

Essere figli non è facile. O meglio, non è sempre facile. C’è un passato con cui fare i conti, un passato che non è il tuo, ma che è presente anche quando non vorresti. Jessica Au spiega in questo passaggio quali sono le ragioni cui non sa dare nome. Una volta io e Laurie (il compagno) avevamo scherzato sulla mia frugalità, sul fatto che finivo sempre gli avanzi di ogni pasto, anche se non avevo più fame, perché non potevo sopportare di vedere il cibo andare sprecato. All’epoca avevo scherzato anch’io, ma non avevo replicato che era la frugalità di mia madre che imitavo, non la mia.

Tempo di neve

In questo loro pellegrinaggio per il Giappone, le due donne cercano una sintonia che probabilmente non hanno mai avuto. Figlie di epoche diverse, di tradizioni diverse, di mentalità distanti. Una donna moderna una, un’emigrata mai perfettamente integrata l’altra. Eppure, durante questo viaggio, di fronte ai quadri o davanti a un tè, senza quasi parlare, madre e figlia imparano a sintonizzarsi sull’altra. O meglio, è la figlia che forse lascia andare la figura materna. Il tutto è pervaso da un senso attutito di perdita, di ultimo incontro, di pensiero su quello che verrà dopo. Il senso attutito della neve, che è nell’aria, ma non cade. E che la madre vorrebbe tanto vedere per la prima volta, anche se sappiamo, chissà come e chissà perché, che non la vedrà mai.

Camminando nella neve

Una novella che mi ha preso, pagina dopo pagina. Che mi ha trasmesso un senso di pace, di tranquillità, come se davvero stessi camminando nella neve e, intorno, silenzio. Avrei voluto che Jessica Au continuasse. Che quella madre così silente trovasse una sua voce. Che non si sentisse troppo l’ineluttabilità della fine. Ma ho adorato il finale, anche se temo che nella traduzione italiana si sia perso il simbolismo delle scarpe (SPOILER in fondo al post). Voglio adottare il punto di vista della narratrice: Esausta e confusa, pensai che forse era giusto non capire tutto, ma limitarsi a vedere le cose e a trattenerne le impressioni. Anche perché Forse è un bene fermarsi di tanto in tanto a riflettere sulle cose che sono successe, pensare alla tristezza potrebbe anche finire per renderti felice.

***

Mentre procedevamo mi chiese del mio lavoro. All’inizio non risposi, poi le spiegai che in molti dipinti antichi si poteva scoprire quello che veniva chiamato un pentimento, uno strato precedente di qualcosa sopra cui l’artista aveva scelto di dipingere altro. Dissi che in questo senso la scrittura era molto simile alla pittura. Solo in quel modo si poteva tornare indietro e cambiare il passato, rendere le cose non com’erano, ma come avremmo voluto che fossero o, piuttosto, come le percepivamo. Aggiunsi che, per quel motivo, era meglio non si fidasse di ciò che leggeva. 

Attenzione, SPOILER: nella versione italiana, si perde il simbolismo delle scarpe. La figlia aiuta la mamma a infilarle, non ad alzarle. In Cina, infilare le scarpe significa intesa reciproca. Quello che la figlia aveva bisogno di trovare.

Leggi anche:

Doireann Ní Ghríofa e Un fantasma in gola

Prenditi cura di mamma, di Shin Kyung-Sook

Margaret Atwood e l’infelicità con l’uomo

Margaret Atwood è una delle autrici viventi più quotate e da poco è stato stampato uno dei suoi primi lavori, La vita prima dell’uomo. Io l’ho ribattezzato “L’infelicità con l’uomo”, perché la lettura di questo romanzo certo non risolleva l’animo e la fiducia nel genere umano. Adesso vi racconto.

Trama

Una coppia apparentemente moderna, libera, aperta: lei, Elizabeth, colleziona amanti senza che Nate, suo marito, ne soffra veramente; lui stesso frequenta una donna, ma questo non compromette, anzi sembra cementare, la loro unione. L’essenziale, dopotutto, è «poter contare l’uno sull’altra». Ma quando il suo ultimo amante si suicida e Nate intreccia una relazione con una giovane paleontologa, il mondo di Elizabeth sembra crollare, e la donna viene assalita da domande esistenziali alle quali non riesce a dare risposta. Nate, per parte sua, non sa scegliere tra le due donne, con l’unico risultato di rendere entrambe infelici…

Il triangolo no

Il triangolo no, non l’avevo considerato, cantava Renato Zero. Invece, Margaret Atwood lo considera e ne fa il centro di questa storia, in cui il lettore si trova a sbirciare dallo spioncino della porta la vita di una coppia sposata e degli amanti che si affaccendano intorno. In un’atmosfera apparentemente tranquilla, eppure densa di rabbia repressa, risentimento, insoddisfazione, infelicità. Un’unione apparentemente solida, che naufraga nel tran tran quotidiano e nella noia. Apparentemente i due non se ne accorgono, o fanno finta di non rendersene conto. Forse, aspirano a rimanere quello che diventano molte coppie col passare degli anni: dei conviventi che crescono insieme le figlie, mantenendo vite separate. Senonché, una tragedia interrompe questo binario verso il nulla.

Indifferenti e civili

Il suicidio di  Chris costringe Elizabeth, Liza, a mettersi di fronte a uno specchio, dove quello che vede non le piace. Come non è piaciuto a me, nonostante gli sforzi di Margaret Atwood di dare delle giustificazioni riferendosi al passato molto difficile della protagonista. Elizabeth non mi piace: la trovo fredda, egoista, cattiva. Ho fatto come Nate, “Ho rinunciato a interrogarmi sulle sue ragioni. Non capisco mai perché fa una certa cosa”. Più avanti il perché si capisce, certo, da anni ormai Elizabeth usava tutta la sua energia per salvare se stessa”. La stessa energia che deve usare il lettore per andare avanti nella lettura. Nate, Elizabeth e Lesje sono tristi, tristi dentro. Chi per un motivo, chi per l’altro, non prendono in mano la propria vita. Pensano che comportarsi in modo civile sia sufficiente per andare avanti. Il che rende assordante la mancanza di civiltà che invece regola i loro rapporti nel profondo. Sembra quasi una replica in salsa canadese de Gli indifferenti, mi perdoneranno il paragone ardito i fan di Margaret Atwood. I quali fan dicono che in questo lavoro il tratto è ancora un po’ acerbo. Mi fido, non ho ancora termini di paragone per poter dire la mia. E’ però un’avvertenza che mi sento di dare a chi deciderà di leggerlo: tenete presente che è una Margaret Atwood agli esordi. La mia speranza è che la sua fiducia nel genere umano sia cresciuta col tempo. Chi la conosce bene mi saprà dire. 

Leggi anche: 

Nell’intimità di Hanif Kureishi: andare o restare?