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Tutto ciò che vi devo – Virginia Woolf

Virginia Woolf. Ci sono scrittori senza amici, chiusi nell’ossessione e nella solitudine della propria arte; ci sono autori con un unico, insostituibile sodale, uno sposo, una sorella, un complice, un compagno, a volte magari un po’ ottuso, benevolo, innocuo. E poi ci sono persone per le quali gli amici sono consustanziali al proprio animo e la vita è degna di essere scritta e vissuta proprio in virtù di coloro con cui la si condivide. A questo ultimo gruppo appartiene di certo Virginia Woof.

Le lettere

Virginia scrive alla sorella Vanessa e alle sue amiche Vita Sackville-West, Ethel Smyth, Katherine Arnold-Forster, Violet Dickinson, Madge Vaughan (la Sally di Mrs Dalloway) e Nelly Cecil. In questo minuscolo libro l’editore ha scelto alcune missive significative all’interno di un ricco epistolario che la scrittrice ha alimentato dal 1903 al 1941 con le figure a lei vicine che più l’hanno coinvolta emotivamente, ondeggiando continuamente tra amicizia, amore e sorellanza.

Solo le donne stimolano la mia immaginazione

L’incipit dell’introduzione di Eusebio Trabucchi inquadra fin dall’inizio le pagine che stiamo per leggere e la persona che si svelerà sotto i nostri occhi. In un pomeriggio tranquillo e lento ho passato qualche ora in compagnia di un buon tè, un libro che ha il solo difetto di essere troppo breve e una scrittrice che fino a quel momento avevo trovato ostica, difficile. D’altra parte, in una lettera alla sorella descrive il suo rapporto tumultuoso con la scrittura così: “cerco sempre di andare dietro alle parole; e poi all’improvviso mi piombano addosso“. Leggendo questa corrispondenza, invece, e sentendomi rassicurata dall’esplicita accettazione di Virginia allo sguardo di estranei “decideranno i posteri se conservarle e cosa farne”, ho scoperto un mondo che va oltre la sua figura di scrittrice anticonformista e poliedrica. Un mondo, privato e tenero, in cui la scrittrice mette da parte la corazza che la contraddistingue e si apre a sentimenti che in fondo l’accomunano a tutti noi: l’accettazione del lutto quando scrive che il fratello è morto confessando di aver mentito nelle lettere precedenti per non turbare l’amica in convalescenza, il pettegolezzo spiccio e ironico sui rapporti amorosi di comuni conoscenti, l’incertezza sulle doti d’intelletto e artistiche, la rivalità  con altre autrici contemporanee sui dati di vendita (mi ricorda qualcosa!), l’insicurezza e la voglia di essere amata e capita, l’allegria e l’occhio acuto con cui racconta una giornata con la nipote e una sua amichetta che finisce con tè e pane caldo, la confusa e divertente oscillazione tra il desiderio di accettare una pelliccia ricevuta in dono e il ribrezzo per l’oggetto ricevuto, il ricordo felice delle estati passate in Cornovaglia con la famiglia da bambina.

Umana, troppo umana

Come direbbe Nietzsche, una Virginia Woolf umana, troppo umana. O, piuttosto, una ragazza prima e una donna poi dotata di grande sensibilità , che nelle lettere si esprime con tutta la libertà concessa da un mezzo di comunicazione privato, senza gli obblighi imposti dall’editoria, e in cui comunque il suo genio è manifesto. Il perché è presto detto, come scrive a Nelly Cecil “penso davvero che dovresti mettere mano a un romanzo: sai scrivere lettere, che è molto più difficile“. Di chi scrive romanzi, invece, non pensa un granché bene: “Il peggio è che in pochi hanno l’intelligenza per scrivere romanzi veramente brutti; mentre chiunque è in grado di tirarne fuori uno decente, e insulso. Quest’affermazione perentoria mi ha fatto sorridere: chissà cosa penserebbe Virginia di noi scribacchini moderni, attaccati come cozze alle stelline amazon!

Penso che Virginia ci prenderebbe ironicamente in giro perché lei sapeva bene cosa conta davvero nella vita: l’amore, gli affetti, le persone. Per questo la sua penna mordace rivela senza remore a Ethel Smyth a cosa lei è determinata ad attaccarsi come una cozza:

“Toglietemi gli affetti e sarò un’alga fuori dal mare, la carcassa di un granchio, un guscio vuoto. Le interiora, il midollo, il succo, la polpa, la stessa mia luce, non ne resterebbe più nulla. Sarei spazzata via, finirei in una pozzanghera e annegherei. Toglietemi l’amore per gli amici e il sentimento bruciante e continuo dell’importanza, dell’insondabilità  e del fascino della vita umana e non sarei altro che una membrana, una fibra, senza colore e senza vita, buona solo per essere buttata via come una deiezione“.

Leggi anche: 

Virginia Woolf: una biografia tutta per sé

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Terapia di coppia per amanti – Diego De Silva

Mentre cucino ‘O scarpariello per cena, penso a cosa scrivere su Terapia di coppia per amanti, per me il primo di Diego De Silva che non appartenga alla serie dell’avvocato Malinconico. Purtroppo, anche stavolta non posso promuoverlo pienamente. Ma andiamo con ordine.

La trama

Viviana e Modesto sono amanti, entrambi sposati con figli. Il loro rapporto è talmente tormentato che la donna costringe lui a sottoporsi a una terapia di coppia. Vanno allora dal professor Malavolta, star di una trasmissione televisiva, senza immaginare che il terapista abbia a sua volta problemi di cuore. Come finirà? I due amanti metteranno il The end alla loro storia, oppure rinunceranno alle loro famiglie per viverla pienamente e alla luce del sole?

‘O Scarpariello e niente più

Credo che proprio lo scarpariello, una ricetta che non conoscevo, sia l’elemento positivo che ho tratto dalla lettura del romanzo. Eppure quest’ultimo mi incuriosiva, un po’ per il tema trattato, cioè una coppia di amanti che si ritrova a vivere gli stessi problemi di una coppia ufficiale, un po’ perché volevo scoprire un De Silva diverso da quello “Malinconico” finora frequentato. Confesso che però, nonostante le ottime premesse, con Terapia di coppia per amanti mi sarei fermata dopo meno di 100 pagine se non avessi voluto scoprire come sarebbe andata a finire. Perché lo svolgimento è lento, a tratti noioso, pieno di stereotipi, inverosimile fino a sfiorare l’assurdo. Soprattutto, la famigerata terapia di coppia per amanti arriva dopo più di cento pagine dall’inizio del libro, quando invece sarebbe dovuta iniziare subito o quasi. Non sono troppe cento pagine per inquadrare contesto e situazione?

Mogli e mariti traditi, dove siete?

Secondo me sì ed è in questo aspetto che ho rintracciato il peggiore difetto del romanzo, che personalmente avrei centrato quasi esclusivamente sulle sedute di terapia e sulla vita coniugale dei due. Difetto seguito da una storia a più voci dove le differenze tra uomo, donna e analista non si percepiscono abbastanza. Sembrano scritti e pensati dalla stessa mano e mente, quando così non dovrebbe essere. Marito e moglie traditi, per giunta, risultano non pervenuti. Passi per il marito, perlopiù rassegnato, ma una moglie che non si accorge di niente o, peggio, fa finta di niente, non esiste in natura!

Scrittura piacevole

Salvo la scrittura sempre piacevole dello scrittore, che risulterebbe più efficace senza i continui intermezzi di pensieri vari che non sono riconducibili ai protagonisti, stesso commento che mi aveva suscitato il terzo Malinconico, e alcuni passaggi divertenti che mi hanno fatto ridere di cuore. A questo punto, se non l’avete ancora letto e avete intenzione prima o poi di farlo, passate direttamente alla ricetta dello scarpariello che Modesto e Viviana vanno a mangiare nella loro trattoria preferita dopo aver fatto l’amore, che è proprio buono.

Altrimenti, accedete allo spoiler.

Spoiler, spoiler, spoiler (fermatevi prima se non l’avete letto)

E poi scusatemi, ma quando mai una madre che riconosce la suoneria dell’iphone e pensa che il figlio l’abbia comprato alle spalle dei genitori, non si chiederebbe dove abbia preso i soldi per acquistarlo, prima di cominciare a indagare silenziosamente e ferocemente sui presunti traffici del pargolo? E quale moglie, il cui marito le comunichi l’intenzione di traslocare e di prendersi una pausa, non gli farebbe immediatamente l’interrogatorio di terzo grado (vedi storia dell’iphone) seguito da violenta scenata di gelosia?

Voi che dite, vi è piaciuto?

***

Non è una bella scoperta, dal momento che la verità incontestabile che la sorregge è che ti sei innamorato come una braciola. Che hai bisogno di lei, che ti piace da morire il modo in cui si muove e gesticola, parla e pensa, mangia e beve, starnutisce e sbadiglia, si veste e si spoglia;

Leggi anche:  

‘O Scarpariello degli amanti in terapia

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Sono contrario alle emozioni – Diego De Silva

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Jamaica Inn: leggende, fantasmi, navi pirata e l’incontro con la quinta scrittrice

Dopo un sonno ristoratore, cullati dal vento forte che a tratti ci è sembrato potesse far crollare la fattoria, ci siamo alzati la mattina di buonumore e in preda a una fame pazzesca. Dopo il cornish cream tea che la padrona di casa ci aveva gentilmente offerto la sera prima, infatti, non ce la siamo sentita di cenare. Scelte che ovviamente si pagano il giorno dopo. La colazione ci è stata servita nella sala da pranzo della fattoria, dove ci siamo ritrovati a banchettare con una full english breakfast vista oceano. Una meraviglia per gli occhi e per lo stomaco: caffè, tè, uova strapazzate, bacon, yogurt e panini fatti in casa, fragole, frutta secca, burro, miele, cereali e biscotti, con la signora che faceva avanti e indietro continuamente per assicurarsi che non fosse poco. Poco??? Sembrava un pranzo nuziale! Siamo grati per aver incontrato sulla nostra strada gente autenticamente ospitale, che ha voluto condividere con noi anche i segreti della cucina. Appena ho chiesto alla mia ospite come avesse fatto i panini, ha tirato fuori il libro di cucina e mi ha invitato a fotografare la ricetta, ha preso dalla cucina una ciotola con l’impasto in lievitazione per farmi vedere come deve venire, mi ha regalato una bustina del lievito secco che usa lei per provarci e mi ha anche chiesto di spedirle la foto dei panini per farle vedere come sono venuti. Con una certa rassegnazione, e tanti saluti festosi da entrambe le parti, ci siamo salutati e abbiamo ripreso il nostro viaggio, a pancia piena e mente leggera.

Direzione

Jamaica Inn stands today, hospitable and kindly, a temperance house on the twenty-mile road between Bodmin and Launceston.

Oggi il Jamaica Inn è una locanda che non vende alcolici e sorge, ospitale e accogliente, lungo la strada dche va da Bodmin a Launceston.

Così Daphne Du Maurier nel 1935 descriveva il pub verso cui siamo diretti nell’introduzione all’omonimo romanzo. Ed è proprio per lei che sto venendo qui, perché è un posto in cui la scrittrice, che visse a lungo in Cornovaglia, amava soggiornare e che le ha dato l’ispirazione per realizzare uno dei suoi romanzi di maggior successo, successivamente trasposto al cinema da Alfred Hitchcock in un film di grande successo.

Non è un posto di passaggio, per arrivare fin qui bisogna essere intenzionati a vederlo e, dopo averci passato qualche ora, leggere il romanzo assumerà tutto un altro sapore. Ora vi racconto perbene (spero). Siamo arrivati più o meno all’ora di pranzo in questa landa desolata, dove praticamente c’è solo questa locanda. E’ subito chiaro come e perché questa costruzione avesse assunto un ruolo centrale come snodo del contrabbando subito dopo la sua costruzione, nel 1750. Formalmente locanda per viaggiatori di passaggio, in realtà veniva utilizzata per nascondere i prodotti di contrabbando che arrivavano via mare. Pare che circa la metà del brandy e un quarto 20170819_122748_LLSdi tutto il tè che veniva contrabbandato nel Regno Unito sbarcasse lungo le coste della Cornovaglia e del Devon. Il Jamaica Inn, in particolare, si trovava in un luogo remoto e isolato, quindi ideale per fermarsi sulla strada prima di continuare verso il Devon e oltre. Nel 1778 fu anche allargato, per includere una stazione per le carrozze, scuderie e una selleria, facendo assumere all’edificio l’aspetto a L che vediamo ancora oggi. Adesso è più banalmente una tappa folcloristica, dove si può dormire, mangiare, bere birra e visitare il museo dei contrabbandieri. La taverna si chiama così non perché nascondesse il rum di contrabbando importato dalla Giamaica, ma prende il nome dalla più importante famiglia di proprietari terrieri locali, i Trelawney, in omaggio al fatto che due suoi membri furono governatori della Giamaica nel XVIII secolo. Secondo gli storici, all’epoca sulla costa della Cornovaglia abbondavano delle gang che attiravano le navi sugli scogli proiettando luci che gli armatori scambiavano per quella dei fari, per poi razziare barche e navi appena queste andavano a infrangersi sugli scogli e loro stessi venivano incaricati di disincagliarle.

Daphne Du Maurier al Jamaica Inn

La storia dei contrabbandieri è molto interessante e avevo già fatto la loro conoscenza a Polperro, Mullion, Lizard Point, Tintagel e Boscastle, ma non è questo il motivo per cui mi sono avventurata fin qui. Sono qui per la quinta delle scrittrici che sono venuta a trovare in questo viaggio letterario. Dopo Agatha Christie, Jane Austen, Virginia Woolf e Rosamunde Pilcher, stavolta voglio incontrare Daphne Du Maurier.

Il Jamaica Inn, infatti, è così famoso perché la scrittrice nel 1936 pubblicò un romanzo di grande successo incentrato proprio sulla storia IMG_6460di una giovane che, alla morte della madre, va a stabilirsi dagli zii, locandieri del Jamaica Inn, senza sapere in quali traffici loschi si troverà invischiata. La stessa autrice ha raccontato di avere avuto l’ispirazione dopo che lei e un amico nel 1930 si persero nella nebbia mentre cavalcavano e si fermarono nella notte nella locanda perché troppo pericoloso proseguire. Durante il tempo trascorso nella taverna, si dice che il parroco locale l’abbia divertita con storie di fantasmi e racconti di contrabbando. Più tardi, Daphne du Maurier continuò a trascorrere lunghi periodi presso l’Inn, parlando apertamente a più riprese del suo amore per la località. Il romanzo è poi diventato un film diretto da Alfred Hitchcock nel 1939, che l’anno successivo diresse anche Rebecca la prima moglie, altro titolo della scrittrice, e qualche anno più tardi il più famoso Gli uccelli.

Il Museo

Abbiamo visitato il museo, soffermandoci in particolare sull’ala dedicata proprio a Daphne. In sua 30memoria, i proprietari del Jamaica Inn hanno ricreato il suo studio, con la scrivania e la macchina da scrivere, insieme a un pacchetto di sigarette “Du Maurier”, chiamate così in onore del padre, famoso attore britannico, e un piatto di  mentine, le sue caramelle preferite. Ci sono poi una serie di oggetti appartenenti all’era del contrabbando e un video che ricostruisce la storia della locanda, che si dice sia infestata dai fantasmi. Secondo la credenza popolare, infatti, nelle notti più fredde, al chiaro di luna si ode il rumore dei cavalli al galoppo e delle ruote, voci che parlano in una lingua sconosciuta, cornico antico?, si scorgono delle IMG_6464ombre che sfrecciano e un uomo che appare e scompare tra le porte in abiti ottocenteschi. E cosa dire della storia più terribile? Molti anni fa uno sconosciuto sedeva al bar bevendo birra. Dopo essere stato chiamato fuori, lasciò la birra e uscì nella notte. Quella fu l’ultima volta che venne visto vivo. La mattina seguente, il suo cadavere fu trovato nella brughiera, ma le cause della morte e l’identità del suo aggressore rimangono ancora un mistero. la cosa strana, fu che in molti l’avevano visto seduto su un muretto. I padroni di casa, sentendo dei passi di notte lungo il passaggio che conduce al bar, credevano fosse lo spirito dell’uomo morto che tornava per finire la sua birra. Nel 1911, suscitò sconcerto nella stampa la notizia di uno strano uomo che era stato visto da molte persone seduto sul muro fuori dall’Inn. Non parlava, né si muoveva, né rispondeva a un saluto, ma il suo aspetto era simile a quello dello straniero assassinato. Potrebbe essere il fantasma del morto? E quale strano obbligo lo porta a ritornare così spesso al Jamaica Inn?

Ci sono davvero i fantasmi?

Vi ho spaventato? No, vero? Infatti anch’io mi sono fatta due risate. Ora però dovete avere pazienza e leggere cosa mi è successo appena uscita dal museo. Ho chiesto al ragazzo del bar di darmi una birra “leggera”. Mi sono alzata da tavola ondeggiando, in qualche modo sono arrivata al bagno e il cellulare mi è caduto nella tazza. Mentre asciugavo il cellulare sotto l’aria calda, mi è sembrato di sentire l’eco di una risata. Un contrabbandiere si è forse divertito con me?

Arrivederci Cornovaglia

Apatica e muta, tipo lo straniero assassinato, vi devo dire che la mia esperienza favolosa in Cornovaglia finisce qui. Il mio è un arrivederci, ne sono sicura, e il viaggio letterario va avanti. Lasciatemelo però affermare con il cuore in mano: la Cornovaglia è un luogo dell’anima, e se ci ho convinto a fare un viaggio come il mio che comprende delle tappe in altre regioni del Regno Unito, datemi ascolto, lasciatela per ultima. Perché dopo essere stati rapiti e ammaliati da questa terra magica, il resto vi sembrerà niente. O quasi. Domani vi racconterò di Salisbury, della Magna Charta e dell’orologio più antico del mondo.

(continua)

Leggi anche: 

Daphne Du Maurier, il lato oscuro di una scrittrice di successo

Assassinio alla BBC – Val Gielgud & Holt Marvell

Non viaggio mai senza un libro dietro, e ora che il mio ereader è rotto, dovevo selezionare con cura un titolo adatto al mio viaggio letterario Sulle tracce delle grandi scrittrici. Mentre cercavo tra i romanzi ancora da leggere, mi è capitato sottomano questo. Perfetto, ho pensato. Se una delle autrici del viaggio è Agatha Christie, un giallo scritto da due uomini suoi contemporanei, Val Gielgud & Holt Marvell, e ambientato a Londra, città  da cui ho iniziato il giro, non può che essere una buona scelta. E così infatti è stato.

La trama

Il bandito scarlatto: così si intitola il nuovo radiodramma che sta per andare in onda sulle frequenze della BBC. L’autore è Rodney Fleming, la nuova stella del teatro inglese. E’ una sera di mezza estate, e tutto è ormai pronto per la trasmissione; sarà  in diretta e il regista, il responsabile degli effetti sonori e gli attori sono ai loro posti nei diversi studi della Broadcasting House. In uno di questi, il 7C, si trova, da solo, Sidney Parsons, un attore semisconosciuto abituato a interpretare parti di secondo piano. E anche questa volta il suo ruolo è marginale: deve dire poche battute, quindi fingere di morire strangolato. Nonostante un paio di intoppi tecnici, la trasmissione procede nel migliore dei modi. Ma quando gli attori si radunano prima di tornare a casa, Parsons non compare. Un controllo nella saletta 7C ne spiega il motivo: è morto. Strangolato. Quella che doveva essere una semplice finzione è diventata realtà : un omicidio in diretta udito dalle centinaia di migliaia di persone che stavano ascoltando il programma.

Vi do un indizio 

Romanzo del 1934, rimasto inedito in Italia fino al 2009, rispetta tutti i canoni del giallo classico. Un omicidio in diretta durante una trasmissione radio, un accusato e altri quattro sospettati, un ispettore di Scotlard Yard che indaga con arguzia e costanza. Il ritmo è incalzante e le tracce e gli indizi si dipanano piano piano. Come in ogni giallo che si rispetti, ovviamente ho tentato di capire chi fosse l’assassino prima del finale. Non faccio spoiler, ma vi do anch’io un indizio: i due autori danno la chiave e a un certo punto, facendo bene attenzione alle risposte dei personaggi, saprete chi è l’assassino. O l’assassina. Solo che non potrete fare come Topsy, non potrete suggerire niente all’ispettore! Solo aspettare che anche lui piano piano ci arrivi. Diabolici questi due scrittori di inizio novecento. D’altra parte, come già  sapete, scoprire gli autori del passato mi piace.

W gli sceneggiati radiofonici

L’unica cosa che non mi convince in pieno del romanzo è la motivazione dell’assassinio, però forse è dovuto più che altro a un senso dell’onore dell’epoca che oggi ci sfugge. Oltre alla storia in sé, ho trovato interessante anche la descrizione tecnica di come avvenivano le dirette degli sceneggiati radiofonici e divertente cercare di indovinare in quale personaggio si nascondessero gli autori. Nella vita, infatti, Val Gielgud & Holt Marvell erano entrambi dipendenti della BBC e lavorano insieme, quindi la ricostruzione dovrebbe essere fedele. Quanto vorrei che li facessero anche oggi! Penso che potrebbero ancora avere la loro fetta di pubblico. Penso anche che questa collana de I bassotti sia buona e ho già adocchiato altri titoli da leggere. Prima però mi butterò a capofitto sui libri che ho riportato a casa dal viaggio letterario, uno di Daphe Du Maurier e uno di una scrittrice locale che ho incontrato per caso in Cornovaglia. Ma di questi incontri vi racconterò come si deve nel diario di bordo…

La metà di niente – Catherine Dunne

Un giorno Ben entra in cucina. Sta cercando Rose, che è occupata a bollire le uova.

«Rose.»

Ultimamente non l’ha quasi mai chiamata per nome, perciò lei alza lo sguardo sorpresa.

«Dobbiamo parlare.»

Il mondo crolla, anni e anni precipitano turbinando, vite vengono distrutte. Adesso Rose sa che tutte le venture sono state annunciate da quella frase. Dobbiamo parlare.

«Devo andar via per un po’. Penso che abbiamo bisogno di stare ognuno per conto proprio, solo per un periodo. Mi dispiace farlo così, ma è che non sono felice.»

Rose fissa le uova.

Trama

Rose e Ben sono una coppia come tante. Dublinesi, sui 40 anni, sposati da vent’anni, tre figli, casalinga lei e imprenditore lui. Annoiati, con giorni che si susseguono sempre uguali. Ma questo non è un giorno come gli altri, perché Ben ha deciso di lasciare la famiglia per un’altra donna. Rose si ritrova di punto in bianco a dover fare fronte all’emergenza economica immediata, a doversi improvvisare capofamiglia, a inventarsi un mestiere e un nuovo equilibrio familiare. Grazie al sostegno delle persone che le sono vicine e a risorse che non sapeva neanche di avere, riesce a riprendere in mano le fila della routine domestica e a ritrovare una parvenza di felicità.

L’esordio di Catherine Dunne

In questo romanzo d’esordio, la scrittrice irlandese Catherine Dunne alterna la cronaca dei fatti che stanno accadendo nel 1995, anno in cui Ben decide di voler tornare a essere felice, alla ricostruzione della storia che li ha portati da giovani fidanzati ai drammatici eventi di oggi.

“Non era più la metà di una rispettabile, solida coppia borghese. Era la metà di niente.”

Questa frase, secondo me, racchiude l’essenza del libro. Rose e Ben anelano entrambi al riconoscimento sociale, a costruire un nucleo che li faccia sentire accettati, dove ognuno si comporta con giudizio e secondo quanto gli viene richiesto, senza chiedersi mai se è questo ciò che davvero vuole. Quando Ben annuncia alla moglie di aver deciso di andarsene, non sta infliggendo un duro colpo a una moglie innamorata, no, ma a una donna che ha fatto dell’apparenza e della convenienza il suo stile di vita. La sua prima reazione, infatti, non è di disperazione per l’abbandono, ma d’incredulità, perché queste sono cose che succedono agli altri, non a lei.

Ma chi sono gli altri?

Sono quelli che accompagnano i figli a scuola, che fanno spesa al supermercato, che puliscono casa ogni giorno, che aspettano la ciurma la sera con un piatto fumante in tavola. Gli altri siamo noi. E quando tutte queste attività quotidiane perdono di senso, non possiamo fare altro che chiederci: chi sono io? Perché “gli altri” continuano a girare per il supermercato come se nulla fosse successo? Perché in effetti è così: per loro, per “gli altri” non è successo proprio nulla, il mondo continua a girare lo stesso. Il dramma privato, se possibile, deve essere tenuto nascosto. Se ti chiedono come stai, devi rispondere: “bene”, non “mi sento morire, non lo vedi?”, perché potrebbero prenderti per pazzo o, peggio, allontanarti per sempre.

Gli altri elementi del romanzo di Catherine Dunne, tutto sommato, sono meno interessanti. Sorvolo sulla traduzione, zeppa di errori soprattutto sulla consecutio temporum. I continui flashback rendono la lettura veloce, ma non arricchiscono più di tanto le figure dei protagonisti, né del loro contorno familiare. Rose e Ben rimangono due personaggi piatti, senza grandi evoluzioni, fondamentalmente bloccati nel loro egocentrismo. Anche se l’autrice prende evidentemente le parti della donna, direi che entrambi risultano alla fine due bambini poco cresciuti.

Ho cercato per anni di parlarti”. (attenzione, spoiler)

Ben lascia la moglie e i bambini nei guai, è vero, ma anche lei sembra talmente impegnata a costruire la famiglia del Mulino Bianco per gli estranei da non accorgersi di quello che le succede in casa. Eppure, i segnali c’erano tutti. In fondo, non è sempre così? Siamo sempre gli ultimi a capire quello che ci riguarda. Anche gli accadimenti risultano inverosimili: lei si trasforma in una super donna imprenditrice di se stessa in pochi mesi, trovando lavoro senza neanche cercarlo! Forse, Catherine Dunne ha voluto aprire uno spiraglio di speranza per tutte le donne che subiscano un divorzio, ma il percorso dall’abisso alla risalita è lungo e andrebbe esplorato fino in fondo, non lasciato, appunto, a metà.

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