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Cime tempestose, un paradiso del perfetto misantropo

Per il Book Club, stiamo leggendo Cime tempestose, di Emily Brontë. Dopo i primi giorni di lettura solitaria, iniziamo parlando insieme dell’ambientazione. Ormai sapete come funziona, sentitevi liberi di commentare sotto il post le vostre sensazioni, perplessità, emozioni, e tutto ciò che il libro della scrittrice inglese vi sta trasmettendo, in positivo o in negativo.

Il romanzo inizia nel 1801 

La storia ha inizio nel 1801, quando nel casale di Thrushcross Grange arriva un nuovo inquilino, Mr. Lockwood.  E sono sue le impressioni che ci introducono all’atmosfera che si respira in casa del proprietario. La Tempestosa, quando il nuovo arrivato va a fargli una visita di cortesia. “Credo che in tutta l’Inghilterra non avrei potuto trovare un luogo così discosto da ogni rumore mondano. Un vero paradiso del perfetto misantropo: e il signor Heathcliff e io siamo fatti apposta per dividerci tanta solitudine.” Ci troviamo nella brughiera inglese, che rappresenta uno specchio perfetto delle violente emozioni dei personaggi. 

Yorkshire

La scrittrice Emily Brontë e le sorelle Charlotte e Anne vissero sempre Haworth, un piccolo paese dell’Inghilterra settentrionale, vicino alle cittadine di Halifax e Bradford, sopra Londra e a circa 30 chilometri da Leeds. Immerse in un paesaggio che Emily amava molto, come dice sua sorella Charlotte: “Mia sorella Emily era innamorata della brughiera; …la sua mente sapeva trasformare in un Eden la più tetra valletta affossata sul livido fianco di una collina. Nella squallida solitudine trovava le più rare delizie; e certamente, non ultima, anzi, la più amata, la libertà”.  E quale anima contemplativa non amerebbe la solitudine della brughiera? In Cime tempestose, quindi, siamo immersi in un’atmosfera che la scrittrice conosceva benissimo e che ci ha descritto superbamente.

Ponden Hall e la camera da letto

Ponden Hall a Sansbury, nello Yorkshire occidentale, è la dimora risalente, pensate, al 1541 che ha ispirato Emily Bronte e che alla fine dell’anno scorso è stata messa in vendita per un milione di sterline, dopo essere stata usata per anni come b&b dagli attuali proprietari. Le sorelle Emily e Anne si sono imbattute per la prima volta in Ponden Hall da bambine, durante il Crow Hill Bog Burst, una frana di fango avvenuta in seguito a forti piogge nel settembre 1824. Le sorelle hanno poi continuato a frequentare la casa, che è poi diventata fonte di ispirazione sia per Cime tempestoew sia per La signora di Wildfell Hall, scritto da Anne. La biblioteca di Ponden, considerata una delle più belle del West Yorkshire e che vanta un primo portfolio di Shakespeare, era particolarmente attraente per i Brontë, che si fermavano spesso a usarla.
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fonte: BBC

“Quando fui entrato in quella camera, ed ebbi richiuso l’uscio, mi guardai attorno in cerca del letto, – descrive Mr Lockwood all’inizio del romanzo. –  L’intero mobilio consisteva in appena una sedia, un armadio, e una gran cassa di quercia con due tavole quadrate tagliate nelle pareti a guisa degli sportelli di una carrozza. Avvicinatomi a quel cassone, vi guardai dentro; mi ricordai allora di quei singolarissimi, antichi letti, foggiati ad arte per risparmiare ai componenti di una famiglia di avere una camera ciascuno. Formava infatti come uno stanzino e l’assicella che stava sotto a un finestrino nell’interno serviva da tavolino”. Che dite? Somiglia o no alla vera camera di Ponden Hall?

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fonte: Tripadvisor 

Proprio da qui, quindi, partiamo coi commenti: Emily  Brontë come descrive il paesaggio? Siete riusciti a immergervi nella brughiera inglese attraverso le sue parole? Vi è sembrato di essere con lo spaesato Mr. Lockwood a La Tempestosa? Abitereste mai in un posto del genere o preferite le città animate?

Sono solo alcuni suggerimenti. Sentitevi liberi di riportare frammenti di testo e le vostre parole. Non ci sono quelle giuste, né quelle sbagliate. Qui quello che importa sono sono le nostre emozioni. Avete voglia di provare? Aspetto i vostri commenti sotto a questo post! Abbiamo tutta la settimana per commentare e leggere, poi passeremo ai personaggi.

p.s. ovviamente se l’avete già letto, o se capiterete in futuro su questo post, i vostri pareri sono benvenuti 🙂

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Per il Book Club PeC leggiamo: Cime tempestose, di Emily Brontë

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Per il Book Club PeC leggiamo: Cime tempestose, di Emily Brontë

Cime tempestose di Emily Brontë è il quarto libro che leggeremo per il Book Club PeC. C’è aria d’autunno e torna la voglia di leggere storie di passione e nebbia, castelli e brughiera, magari in compagnia di una tazza di tè fumante. In poche parole, dopo la pausa estiva torniamo alle nostre sane abitudini di lettura condivisa con un grande classico. E dopo l’ambientazione americana e asiatica, stavolta atterriamo in Europa. Vi piace l’idea di leggere insieme? Intanto vi dico come procuravi il libro e poi iniziamo!

Dove trovare il romanzo? 

Se non avete il romanzo in libreria, vi do qualche link per riuscire a leggerlo online. Il testo in pdf si trova sul sito della scuola Nino Martoglio, tra i materiali per gli studenti. Oppure, se vi incuriosiscono gli audiolibri, è in versione audio sul sito Raiplayradio, all’interno del programma Ad alta voce. Recuperata la materia prima, siamo pronti a partire. Parleremo dell’ambientazione, dei personaggi, della storia. Ci confronteremo con sensazioni, modi di pensare, idee diverse dalle nostre. Soprattutto, avremo a che fare con una nuova concezione del romanzo, che si sta affacciando in epoca recente e che potrà trovarci d’accordo o meno. Ma di questo avremo tempo di riparlare. Ora vi lascio la trama e qualche dettaglio iniziale sul romanzo che stiamo per leggere. Alla prossima settimana con altre curiosità sul romanzo e il primo dibattito!

Trama

Heathcliff, un orfano, viene accolto da Mr. Earnshaw, ricco gentiluomo proprietario di Wuthering Heights, un castello nelle campagne inglesi. Tra Heathcliff e Catherine, figlia di Earnshaw, nasce un’attrazione che, tra scontri famigliari e dolorose rinunce, sarà fatale per entrambi. 

Cenni sul romanzo

Cime tempestose (Wuthering Heights) è l’unico romanzo di Emily Brontë, scritto fra l’ottobre 1845 e il giugno 1846. Venne pubblicato per la prima volta l’anno successivo, con lo pseudonimo di Ellis Bell, mentre una seconda edizione postuma fu curata da sua sorella Charlotte nel 1850. Il titolo viene dal nome di una delle tre principali ambientazioni del libro (Wuthering Heights, Gimmerton, Thrushcross Grange) il casale nella brughiera dello Yorkshire originariamente di proprietà degli Earnshaw, dove fu allevato Heathcliff e dove la storia si sviluppa. Il romanzo alla sua uscita non venne accolto bene, anzi. Fu addirittura definito Un compendio di volgare depravazione e orrori innaturali”, da una rivista femminile dell’epoca. 

Vuoi partecipare? 

Sei capitato qui per caso, ma vorresti saperne di più? Se anche tu vuoi partecipare al Book Club PeC leggi qui come farlo. Unico requisito: tanta voglia di leggere.

A.A.A. cercasi lettori per Club di lettura P&C. Ecco come partecipare!

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Vera, di Elizabeth von Armin, tra modernità e ironia la condizione della donna

Vera è il primo romanzo di Elizabeth von Armin che leggo, a detta della stessa autrice quello che meglio la rappresenta. Perché in questa storia di rapporto coniugale c’è molto della sua vita “vera”, anche se la sua scrittura brillante fa emergere fin dall’inizio l’archetipo dell’amore malato. Mi piacerebbe aggiungere “che affliggeva le donne nel passato”, ma in realtà è una condizione ancora ben presente nella società attuale. Di Vera, e delle donne come lei, possiamo leggere tutti i giorni sul quotidiano, il più delle volte per commentare con un rip, aspettando la prossima.

Trama

Lucy Entwhistle, ventiduenne ancora un po’ bambina, e Everard Wemyss, bell’uomo maturo, sono entrambi in lutto quando si incontrano per la prima volta: lei ha appena perso l’adorato padre, lui la moglie Vera. Consolandosi a vicenda, finiscono per innamorarsi e si sposano in fretta. Dopo le nozze vanno a vivere nella casa di lui, un luogo intriso di rituali dove aleggia lo spettro della prima moglie Vera, scomparsa in circostanze misteriose. Ed è fra queste mura che Lucy comincia a chiedersi: cos’è successo davvero a Vera?

Un uomo semplice 

La morte di Vera è stata accidentale, questo Everard racconta a Lucy. E perché lei non dovrebbe crederci? E’ sempre vissuta protetta dal padre, il suo scudo, il suo filtro per capire il mondo. Certo, il padre e i suoi amici facevano discorsi che Lucy non riusciva a comprendere del tutto, se non dopo le spiegazioni dell’adorato papà. Invece, Everard è un uomo semplice, che parla in modo semplice, che è deciso a vivere la vita secondo le sue granitiche convinzioni. Everard è un’ottima spalla cui appoggiarsi, ora che suo padre non c’è più. Perché, però, l’adorata zia, la sorella del padre, arguta come lui, non lo considera un buon partito per la sua preziosa nipote? Anche la zia non saprebbe dire perché, ma c’è qualcosa in quell’uomo che lei proprio non riesce a digerire.

 Semplice e indigeribile

Segnatevi queste parole, se deciderete di leggere il romanzo: semplice e digerire, perché solo la chiave per interpretare lo svolgimento dei fatti. Everard è un uomo tutt’altro che semplice; piuttosto, è “uno scolaro bisbetico, che si comportava da maleducato; ma sfortunatamente, uno scolaro dotato di potere“. E anche se “Lucy scoprì che il matrimonio era diverso da come l’aveva immaginato. Anche Everard era diverso. Tutto era diverso”, c’è ben poco che il/la partner con la posizione più debole possa fare. Soprattutto una ragazza immatura come Lucy, abituata alla gentilezza e alla protezione del suo piccolo mondo familiare. Per una ragazza come Lucy, è facile convincersi di essere nel torto: “Lizzie era via da neanche cinque minuti che Lucy era già passata dall’infelicità e dallo smarrimento al giustificare il comportamento di Everard; nel giro di dieci minuti ebbe ben chiare le buone ragioni per cui si era comportato in quel modo; in capo a un quarto d’ora si era addossata tutta la colpa per gran parte di ciò che era successo.”

I salici (piangenti)

Ora, saremmo tutti portati a dire che la soluzione sia in fondo semplice. Il marito si rivela per quello che è, manipolare, egocentrico, uno che fonda i suoi rapporti sul terrore e la sottomissione, mascherando la dittatura con un linguaggio lezioso e improponibile passati i quindici anni di età (e forse anche prima), esprimendosi a più riprese con cuoricino, gattina, sciocca scemottina, e amenità di questo genere. La residenza di campagna in cui Lucy si ritrova, The willows, I salici piangenti non a caso, è a sua immagine e somiglianza, ci sono delle belle pagine in cui Elizabeth von Armin induce nel parallelismo tra casa e padrone. Padrone, sì, perché ovviamente il proprietario incontrastato è solo lui. Anche i domestici, sono testimoni silenziosi, molto silenziosi, dei suoi atteggiamenti. Perché lui ha il potere, il potere di pagare profumatamente il loro silenzio. Tanto che l’unica alleata per Lucy diventa proprio…Vera, la prima moglie di Everard, che pervade tutta la casa con il suo spirito. Però siamo sinceri, quante donne ancora oggi sopportano in silenzio senza reagire? Oppure reagiscono, e finiscono per essere maltrattare proprio da chi dovrebbe proteggerle? E cosa dovremmo aspettarci da una fanciulla di inizio novecento? Che coraggiosamente divorzi?

Modernità e ironia

Come finirà? Non ve lo dico, gustatevi la lettura. Dico solo che forse il finale non è poi così importante. O forse sì, dipende dai punti di vista. Quello che conta, a mio avviso, è la modernità con cui Elizabeth von Armin affronta un tema da lei probabilmente vissuto in prima persona. Con il coraggio e la forza di uscirne, vivendo una vita piena e indipendente dopo due matrimoni disastrosi. E l’ironia con cui lo affronta, spezzando i toni cupi della tortuosa vicenda matrimoniale. Tipicamente inglese è il suo gusto per i particolari, apparentemente insignificanti, che tratteggiano un’epoca. In alcuni punti, quando a parlare sono i domestici, ho sentito l’eco di Quel che resta del giorno, di Kazuo Hishiguro, scritto decenni dopo. Nell’atmosfera generale, nell’ambientazione e nella figura femminile che dà il nome al romanzo, indubbiamente Rebecca, di Daphne Du Maurier. La quale certamente conosceva questo romanzo, sono sicura, giungendo a conclusioni diametralmente opposte, però. Come sapete, Daphne Du Maurier è stata accusata a più riprese di plagio per Rebecca, ma da Elizabeth von Armin posso dire che ha preso solo spunto, nient’altro. Mentre Elizabeth von Armin conosceva e apprezzava Cime tempestose di Emily Brontë, che fa comparire in braccio a Lucy nel momento più opportuno. Ed era la cugina di Katherine Mansfield: poco ma sicuro che le due cugine sugli uomini la pensassero nello stesso modo!

***
Intanto, chiedo a voi: avete letto qualcosa di Elizabeth von Armin? Quale titolo vi è piaciuto di più?

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Basket, iI match decisivo di Nelly Taggart

Un romance ambientato nel mondo del basket, con l’amore che va a canestro tra un allenatore e una giornalista. Ormai da classificare come vintage, è uscito nel 2007, e non proprio soddisfacente.

Trama

Antonia Phillips odia il basket e tutti quelli che hanno a che fare con questo sport. È una sentenza definitiva e senza appello, fino al giorno in cui deve intervistare il misterioso e affascinante allenatore di una famosa squadra di pallacanestro. Giovane e indipendente, Antònia, detta Nia, deve fare i conti con un matrimonio fallito e con l’amarezza lasciatale dai continui tradimenti del suo ex marito, giornalista sportivo. Ovvio che lei non voglia più avere a che fare con quel mondo, ma il suo capo è intenzionato a farle fare un servizio su Daniel Strahan: bello, scapolo, vive per lo sport e detesta i giornalisti. Le difese di entrambi vengono messe a dura prova, ma forse l’amore e la fiducia sono solo…questione di allenamento! 

Aspettative disattese 

Un romanzo breve, che si legge in poche ore e che non offre nessuna sorpresa. Ho cercato di rintracciare notizie su quest’autrice, ma non ho trovato nulla. Come non ho trovato niente cercando con il titolo originale in inglese. Strano, credo che sia una di quelle uscite in serie scritte probabilmente da un pool di persone. Comunque, a parte questa nota di curiosità personale, la trama prometteva quello che la realizzazione ha poi disatteso. Lui, un allenatore di basket un po’ filosofo, lei, scottata da un matrimonio in cui il marito preferiva il basket, e le altre donne, a lei. Tutti e due indipendenti e orgogliosi, le premesse per piacermi c’erano tutte. Poi, lei si trasforma nella solita donna dimessa, che per amore deve fare rinunce e, ovviamente, l’articolo non passa in secondo, passa in penultimo piano. Tanto che la soluzione finale è abbastanza assurda. Lui, uomo tutto d’un pezzo, che studia per crearsi un futuro, non riesce a trovare una soluzione di mezzo che accontenti entrambi. E poi, il vicino anziano che lei ama tanto e che neanche accompagna in ospedale quando ne ha bisogno…Insomma, senza svelare altri particolari, la scintilla stavolta non è scoccata.

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Altri romanzi vintage su Penna e Calamaro

Daniela Amenta e La ladra di piante di Monteverde vecchio

Daniela Amenta è una giornalista romana di lungo corso, esperta di musica rock e politica, due mondi che sembrano lontani anni luce, ma che in comune hanno la passione. La stessa passione che muove i protagonisti: per le piante lei, per la musica lui. In mezzo, un delitto, un’inchiesta, un informatore e una Roma immersa in una cappa d’afa. E non solo.

Trama

Quell’estate a Roma faceva molto caldo. E quando Roma si arroventa perde la sua grande bellezza e si trasforma in una città dura, arrogante, coperta da un vapore insopportabile, segnata da odori di sangue e mentuccia. Qui c’è chi sopravvive rubando piante dagli androni dei portoni, chi cura gatti randagi e chi ascolta jazz e rock’n’roll. Una giovane donna dai capelli rossi, un cronista esausto a caccia di tenerezze e un vecchio giornalista che sta perdendo la memoria si incrociano ai margini della scena di un crimine. Dove sfilano badanti, redattori di giornali che inseguono scoop, giardinieri che conoscono la vita segreta delle orchidee, Bill Evans, i Clash e Pasolini. È la Roma del quadrante sud, quella che guarda il mare attraverso il percorso del Tevere. Un pezzo di metropoli trasformato in una mappa di luoghi e sentimenti dove, nonostante l’afa, crescono ancora le Aspidistre. E piccoli sogni di resurrezione e d’amore.

Amo et odio

Daniela Amenta ama e odia Roma. Si vede, si sente, si respira in ogni pagina di questo romanzo. Daniela Amenta, evidentemente, è una romana d.o.c., perché è così che si sente un romano. Ostaggio di una città e della sua bellezza. Una bellezza di cui si riempie la bocca “solo chi vive in certi quartieri e la vede da certe terrazze”. Tutti gli altri, devono trovare un modo per sopravvivere ai suoi tentacoli. E ad affitti in nero in case microscopiche. Ecco che, allora, un terrazzo può diventare un giardino botanico di piante dal salvare, un vinile l’unica ancora di salvezza nella vita, i gatti, un motivo per uscire di casa e riscoprire una coscienza civile.

Sopravvivere alla città

C’è Anna dai capelli rossi, ma chissà se le piacerebbe essere chiamata così, dato che anche il personaggio più famoso di lei lo odiava. Anna vive una vita sospesa, come tanti trentenni di oggi. Anna ha un mezzo contratto, a pochi soldi, e deve farselo piacere in qualche modo. Per sopravvivere, ruba piante. Sì, è lei la ladra di piante, preferibilmente quelle mezze smorte abbandonate negli androni dei condomini, che lei tenta disperatamente di salvare. C’è Riccardo, giornalista esperto. Lui si che ha un bel lavoro, ma non lo fa più con passione. E’ stanco delle notizie copia-incolla, stanco di direttori che non capiscono niente e seguono logiche di mercato che poco hanno a che fare con la qualità dell’informazione. C’è Lanfranco, un vecchio informatore, che vecchio lo sta diventando sul serio e sente che la memoria inizia a vacillare.

Sono entrata in questo orto, nel mio Getsemani pensile, all’ottavo piano di un palazzo perbene. C’è di tutto, qui. Piante sbilenche, rigogliose, piante con le flebo, piante mezze morte, malconce, c’è un tappeto di Aspidistre, ci sono quelle stronze di acidofile, le camelie e un rododendro che mi fa impazzire, ci sono le gardenie amatissime e piante di cui non so il nome. 

Certe atmosfere

Daniela Amenta conosce bene Roma, i personaggi che la popolano, è stata cronista di nera, e certe atmosfere che l’avvolgono in estate. E’ forse questa la parte più godibile del racconto, quella che mi ha conquistato. Se volete leggere di una Roma non da copertina, ma neanche criminale, che oggi le polarizzazioni vanno tanto di moda, questo romanzo vi offrirà una prospettiva diversa e affascinante, suo malgrado. Se amate le piante, non potrete non riconoscervi nell’opera pia che mette in piedi Anna, ma quale ladra? E, soprattutto, come sto facendo io in questo momento, nel cercare di capire quale parte del seme di avocado vada in acqua. Se vi piace la musica rock, quella senza autotune, troverete spunti interessanti. La storia di Daniela Amenta scorre via con facilità e si legge con piacere. A patto di sorvolare su qualche stereotipo di troppo, il vivaista contadino che assume solo stranieri “perché lavorano di più”, per esempio, la violenza di genere che viene infilata un po’ a forza, e francamente non necessaria e neanche approfondita a dovere, e su un giallo che parte troppo tardi e si risolve troppo presto.

“E secondo te, Valdesi, ci avrebbe fatto schifo qualche altro giorno di suspense…? Ecco, anche io sono d’accordo con il direttore, per una volta: qualche altra pagina di suspense non ci avrebbe fatto schifo.

Un’altra polarizzazione

Rimangono le descrizioni vivide di una città che non è come la squadra, che si ama e basta. Roma, se la ami, la ami e la odi, non c’è spazio per le vie di mezzo. Un’altra polarizzazione, a ben pensarci.

La casa era un ex lavatoio, ma in compenso aveva uno spazio esterno «sublime», come aveva detto la signorina Natalia facendogli firmare una stipula di comodato d’uso gratuito per 18 mesi. Per gratuito s’intendevano 800 iuros in nero, cash. Però il panorama valeva la pena e, in qualche modo, anche la truffa. Da lì prendeva forma la periferia dissennata di Roma che iniziava da Trastevere: una fila di parabole e cemento, treni e mattoni si allungava verso viale Marconi. Oltre s’ergeva, sferica e di salnitro, la torre del Gazometro. Si vedevano le pendici di Garbatella che, a un tratto, perdeva i toni pastello dei tetti per diventare di acciaio all’Eur. Si vedeva la cappa d’afa su Portuense e il verde spento dei platani ad accompagnare il viaggio del Tevere. E in certi giorni speciali la facciata d’oro di San Paolo brillava come una medaglia sul petto di questa città sfacciata. 

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