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La moglie coreana, sorellanza che non si spezza

La moglie coreana è il romanzo che stiamo leggendo per il BookClubPeC di maggio. Siamo a metà dell’opera e ormai i personaggi hanno preso vita. Dopo aver commentato tempi e luoghi in cui Min Jin Lee ha ambientato la sua storia, ora ci focalizziamo sulle persone.

La famiglia Baek

Stavolta i protagonisti non sono una coppia, ma un’intera famiglia, la famiglia Baek, di cui seguiamo la vita per generazioni. . Come ve li immaginate? Cosa sappiamo di loro?

Sunja all’inizio del libro è una giovanissima coreana che rimane incinta di Hansu, più grande di lei e già sposato. Sunja è ingenua, sì, ma eticamente incorruttibile. Non vuole diventare l’ennesima amante di un uomo ricco e accetta di seguire Isak in Giappone. E di sposarlo. 

Isak è un uomo cagionevole di salute, profondamente religioso e molto buono. Proviene da una famiglia che una volta era benestante ed è elegante nei modi. Vuole aiutare Sunja e la mamma, che hanno fatto molto per lui. Per questo sposa Sunja e raggiunge il fratello a Osaka.

Kyunghee è la cognata di Sunja, la moglie del fratello di Isak, Yoseb. E’ più grande di Sunja e diventa subito la sua Onnie (Onnì la pronuncia in italiano), la sorella più grande secondo il complesso vocabolario dei nomi familiari coreani. E’ una donna pratica e molto devota al marito e, negli anni, lei e Sunja diventeranno l’una per l’altra le colonne cui appoggiarsi per fronteggiare la vita.

Yoseb è il fratello di Isak. Un uomo che della protezione della sua famiglia ha fatto un credo, che porta avanti nonostante tutto e tutti. Un uomo disposto a lavorare a testa bassa, e a farsi mettere i piedi in testa, pur di non perdere il precario equilibrio che ha raggiunto nella società.

Hansu è forse il personaggio che mi ha colpito di più. Enigmatico, scaltro, è un coreano che è riuscito a farsi valere in Giappone, usando tutte le risorse a sua disposizione, criminali e non. E’ forse il personaggio che rimane più coerente con se stesso, dall’inizio alla fine. E anche quello che riesce a leggere i moti della storia e della società meglio di tutti gli altri. Questo, però, non gli garantisce la felicità.

E voi? Cosa pensate di Sunja e gli altri?  

Come vi ho già detto, sentitevi liberi di commentare sotto il post le vostre sensazioni, perplessità, emozioni, e tutto ciò che il libro di Min Jin Lee vi sta dando, in positivo o negativo. Non fatevi bloccare dalla timidezza, più riusciamo a esprimerci liberamente e più una lettura condivisa acquista valore.

Aspetto i vostri commenti qui sotto! 🙂 

Se volete recuperare o aggiungere qualcosa sull’ambientazione, cliccate qui:

La moglie coreana tra i venti taglienti di Busan

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Georges Simenon, Tre camere a Manhattan

Georges Simenon, Tre camere a Manhattan. Per un attimo, l’autore belga lascia da parte il commissario di polizia Maigret e si mette febbrilmente a scrivere una storia che consegna all’editore dopo soli sei giorni. Una storia d’amore, di solitudine e, forse, di nuovi inizi.

Trama 

New York, notte. Un uomo e una donna camminano lungo la Quinta Strada. Entrano in un bar. Ne escono. Un altro bar. E riprendono a camminare, instancabili, come se non potessero fare altro che camminare: «come se avessero sempre camminato così, per le strade di New York, alle cinque del mattino». Come se la notte non dovesse mai finire. Lui non sa niente di lei, lei non sa niente di lui. Lei traballa un po’ sui tacchi troppo alti, e ha una voce roca, una voce che fa pensare a una pena oscura; su una delle sue calze chiare spicca una smagliatura sottile – come una cicatrice. Non è né giovanissima né prepotentemente bella; sul suo viso, i segni di una stanchezza, di una ferita remota: ma è proprio questo a renderla seducente. Si sono incontrati solo poche ore prima, in una caffetteria nei pressi di Washington Square, come due naufraghi, e ora «sono così tenacemente avvinti l’uno all’altro che la sola idea della separazione risulta loro intollerabile».

Due solitudini che s’incontrano

“Chissà, magari di lì a un’ora, o a mezz’ora, sarebbero ridiventati due estranei…Non era per questo che continuavano a prendere tempo, che da quando si conoscevano non avevano fatto che prendere tempo, perché niente lasciava loro intravedere un possibile futuro?

Pare quasi di vederli, quei due, tra le strade brumose di Manhattan, mentre camminano incessantemente per non doversi fermare e riflettere, guardarsi in faccia, chiarire la natura del loro rapporto. La frase che ho citato, secondo me, dà senso all’intero romanzo. Un romanzo chiaramente autobiografico, che Georges Simenon scrisse addirittura in sei giorni, tanta era l’urgenza di mettere su carta il fuoco che gli ardeva dentro. “L’ho scritto a caldo e questo mi ha fatto paura”, così commentava il processo di scrittura.

Il simbolo del 3 

Sì, il fuoco, di un uomo che lascia il mondo così come l’aveva conosciuto fino a quel momento, la vecchia Europa, e si imbarca su una nave danese per raggiungere New York. Un mondo diverso, dove lui non è nessuno, mentre in Europa era già un romanziere affermato. Un uomo che in quel momento sta mettendo in discussione la sua vita, il suo lavoro e il suo matrimonio. Il romanzo, infatti, è stato scritto nel periodo in cui l’autore aveva già iniziato a frequentare la donna che anni dopo diventerà la sua seconda moglie, Denyse Ouimet. Al contrario del personaggio di Tre camere a Manhattan, Georges Simenon lascerà la moglie solo quando Denyse gli comunicherà di aspettare un figlio da lui. Dubbi e lacerazioni dell’uomo Simenon che ricorrono nella simbologia del tre, che pervade le pagine: tre camere, relazione a tre tra i protagonisti e i rispettivi ex, relazione a tre anche tra la coinquilina di Kay e i suoi amori. nell’ultima camera, è una porta a fare da spartiacque: rimarrà chiusa o aperta?

Lo smarrimento

Nel romanzo, predomina il senso di solitudine, lo smarrimento dei protagonisti è percepibile. Lui, François Combe, è un attore francese tradito dalla moglie, che pubblicamente lo ha sostituito con un attore molto più giovane e che, baciato dal successo in patria, ora fatica a trovare anche piccoli ruoli. 
Lei, Kay Miller, è una donna che ha abbandonato marito facoltoso e figlia per ricostruirsi faticosamente una vita, di cui porta i segni in faccia. Il romanzo di Georges Simenon va letto con gli occhi dell’epoca. Oggi, una trentacinquenne e un quarantottenne potrebbero benissimo iniziare una nuova vita, senza grandi traumi. Lo scrittore, invece, parla di una donna ormai sfiorita, che i suoi amici gli invitano a lasciar perdere perché sicuramente in cerca di un uomo che la salvi dalla perdizione.

Guardarsi allo specchio

Ecco, questo aspetto mi ha un po’ infastidito. François Combe mostra a tratti una personalità violenta, che mette in discussione i comportamenti di Kay senza guardarsi mai allo specchio. Lei, al contrario, sembra più fragile di quanto non sia. In realtà, nella vita ha saputo compiere scelte dure e assumersene la responsabilità. Sì, è vero, naviga nell’oblio e frequenta bar equivoci a notte fonda, ma l’immagine che siamo portati a farci nelle prime pagine viene smentita via via che il romanzo va avanti. Sicuramente più risolta lei, certamente una donna che sa comprendere lo sconvolgimento che gli alberga dentro, perché ha vissuto anche lei quella fase. Lui, invece, cerca giustificazioni per le sue azioni, addossando sempre la colpa a qualcuno. Alle donne, essenzialmente: prima la moglie, poi la sua natura di uomo, poi Kay. Come lo chiameremmo oggi? 

Leggi anche: 
http://www.pennaecalamaro.com/2020/08/17/sex-and-the-city-60-tappe-new-york-parigi/
http://www.pennaecalamaro.com/2018/01/11/terapia-coppia-amanti-diego-de-silva/

La moglie coreana tra i venti taglienti di Busan

Per il Book Club, stiamo leggendo La moglie coreana, di Min Jin Lee. Dopo la prima settimana di lettura solitaria, o qualcosa di più, siamo pronti per parlare insieme dell’ambientazione.

Sentitevi liberi di commentare sotto il post le vostre sensazioni, perplessità, emozioni, e tutto ciò che il libro della scrittrice americana vi sta trasmettendo, in positivo o in negativo.

Il romanzo inizia nel 1910 

E finisce nel 1989. Inizia in Corea, e precisamente a Yeongdo (Iondò in italiano, 영도), un isolotto di circa otto chilometri nella baia della città portuale di Busan, e finisce in Giapppone, a Tokyo. Comincia raccontandoci la storia del matrimonio combinato tra Hoonie e Yangjin e la nascita di Sunja, la protagonista che poi seguiremo per (quasi) tutto l’arco della vita. La vita sull’isola non è facile: “la piccola locanda era sferzata da venti taglienti, e le donne imbottivano gli indumenti infilando dell’ovatta tra gli strati di stoffa. In tutto il mondo c’era la cosiddetta Depressione, affermavano i pensionati, ripetendo quanto avevano sentito al mercato da chi sapeva leggere i quotidiani“. Non è facile sull’isola, ma neanche la prospettiva di emigrare rappresenta una soluzione: “la povertà era la stessa in America, in Russia o in Cina. E, in nome dell’imperatore, anche in Giappone la gente comune viveva di stenti e così nella Corea occupata“.

Osaka

Qualche anno dopo, ritroviamo Sunja a Osaka. Perché ci sia andata e con chi lo scopriremo la prossima settimana, quando parleremo dei personaggi. Per ora, andiamo avanti con l’ambientazione.  Aspetto i vostri commenti: Min Jin Lee come descrive il paesaggio? Siete riusciti a immergervi tramite le sue parole? Vi è sembrato di essere con Sunja in una remota isola asiatica? Vi piacerebbe vedere com’è oggi Busan? E il distretto coreano di Osaka?

Sono solo alcuni suggerimenti. Sentitevi liberi di riportare frammenti di testo e le vostre parole. Non ci sono quelle giuste, né quelle sbagliate. Qui quello che importa sono sono le nostre emozioni.

Avete voglia di provare? Aspetto i vostri commenti sotto a questo post!

p.s. ovviamente se l’avete già letto, o se capiterete in futuro su questo post, i vostri pareri sono benvenuti 🙂

Leggi anche: 

A maggio leggiamo Min Jin Lee e il pachinko

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Jane Austen favorevole allo schiavismo?

Quale famosissima autrice viene messa oggi in discussione come favorevole allo schiavismo a causa del suo amore per il tè e gli abiti di cotone? Ho fatto questa domanda sui social e nessuno ha saputo rispondere. Il che non mi stupisce. Chi avrebbe mai pensato che anche Jane Austen potesse essere sottoposta a revisionismo storico? Invece sì. E quando saprete CHI l’ha sottoposta al giudizio dei contemporanei, rimarrete ancora più increduli. Leggete sotto cos’è successo.

Jane Austen’s House nella tempesta 

Tutto parte dal movimento Black Lives Matter, al quale hanno aderito anche i musei.  Tra questi,  c’è  il museo di Jane Austen nel villaggio inglese di Chawton, dove passò gran parte della sua breve vita. Il mese scorso il museo, Jane Austen’s House, ha iniziato questo processo di “interrogazione storica”, attraverso lo studio dei legami della famiglia Austen con la tratta degli schiavi. Il padre di Jane, infatti, era l’amministratore di una piantagione di zucchero sull’isola caraibica di Antigua. I membri della sua famiglia, quindi, avrebbero consumato prodotti della tratta degli schiavi come tè, cotone e zuccheroLa tratta degli schiavi e le conseguenze del colonialismo nell’era regency hanno toccato ogni famiglia. Quella di Jane Austen non ha fatto eccezione“, ha dichiarato al Daily Telegraph la direttrice del museo, Lizzie Dunford. La quale ha anche aggiunto: “questo è solo l’inizio di un costante e ponderato processo di interrogazione storica”. 

La polemica e le reazioni del museo

Vi lascio immaginare la polemica seguita a queste dichiarazioni, “follia“, la più blanda. Al che, il museo ha dovuto rilasciare una dichiarazione, in cui afferma che “non abbiamo mai avuto alcuna intenzione di contestare Jane Austen, i suoi personaggi o i suoi lettori per aver bevuto tè“. Il museo si è giustificato dicendo che i visitatori sempre di più chiedono informazioni sul legame della scrittrice con la tratta degli schiavi, che dal 1807 fu vietata nell’impero britannico. “È quindi appropriato che condividiamo le informazioni e le ricerche che già esistono sui suoi collegamenti con la schiavitù e e le citazioni che fa nei suoi romanzi “. Il piano del museo, quindi, sarebbe quello di indagare non tanto il comportamento singolo di una persona, ma l’eredità dell’Impero britannico e il suo ruolo nella tratta degli schiavi. 

E i lettori? Cosa ne pensano?

Intanto, i lettori cosa ne pensano? Sostanzialmente, preferiscono non prendere parte al dibattito e continuare a godersi la lettura come hanno sempre fatto. Secondo Claudia L. Johnson, professoressa alla Princeton University e autrice del saggio Jane Austen’s Cults and Cultures, chi legge Jane Austen, vuole immaginare che vivesse in un mondo più tranquillo e civile”. I suoi romanzi, infatti, hanno come protagonista una ristretta élite e sono ambientati in villaggi di campagna, per lo più tagliati fuori dai problemi del mondo esterno. Altri studiosi, invece, affermano che nei suoi romanzi ci siano tracce di una sua posizione abolizionista, ma sono abbastanza incerte e nella sua corrispondenza privata non sono emersi ulteriori elementi. Altri ancora, più prosaicamente, affermano che è ingiusto giudicare la coscienza civile di una persona fuori dal suo tempo e che tutti noi, consapevolmente o inconsapevolmente, nella nostra vita quotidiana finiamo in contraddizione con gli alti principi civici e sociali che professiamo. 

E noi? Cosa ne pensiamo?

Io penso che, semplicemente, Jane Austen fosse davvero tagliata fuori dal mondo, i suoi romanzi lo dimostrano ampiamente, e che giudicarla con gli occhi di chi ha ha già visto l’evoluzione della storia, sia un esercizio di stile e nient’altro. D’altra parte, non è preferibile giudicare gli altri piuttosto che lavorare sui nostri comportamenti?

E voi, a quale corrente di giudizio storico sentite di appartenere? Scrivetemi nei commenti!

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A maggio leggiamo Min Jin Lee e il pachinko

Il Book Club PeC lascia, ma non del tutto, l’ambientazione americana e, per la terza lettura, si avventura in Asia. Un libro al mese, scelto insieme. Stavolta, leggeremo La moglie coreana dell’autrice americana, di origine coreana, Min Jin Lee.  Parleremo dell’ambientazione, dei personaggi, della storia. Ci confronteremo con sensazioni, modi di pensare, idee diverse dalle nostre. E’ anche questo il bello di condividere e confrontarsi, no? Allora, se siete pronti con il libro in mano, vi lascio qualche dettaglio iniziale sul romanzo che stiamo per leggere e un’avvertenza su cosa l’abbia ispirato. Alla prossima settimana con altre curiosità sul romanzo e il primo dibattito!

Pachinko

La moglie coreana, Pachinko nel titolo originale, è un romanzo di Min Jin Lee, un’autrice americana nata nel 1968 da una famiglia di origine coreana. Ormai per me è una condanna, anche stavolta ritengo Pachinko un titolo più azzeccato per la storia che racconta? Perché? Ne parleremo durante la lettura, magari alla fine. Intanto, vi dico che il pachinko è una sala giochi, un business considerato equivoco.

pachinko-parlor

Prima di partire 

E’ la stessa Min Jin Lee, nella prefazione, a spiegarci come le è venuta l’idea per questo romanzo: “ero al terzo anno di università, nel 1989, e un giorno assistetti a un ‘Master’s Tea’, una lezione tenuta da un relatore d’eccezione ospite di Yale. Un missionario americano che svolgeva il proprio operato in Giappone teneva una lezione sugli zainichi, un termine spesso usato per descrivere i giapponesi di origine coreana che erano migranti di epoca coloniale, oppure loro discendenti. Il missionario parlò di questa lunga storia e raccontò la vicenda di un ragazzino delle scuole medie il cui nome era stato infangato all’interno dell’annuario scolastico per via delle sue origini coreane. Il ragazzino si era lanciato da un edificio ed era morto. Non lo dimenticherò mai. Dopo aver abbandonato la carriera legale, fin dal 1996 ho deciso di scrivere dei coreani che vivono in Giappone”. 

Vuoi partecipare? 

Sei capitato qui per caso, ma vorresti saperne di più? Se anche tu vuoi partecipare al Book Club PeC leggi qui come farlo. Unico requisito: tanta voglia di leggere.

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